Fine vita

La guarigione del cieco nato, Angelo Trevisani, 1715-720, 

Cappella Badoer-Surian, San Francesco della Vigna, Venezia 

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Nel mondo, gli uomini si sono da sempre posti domande, ma non sempre hanno trovato risposte convincenti (il senso della vita, l’esistenza del male, il destino finale degli esseri umani). Ancora oggi, parlando di fine vita, è quasi impossibile trovare una linea comune.

I fautori dell’autodeterminazione affermano che colui il quale ritiene che l’unica forma di vita degna di essere vissuta sia la vita autonoma e indipendente, senza dipendere dalla cura e dall’assistenza di altri, ha anche il diritto di porre fine alla sua vita. La Chiesa, che vede la vita come un dono divino che non ci siamo dati da noi [1], ritiene inammissibile il rifiuto di questo dono, lo considera un atto di appropriazione indebita di un diritto di cui l’essere umano non è portatore, e dunque lo condanna come una forma di ateismo pratico, come un oltraggio a Dio. Una via di mezzo ritiene che la richiesta di farla finita non necessariamente significhi rifiuto del dono di Dio, potendo significare anche disposizione responsabile di questo dono, nella convinzione che Dio non può pretendere un contributo insopportabile e arbitrario di sofferenza, per di più richiesto a casaccio, perché viene chiesto solo ad alcuni e non a tutti, sì che vede nella tetragona posizione della Chiesa il pericolo di un’etica meramente legalistica (farisaica). Si sottolinea cioè che la posizione della Chiesa viene collegata a quelle convinzioni del passato per cui la sofferenza doveva essere sempre accettata perché avvicinava a Dio.

Non molto tempo fa è apparsa sui giornali la storia di un francese, tetraplegico, con danni cerebrali gravi tali da escludere la possibilità di ritorno a uno stato di coscienza. Secondo il comune parere medico il paziente si trova in uno stato vegetativo cronico e irreversibile. La moglie vorrebbe far sospendere la nutrizione e l’idratazione; i genitori si oppongono perché il loro figlio non è in fin di vita e può sopravvivere se aiutato a nutrirsi artificialmente (Rakic P., Anche questo è vita, “Vita Nuova”, n. 4935/2019, 1). Appunto: sopravvivere, non vivere. Il teologo Alberto Maggi, in casi come questo, si chiede giustamente: ma è sacra la vita o è sacro l’uomo? In altre parole, il primo posto spetta alla religione o spetta all’uomo? Il cardinal Bagnasco (“Famiglia Cristiana” n. 38/2019, 18) ha affermato che anche se la dignità dell’uomo è cosa diversa dalla vita, togliersi la vita non è mai dignitoso per l’essere umano. Però dimentica che anche la Chiesa riconosce che l’accanimento terapeutico [2] contrasta con la dignità del morente e siccome la morte è un inevitabile fatto della vita umana, non la si può ritardare inutilmente, rifuggendola con ogni mezzo (così afferma pure il Pontificio Consiglio per la Pastorale degli Operatori Sanitari – Carta degli operatori sanitari 1995). Il problema, allora, è stabilire il confine fra accanimento terapeutico e intervento medico curativo. Come aveva scritto nel 2017 Michele Gesualdi, affetto da Sla, molto spesso gli interventi medici (intervento allo stomaco per essere alimentato artificialmente, tracheotomia per poter respirare) non sono interventi curativi, ma sono solo finalizzati a ritardare di qualche giorno, o qualche settimana, l’irreparabile, che per il malato significa solo allungare la sofferenza in modo penoso e senza speranza. Anche papa Francesco, sempre nel 2017, ha ricordato che “oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona. Dunque non è accettabile neanche prolungare qualsiasi vita a qualsiasi prezzo.

In effetti la cura della patologia può essere utile finché procura alla persona un giovamento; quando invece la terapia, a maggior ragione se invasiva e intensiva, non assolve più questa funzione, l’unico processo di cura dovrebbe essere indirizzato verso l’attivazione delle cure palliative [3]. Non credo cioè che la vita debba essere accettata nella ricerca positiva del dolore in sé. Ora, se uno riesce dare un senso anche al suo dolore e vuole sopportarlo per offrirlo a Dio [4], ben per lui! Ma se uno più debole non regge al tumore che gli deturpa la bocca, gli devasta il viso, gli crea atroci dolori, possiamo noi imporgli di aspettare che la malattia faccia il suo corso perché ogni istante della vita umana ha un valore infinito e comunque si sottrae per principio al controllo umano? Siamo abituati a considerare la morte sempre un male, ma non lo è necessariamente sempre, ad esempio quando la vita è solo tortura e privazione della dignità.

