L’8 marzo che fa guarire dal diallele

Ernesto Cardenal, Ministro della Cultura del Nicaragua, 1983 

- foto tratta da commons.wikimedia.org

C’è un’evenienza drammatica che ogni mamma e ogni papà teme per i propri figli come l’aprirsi di una buia prospettiva mai troppo considerata e sempre invece scongiurata: il cosiddetto “ritiro sociale”, noto anche come “hikikomori”.

Eppure è proprio questa la misura che in queste ore viene richiesta nel nostro Paese per contenere la diffusione dell’epidemia da coronavirus. L’ossessione della privacy ha quasi costretto alla necessità di estroversione, di frequentazione pubblica e sociale, di ricerca di contatto. Ora invece il privato, addirittura nella sua stessa configurazione logistica, fisica, abitativa, riafferma le proprie capacità salvifiche con una urgenza tale da lasciare attoniti. Eppure dal virus ci si salva solo tutti assieme oppure non ci si salva. Ognuno ed ognuna di noi, adottando precisi comportamenti pur individuali - non propriamente personali –, crea le condizioni per la vita altrui oltreché per la propria. È una dialettica completamente nuova, quasi sconosciuta, che le nostre culture politiche, filosofiche, religiose non sono mai riuscite a mettere prima a fuoco.

La figura del prete trappista Ernesto Cardenal, morto lunedì scorso ed i cui funerali si sono celebrati giovedì a Managua in un clima di contestazioni e di violenza (http://www.fides.org/it/news/67504-AMERICA_NICARAGUA_Urla_e_violenze_nella_Cattedrale_di_Managua_ai_funerali_di_p_Ernesto_Cardenal), è evocazione potente di una stagione non solo di Chiesa evangelicamente profetica, ma di partecipazione etico-politica, che seppe fare della poesia occasione di riscatto per i più poveri, deboli, oppressi.

Il monaco Cardenal fu ministro della Cultura allorché la rivoluzione sandinista riuscì ad affermarsi, in Nicaragua, sulla dittatura di Somoza. E pure il fratello, Fernando, prete non monaco bensì gesuita, fu ministro sandinista dell’Educazione.

Un governo rivoluzionario con due preti suoi membri.

La partecipazione di un popolo intero, dove ognuno si sentiva responsabile di sé e degli altri. Delle altre.

È stata la poetessa nicaraguense Gioconda Belli a comunicare la morte di Ernesto Cardenal (https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2020-03/nicaragua-morte-ernesto-carneval-poesia-sospensione-papa.html). Una donna ha annunciato al mondo la morte di un prete, riammesso da Francesco papa al ministero presbiterale dopo la sospensione dovuta proprio alla militanza politica ed agli incarichi governativi.

Il nostro privato oggi ci salva dal virus. Il nostro privato oggi è assolutamente necessario. Ma a chi pensiamo e chi amiamo dal nostro forzato isolamento? Chi possiamo chiamare al telefono, con chi possiamo chattare e video-chiacchierare? Una cosa è dover rimanere isolati, altra sentirsi soli e abbandonati.

L’8 marzo non è mai molto transitato nella coscienza della comunità cattolica, come se ci fosse un divieto di accesso sostanziale se non formale. Come se fosse occasione, molto pericolosa, di riflessione atta a spezzare una specie di “diallele ecclesiale”, di pensiero circolare, per cui, ammessa un’alterità irriducibile – come quella delle donne (al plurale), costantemente silenziate e private di parola riconosciuta come autorevole –, potesse scaturire un’imprevedibile riconfigurazione dell’identità stessa della Chiesa alla sequela dell’uomo di Nazaret, che molto ebbe a che fare con donne delle più diverse provenienze.

La presenza delle donne è stata costante nella vita di padre Ernesto Cardenal già dalle esperienze di condivisione ecclesiale raccolte nel volume Il Vangelo e Solentiname, edito in Italia da Cittadella nell’ormai lontanissimo 1976.

Lontanissima, forse a molti ormai ignota, potrebbe ritenersi ormai anche la Teologia della Liberazione, di cui i Cardenal, entrambi - il trappista e il gesuita -, furono insigni rappresentanti. Eppure le scelte magisteriali dell’attuale Vescovo di Roma sembrano molto vicine, se non sovrapponibili, alle istanze di quella Teologia. Con alcune questioni, tuttavia, irrisolte e non ricomprese, quale ad esempio la questione delle donne nella Chiesa.

Sono, questi, giorni in cui sembra che l’impossibile pratica religiosa comunitaria faccia collassare il sacro e dunque, con il sacro, anche tutto il divino ed ogni universo religioso.

Il “diallele” sta qui per la comunità ecclesiale. Il circolo vizioso intellettivo. “Diallele” non è nome di patologia medica ma di fallacia argomentativa.

Se non c’è liturgia non c’è Chiesa perché la Chiesa celebra la liturgia. Ma che cos’è la liturgia? La vita della Chiesa. E allora che cos’è la Chiesa? È il soggetto celebrante della liturgia. Sì, ma così il cerchio ermeneutico che ritorna sempre al punto di partenza non si spezza.

Riproviamo: che cos’è la liturgia? La nostra vita. E allora che cos’è la Chiesa? Lo spazio in cui qualcuno ci domanda di che cosa abbiamo bisogno per la nostra vita.

