Lasciare Dio per Dio, l’ora nona incomprensibile
Crocifissione con due Santi domenicani, Pietro Cavallini, 130-1309,
cappella Brancaccio, Napoli, Basilica di San Domenico Maggiore
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Viviamo tutte, tutti, ore che mai avremmo pensato, neanche lontanamente, di poter vivere. Un’emergenza sanitaria di tale gravità da impedire la libertà di movimento, un acuirsi di incertezza che cerca comunque di lasciar parlare speranza e ottimismo ma che deve venire a patti con il realismo.
Ha dimensioni di tragedia, più che di dramma, questo marzo 2020 per il nostro Paese. Sembra venuto meno ogni riferimento consolidato di senso, ogni strumento interpretativo, che si dimostra alla fine inadeguato, tranne uno: l’amore per la vita, la vita degli altri, la vita nostra. La tragedia sta nella preoccupazione che si coglie dappertutto – tranne in una frangia di concittadini ed opinionisti ancora più o meno larvatamente negazionisti, ma che comunque devono anch’essi adeguarsi a norme inaudite (cioè mai prima osate) di comportamento collettivo – di avere a che fare con il vivere ed il morire.
Dover osservare un metro di distanza anche negli spazi personali più intimi, per cercare di evitare e contenere il contagio, sopravanza di molto una certa ilarità, un po’ fuori le righe, nel sostenere che si sta tanto bene a casa, in famiglia. No, non si sta bene. Si è preoccupati, si leggono comunicati stampa della Protezione Civile e si guardano i telegiornali. La compagnia della morte non è una buona e bella compagnia. E se il panico dev’essere scacciato con la consapevolezza di dover rimodulare dalle radici gesti e priorità per combattere assieme un male ignoto, che sia proprio la morte a comandare le nostre scale di valori importanti, cui dedicarci e di cui occuparci, mette angoscia.
Forse l’unica comparazione possibile – ma forse anche no – è con una guerra batteriologica, ma forse no perché non ci sono uomini che abbiano scatenato volontariamente offensive micidiali di tal genere contro altri uomini. E forse, tuttavia, questo frustra ancor di più la necessità impellente di trovare uno sfogo, di sapere dove stia una “colpa”, una “responsabilità”, per reprimerla, punirla e così ristabilire un possibile ordine ritrovando pace satisfattiva.
In questa ricerca di un Altro che non si trova, perché corrisponde alla stessa alterità del buio che avvolge una nazione intera, compare anche il tema, inquietante e consolante allo stesso momento, della presenza di Dio.
La Comunità Ecclesiale italiana è sconvolta, neppure essa riesce a trovare le parole adatte per affrontare pastoralmente questo tratto di vita della sua gente. E ciò non, o non tanto, per incapacità propria - comune a tutti e a tutte -, bensì perché ogni riferimento consolidato, anche liturgico, è saltato completamente.
Ormai, infatti, non è più neppure questione di come celebrare l’Eucaristia: la questione è andata addirittura oltre, molto oltre, trattandosi ormai di impedire, per salvare la vita di tutto un popolo, l’accesso a qualsiasi luogo estraneo, esterno allo spazio domestico, salve le ragioni espressamente previste dal Governo. E così viene in rilievo anche l’accesso alle chiese e il desiderio che molti e molte nutrono di potervisi recare se esse siano aperte e se l’accesso sia comunque consentito anche soltanto per singole presenze individuali distanziate e preservate da ogni contatto, con i rischi, tuttavia, correlati all’uscita da casa ed all’incontro con chiunque, purtroppo, in questi giorni.
Affermava San Vincenzo de’ Paoli: «Non è lasciare Dio, quando si lascia Dio per Iddio, ossia un’opera di Dio per farne un’altra. Se lasciate l’orazione per assistere un povero, sappiate che far questo è servire Dio. La carità è superiore a tutte le regole, e tutto deve riferirsi ad essa. È una grande signora: bisogna fare ciò che comanda.» (Cfr. lett. 2546, ecc.; Correspondance, entretiens, documents, Paris 1922-1925, passim).
Pur essendo personaggio di fine Cinquecento e metà Seicento, l’intuizione, così simile a quelle della patristica, appare in questa congiuntura ecclesiale di straordinaria attualità.
È il momento della Crocifissione per tutta la nostra gente, il suo Venerdì Santo. Lo struggimento della Cena del Giovedì è ormai transitato nello strazio del Calvario. E sarebbe necessario, urgente, indifferibile annunciare pastoralmente, in tutti i modi possibili, che Dio è lì, che il suo Cristo rivive nelle nostre sofferenze, nei lutti di chi non può neppure salutare il proprio caro, la propria cara, che il coronavirus s’è portato via. Il Cristo è nelle corsie degli ospedali, nei reparti di rianimazione, nelle case abitate da chi è in isolamento perché contagiato e da ognuno ed ognuna di noi perché costretto.
Con rispetto profondo per ogni sensibilità, capendo bene quanto sia importante il riferimento simbolico anche dell’edificio materiale, concreto, individuato, dove la Comunità cristiana si raccoglie, in queste giornate, ore, persino minuti, avvertiamo il bisogno di sentire Dio dalla nostra parte, dalla parte dei medici e degli infermieri, dalla parte di chi ci dice cosa fare. Dalla parte di chi in chiesa non può andare.
Lasciare il Dio delle chiese per incontrare il Dio delle nostre singole vite – che comunque non si vivono neanche in condizione normali dalla mattina alla sera in spazi sacri – è dinamismo di Incarnazione.