Allora che fare? Certamente la vita per me o per la zanzara che mi sta pungendo merita di essere sempre vissuta, ma questo mi impedisce allora di schiacciarla? In India c’è una religione (il giainismo) che la pensa così, e i credenti vanno in giro con una mascherina per evitare di ingoiare e uccidere anche un solo moscerino. Nella nostra cultura, se un cane morde e fa male a un bambino lo si abbatte; se un cane soffre gli si pratica tranquillamente l’eutanasia. Dunque la vita non è sacra per tutti allo stesso modo. Insomma, cosa s’intende per sacralità della vita? Se è sacra la vita biologica tout court, la Chiesa dovrebbe combattere anche l’eutanasia di un cane o di un gatto gravemente ammalati: neanche loro si sono dati la vita da sé. Se uno vedesse un pinguino intrappolato nel ghiaccio, dovrebbe attivarsi per salvargli la vita o dovrebbe lasciar fare alla natura? Ovviamente dovrebbe intervenire perché la vita è sacra, mentre il ghiaccio inerte non è vivo. E che fare quando un leone sta aggredendo una debole gazzella, che senza l’aggressione potrebbe continuare a vivere? Ma allora non dovremmo neanche tagliare l’insalata nell’orto, perché anche questa avrebbe potuto continuare a vivere. Forse non è solo un problema di rispetto della vita in sé. Sono tenuto a non fare il male a nessun essere vivente, né uomo, né animale, né pianta. Ma se rispetto le vite in tutte le sue forme non mangio più nulla e muoio di fame [5].

Neanche è vero che noi cristiani siamo i più sensibili di altri verso la vita e la dignità delle persone. Non lo siamo stati in passato e non lo siamo neanche adesso. Il commercio degli schiavi dall’Africa verso le Americhe non è nato dall’odio nei confronti degli africani, esattamente come oggi la moderna industria alimentare (che alleva galline, maiali, mucche in batteria) non è motivata da un atteggiamento ostile, quanto da indifferenza. Chi comprava a prezzo conveniente il cotone americano prodotto dagli schiavi non rifletteva sul destino di quelle persone. Chi oggi consuma uova, carne e latte non riflette sul destino di questi animali che invece possiedono una struttura sensoria ed emozionale, per cui possono soffrire fisicamente e per stress emotivi quando sono ingabbiati e sotto luce costante per produrre di più [6]. È chiaro a tutti che il mondo occidentale (che si ritiene cristiano) non si cura minimamente delle necessità soggettive degli animali vivi, e ancor meno di quello delle piante vive.

Sentite invece come un povero agricoltore peruviano ha perfettamente dipinto in poche parole la diversità culturale rispetto all’uomo occidentale, che dovrebbe avere ‘radici cristiane’: “Per un occidentale, tagliare un albero è un gesto freddo. Egli calcola soltanto i soldi che ne ricaverà. Non pensa mai se l’albero che taglia può compromettere la vita dei boschi, della terra. L’albero è un essere vivente, ha una sua essenza spirituale, una sua storia e un nome, come noi. Gli alberi chiacchierano fra di loro e se la raccontano. L’albero esiste perché deve servire agli altri, oltre che crescere per sé stesso. Ti sei accorto che le sue foglie servono come cibo per gli insetti e che questi, a loro volta, sono cibo per gli uccelli? Ma non solo…all’interno di questi alberi crescono lombrichi, commestibili per altri animali. Perciò, quando si taglia un albero, dobbiamo pensare agli animali che non avranno cibo, o allo spirito della pianta che priviamo di una parte di esistenza terrena. Ecco perché dobbiamo chiederle permesso, facendole comprendere che il suo sacrificio è necessario per migliorare la nostra esistenza”. Dunque, per questo indio è chiaro che la vita dell’albero è sacra, mentre per noi non conta nulla, basta vedere cosa succede in Amazzonia [7].

Allora, quale vita è sacra? Forse per il cristianesimo è sacra solo la vita degli uomini e non le altre forme di vita? Ma se così fosse si dovrebbe cercar di far proseguire la vita umana anche solo quando parte delle sue cellule sono ancora vive [8], mentre la maggior parte delle cellule del corpo sono già morte: del resto su questa linea sta il cristiano contrario ai trapianti d’organo, perché a quel punto non tutte le cellule del corpo sono ancora morte: quel cuore che si preleva per il trapianto batte ancora, per cui è ancora vivo. Evidentemente per questo tipo di cristiani l’accanimento terapeutico non esiste. Come si vede, è difficile definire la morte [9], com’è difficile definire la vita. Eppure dobbiamo porci la domanda: è giusto procrastinare quella vita all'infinito, utilizzando tutti gli strumenti della scienza medica, anche quando questa vita si riduce alla sopravvivenza di una pura massa biologica? Sì, se ogni forma di vita umana è sacra di per sé. No, se riteniamo che ad essere sacro è l'uomo, perché in tal caso bisognerà garantirgli una fine dignitosa.