Un privato assoluto richiesto da una eccezionale situazione sanitaria porta a chiederci se gli universi non già religiosi ma soggettivi abbiano mai avuto – come accade per le donne – spazi ecclesiali davvero significativi. La soggettività non è l’opposto della comunità, ma la seconda può tranquillamente ignorare la prima o considerare non prioritarie le sue urgenze. Sono le teologie femministe – non una, molte teologie – a proporre la sintesi tra comunità e soggettività. Proprio perché si tratta di voci che, negli spazi ecclesiali, sono state depotenziate istituzionalmente con ricadute di impoverimento comunitario di cui oggi raccogliamo i frutti avariati.

Il “diallele ecclesiale” ha infatti anche sembianze strettamente istituzionali, o addirittura proprio giuridiche. Anche dalle righe di questo nostro settimanale abbiamo guardato criticamente al silenzio di “Querida Amazonía” sui due spunti di effettiva riforma ecclesiastica che il Documento Sinodale del Sinodo Amazzonico presentava: l’ordinazione presbiterale di diaconi sposati ed il riconoscimento ministeriale delle donne.

Ed il diallele stava, a nostro modestissimo avviso, nell’affermazione ad esempio, da un lato, di una insostenibile penuria di ministri atti a presiedere la celebrazione eucaristica in quella regione e, dall’altro, nella riaffermazione di un’immagine del tutto scontata e tradizionale di presbitero, quella esattamente che non solo manca ma che neppure si riesce ad assicurare.

I Vescovi avevano chiesto l’ordinazione presbiterale di diaconi anche sposati, ma l’Esortazione Apostolico di essi non parlava pur parlando della necessità di presenze presbiterali in Amazzonia.

Eppure - la notizia è recentissima - sembra che da tale “ecclesiologia circolare” (diallelica) si possa uscire ad iniziativa degli stessi Vescovi amazzonici i quali, in nome del fatto per cui “Querida Amazonía” né supera né sostituisce il Documento Finale, quella istanza di riforma ecclesiale avanzano con richieste massive di dispensa dall’impedimento semplice all’ordinazione presbiterale costituita dal matrimonio: si può vedere al link https://www.cath.ch/newsf/premieres-exceptions-au-celibat-sacerdotal-attendues-pour-lamazonie/.

Il privato in quanto espressione di una soggettività che a sua volta è tale solo perché in relazione, in scambio, in confronto, in dialogo, con altri soggetti – e non oggetti – è dimensione molto diversa dall’autosufficienza e, mentre non si possono dare nella Chiesa riti privati in quanto autosufficienti, si possono, anzi si devono, percorrere cammini del tutto personali di maturazione e consapevolezza ecclesiale. E tale maturazione e consapevolezza abbisognano di scoprire il valore dell’appartenenza alla comunità civile.

Ieri sera, in una celebrazione eucaristica dei primi Vespri della domenica, un prete, a me carissimo, ha affermato durante l’omelia: stiamo imparando, con sofferenza, che l’assoluto non sono le liturgie, assoluto è Dio solo, il Signore.

Si è colto un attimo di sospensione nell’assemblea a quelle parole, come se una verità che ci abita interamente, tale per cui Dio diventa nome appassionatamente evocativo del nostro corpo, del nostro respiro, del nostro amore, del nostro desiderio, dei nostri dubbi e delle nostre paure – un Tu supremo eppure non suprematista, sovrano e non sovranista, sponsale e non imborghesente, Altro eppure più intimo di me stesso -, come se quella verità fosse capace di salvarci da ogni disperazione e di riconsegnarci ad una capacità celebrativa laica che fu la medesima di Gesù di Nazaret e che fa sperare la comunità credente oltre la morte.

Di un Dio donna continuiamo ad avere immenso, diuturno bisogno, ma di un Cristo donna, di una Crista, neppure abbiamo iniziato a parlare nelle nostre comunità, lasciandolo tema cristologico quasi provocatorio in grembo alle teologhe. Per quanto a me noto, nessun teologo maschio ha mai affrontato il tema del Cristo donna; posso ovviamente sbagliarmi e ne sarei assai lieto.

Anche Leonardo Boff, nel suo libro appena uscito in Italia, per Emi, Soffia dove vuole. Lo Spirito Santo dal Big Bang alla liberazione degli oppressi, ripropone ancora il tema, già da lui intensamente frequentato, della “pneumatizzazione” di Maria, giungendo a scrivere, a p. 181, che «La presenza dello Spirito in Maria fu così intima e densa che egli rivelò quello che è e sempre ha mostrato nella creazione: è lo Spiritus creator, lo Spirito creatore e generatore, colui che dal caos originario trasse tutti gli ordini e penetrò tutti i movimenti creativi dell’evoluzione ascendente.»

Un 8 marzo di emergenza nazionale, intercontinentale, mondiale spezza tutti i limiti di ogni pensiero circolare e suggerisce che imprescindibile, per la vita di ognuna ed ognuno, è poter finalmente pronunciare solo due lettere: tu.

Come Ernesto Cardenal ha fatto, sino alla morte.

Tu detto a chiunque ci stia veramente a cuore.

Dio compreso.

Buona domenica,

 

Stefano Sodaro