Il ricorso ad espressioni come “comunione di desiderio”, “confessione di desiderio”, sembra affettuoso attaccamento, abbastanza nostalgico, a forme che, tuttavia, ritengono normali e consuete le comunioni e le confessioni ben reali e dunque non solo desiderabili. Però al momento non siamo in grado di sapere quando il desiderio potrà trasformarsi in realtà e dunque l’interrogazione va a chiedersi come sia possibile celebrare il Dio “lasciato” per andare a Lui, che cosa sia questo paradosso assoluto, come si possa affrontare, vivere a sua volta il lasciare Dio per Dio. E nessuno ha prontuari o moduli.
Colpisce, un po’, ad esempio, che il richiamo alla Liturgia delle Ore sia abbastanza poco presente nelle raccomandazioni pastorali, mentre tutto pare ricondursi all’interrogativo sulla celebrazione eucaristica, sulle sue residue concrete possibilità. Il volume di Andrea Grillo Tempo e preghiera. Dialoghi e monologhi sul «Segreto» della liturgia delle ore, pubblicato da EDB nel 2001, costituisce lettura importante al riguardo. La Liturgia delle Ore può essere celebrata da chiunque, prete oppure no, ed inserisce nella comunione profonda di vita ecclesiale superando anche un certo rinvio alla lettura solo mentalmente impegnativa della Scrittura. La Liturgia delle Ore è effettivamente luogo dove si ritrova il Dio “lasciato” nel rito eucaristico.
Che Dio possa essere lasciato per se stesso è in ogni caso constatazione così sconvolgente da sembrare scandalosa. Lo stesso scandalo della Croce, dove Gesù di Nazaret “gridò a gran voce” dove Dio fosse e perché lo avesse abbandonato.
Forse dovremmo non scandalizzarci allora della nostra difficoltà a reggere l’impatto ecclesiale di una realtà del tutto imprevista e di molto superiore ad ogni immaginazione. Se “la realtà è superiore all’idea”, come afferma il Papa, è proprio ora il momento di rendercene conto.
La realtà concreta, concretissima, è superiore ad ogni nostra idea anche ecclesiale e dunque ad ogni nostro “ideale ecclesiale” che sconti di necessità il già visto e il già praticato. Vi siamo obbligati dalla necessità di non muoverci dalle nostre case. La realtà supera ogni idea già pensata.
Siamo stati spinti, a forza, con violenza, ad oltrepassare un varco che da soli non avremmo varcato mai. In qualche modo è la fine del rito, la cessazione del “cerimoniale” per noi abituale, quand’anche giustamente, del tutto correttamente, affermiamo con forza che l’Eucarestia non è una cerimonia, che nessun sacramento è una cerimonia (come pure tuttavia mi capitò di udire dalla bocca di un vescovo).
Qui, ora, non dobbiamo toccarci occhio, naso e bocca. Siamo impediti nella nostra gestualità più semplice e addirittura semplicemente umana che fa di noi quel che siamo. Lasciare Dio per Dio è anche lasciare noi stessi per noi stessi.
Oggi, domenica terza di Quaresima, nessuna comunità parrocchiale in Italia celebrerà l’Eucarestia.
Nel brano evangelico di Giovanni proposto per la messa di quest’oggi, la Samaritana “lasciò la sua anfora”. E “andò in città”. Poco prima, nel contesto del racconto, Gesù l’ha avvertita: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre.»
Anche a noi viene richiesto, dalle terribili condizioni attuali, di non adorare il Padre né sul monte della liturgia pubblica né nella Gerusalemme della nostra casa comune costruita per la cena da celebrare assieme. «Viene l’ora - ed è questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità.»
È durissima capire cosa significhi “adorare” e che cosa significhi adorare “in spirito e verità”. Pare proprio ammonimento a non cadere in luoghi comuni piuttosto facili.
Per un canonista, sembra possibile un ricorso ampio, generoso, senza remore, alla piena applicazione del principio del “supplet Ecclesia”, codificato al canone 144 § 1 del Codice di Diritto Canonico, laddove si prevede che anche in semplice dubbio probabile di fatto il ministro sacro possa agire secondo coscienza perché è la Chiesa tutta a “supplire”, a “sopperire”, ad eventuali difetti che si accompagnino all’esercizio del ministero, il quale richiede, di per sé, non solo requisiti derivanti dalla valida ordinazione ma anche dal legittimo godimento della cosiddetta “potestà di governo esecutiva”. Ed è proprio il can. 144 § 1 a richiamare, tra gli altri, il can. 966, il quale dispone che: per la valida assoluzione dei peccati si richiede che il ministro, oltre alla potestà di ordine, abbia la facoltà di esercitarla sui fedeli ai quali imparte l’assoluzione, previsione che, nelle attuali circostanze, potrebbe comportare dubbi di varia natura, tutti riconducibili però al risolutore principio di supplenza del can. 144 § 1. Tale principio, con supporto di ecclesiologi, pastoralisti e liturgisti, potrebbe poi trovare un immediato ben più ampio campo di applicazione rispetto alle mere norme canoniche vigenti.
Lasciare Dio per Dio è un po’ veder morire Dio. Un’assurdità metafisica, ontologica. Un Sabato Santo improvviso, come ha meditato Gianfranco Brunelli (https://re-blog.it/2020/03/12/preparare-la-pasqua-nel-sabato-del-tempo/).
Eppure Dio ora ci attende, pare, dove non avremmo mai pensato di poterlo adorare nel Suo Cristo la domenica. È l’ora nona, quando si fece buio su tutta la terra.
Che sia però una buona domenica, nonostante tutto, per tutte, per tutti.
Perché è la Risurrezione la Parola finale, sempre.
Stefano Sodaro