È chiaro che per molti laici cristiani e molti chierici non è sacra la vita umana nel senso più ampio, perché questa dovrebbe esserlo sempre, non solo quando si parla di aborto o fine vita, ma anche quando si parla di migranti che sono in pericolo di affogare in mare. Invece l’Italia è piena di persone che si definiscono cristiane, ferocissime nel gridare contro l’aborto e contro l’eutanasia, che però restano indifferenti rispetto a quello che succede nel Mar Mediterraneo. Quindi, questi sedicenti cristiani stanno interpretando in maniera molto personale Mt 25,41-43: «Via, lontani da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ero forestiero e non mi avete ospitato». Essi interpretano l’accoglienza evangelica della vita, come dono di Dio, non proprio per tutti, ma con dei limiti da essi stessi fissati.

Sono poi queste stesse persone che vedono un oltraggio a Dio da parte di chi invece pone alla vita altri paletti, diversi dai loro. Però mi sembra che, per prima cosa, c’è da chiedersi se questa vita non era per caso un oltraggio al vivente. Quando si è sani si vede la morte come una maledizione. Eppure la maledizione di dover morire può a volte diventare una benedizione: si può cioè anche bramare di morire quando vivere è insopportabile [10]. E non si oltraggia Dio anche quando si usano tutti gli strumenti medici per prolungare artificialmente, grazie alla tecnica, una vita umana che la natura avrebbe invece già fatto giungere al capolinea? Pensiamo a una persona in coma irreversibile, che esiste ma è assente, che vive in quanto una macchina le permette di respirare e in quanto viene artificialmente nutrita. In natura quella persona sarebbe morta da un pezzo.

Inoltre, nel mondo del diritto, ogni dono può essere accettato oppure rifiutato, quindi è sempre richiesta anche la collaborazione di chi riceve il dono (tant’è che la donazione è un contratto, e non un atto unilaterale), e nel caso della vita nessuno ha ovviamente potuto chiedere al nascituro se voleva o meno nascere. Dunque la vita è in realtà, più che un dono, una dazione unilaterale del Donante. Nella donazione poi è essenziale la gratuità, cioè chi dona non può essere compensato da nessunissimo tipo di sacrificio, altrimenti non è più donazione [11]. Non posso offrire in dono una termocoperta, che serve per scaldare d’inverno, e dire a chi la riceve che deve tenerla addosso accesa anche quando fa caldo perché sono io, il donante, a dirgli quando può toglierla. E poi, siccome nessuno rifiuta ciò che a lui appare un bene per sé, visto che egoisticamente si tende a scegliere ciò che si presenta come più valido e vantaggioso, se il ricevente rifiuta il bene (della vita), vuol dire che il dono non gli è stato prospettato oppure offerto in modo tale da risultare appetibile, il che significa sempre che Dio, il donante, poteva fare di più e meglio.

Trovo poi incongruo che, mentre nelle guerre gli uomini sono morti a migliaia di migliaia senza che la Chiesa si sia mai ferocemente opposta nel suo complesso [12], la morte di un singolo diventi improvvisamente questione non negoziabile.

Sicuramente tutti, credenti e non credenti, sono persuasi che la morte buona sia solo quella che arriva quando è venuta la sua ora, senza arbitrariamente anticiparla (eutanasia) e nemmeno senza ostinatamente posticiparla (accanimento terapeutico), e che questa idea non può dirsi assolutamente esclusiva dei cattolici. Tutti metteremmo la firma per poter morire dignitosamente, in un tempo ragionevole, senza sofferenze, circondati dall’affetto dei propri cari, potendo dire: “Quello che dovevo fare in questa vita l’ho fatto, ora lasciate che me ne vada serenamente”, e sentendosi dire: “Addio, marito (moglie, amico, amica) mio. Siamo più ricchi perché ti abbiamo conosciuto. Aspettaci nell’aldilà.” Ma per la violenza della realtà difficilmente si muore con simile eleganza naturale, ed il problema diventa assillante quando si devono riempire di contenuti concreti i concetti astratti, perché a quel punto i confini sfumano e si confondono. Allora, non potendosi dire sempre con certezza quando la natura deve fare il suo corso e quando la vita viene prolungata al di là dei limiti naturali, su queste incertezze si scatenano scontri etici che non fanno bene a nessuno, e si finisce per chiamare vita sia una morte rimessa in circolo, sia una vita che tenta inutilmente di andarsene.

Il problema principale, alla fin fine, è questo: chi decide qual è il confine tra accanimento terapeutico e lasciar fare alla natura senza procrastinare artificialmente la dipartita?

Evidente che stiamo toccando un argomento difficile e scivolosissimo, che può essere affrontato da un punto di vista giuridico, da un punto di vista religioso, da un punto di vista morale (insieme delle consuetudini sociali) o etico (studio del bene e del male in astratto), oppure anche dal solo punto di vista clinico. Questi diversi ambiti, però, s’intersecano in continuazione, anche se non necessariamente coincidono.

Esistono, ad esempio, scelte moralmente discutibili che oggi non riterremmo di dover più proibire per legge (ad es. si pensi all’adulterio, che - se commesso da una donna, non dall’uomo - era invece sanzionato con la reclusione fino a che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 126 del 1968 ha cancellato questo reato); ma all’inverso, esistono azioni probabilmente legittime dal punto di vista morale, che il diritto ha invece deciso di vietare tout court: ad es. una donna fertile potrebbe voler aiutare una sorella sterile ad avere un figlio, ma l’utero in affitto è vietato in tutti i casi ex art.12 legge 19.2.2004, n.40, e il divieto generale è stato posto non solo e non tanto per ragioni di immoralità intrinseca, quanto per ragioni di giustizia sociale: sono di solito le donne più povere a sottoporsi a tale trattamento a vantaggio delle donne ricche che possono pagare, mai l’inverso.

Esiste poi di certo una morale religiosa fondamentalista che pretende di trasformare in norme giuridiche i valori presenti nelle Scritture: si pensi all’esclusione del divorzio sostenuta dalla Chiesa cattolica, ma non dalle altre Chiese (eppure tutte leggono Mc 10, 9). Ci sono evidenti incongruenze nella linea di condotta della Chiesa perché, ad esempio, mai la stessa ha pensato di trasformare in norma giuridica, vincolante per tutti, le chiare parole di Gesù dette al giovane ricco e angosciato, per di più riportate subito dopo la regola divorzile: «Va, vendi quanto possiedi e dallo ai poveri» (Mc 10, 21). Questa frase semplice e chiara, se presa alla lettera, avrebbe dovuto essere considerata come un alto principio universale di vita morale, ma questo valore della povertà non è mai stata trasformato in norma vincolante, tanto che in Vaticano esiste ancora oggi lo Ior. Di più: all’inizio del 1600 venne fondato da Papa Paolo V perfino il banco di Santo Spirito. Nessuno, neanche fra i più intransigenti ortodossi, ha mai battuto ciglio di fronte a una banca che porta il nome dello Spirito Santo. E ricordate l’arcivescovo Marcinkus, quando dirigeva lo IOR, e sosteneva che la Chiesa non si può mandare avanti con le “Ave Marie”? Eppure Gesù ha combattuto ferocemente contro mammona, nemica di Dio e degli uomini.

Questa insistenza da parte dei fondamentalisti avviene perché essi ritengono del tutto logico e naturale che si possano togliere a qualcuno diritti che gli spettano come cittadino, invocando la volontà di Dio, pretendendo di parlare in suo nome, anzi di sostituirsi a Dio stesso. Ma impostando così le cose, non ci si rende conto che s’incorre in uno slittamento dall’ordine «etico» a quello «giuridico», cosa che mai si dovrebbe fare in nome di poteri che non sono di questo mondo [13]. Una persona, motivata dalle sue credenze religiose, può ovviamente rinunciare ai suoi propri diritti [14]. Può fare tutto il giorno penitenza, può offrire tutte le sue sofferenze a Dio. Ma – come dice sempre il prof. Castillo - giammai un’istituzione, legittimata da presunti poteri di un altro mondo superiore, può privare qualcuno dei suoi diritti che gli competono in quanto cittadino di questo mondo. Un’istituzione religiosa che fa questo, compie un abuso di potere nascondendosi dietro alla presunta volontà di Dio. Qualunque istituzione religiosa può diffondere i propri «principi etici», affinché li adempia liberamente chi lo vuole. Ma nell’odierna cultura appare evidente è che un’istituzione religiosa non ha il potere di privare nessuno di «diritti giuridici». Un’istituzione religiosa non può cioè convertire i «peccati» (atti che il credente crede, dalla sua libertà, che siano contrari alla legge di Dio) in «delitti» (atti che il cittadino deve sapere obbligatoriamente che sono contrari alla legge umana).

È chiaro, poi, che perfino all’interno della stessa religione le visuali possono essere diverse anche sul piano etico religioso, quando si deve decidere ciò che è bene e ciò che è male. Pensiamo solo al caso di Abramo e Isacco (Gn 22, 1ss.). La scelta di sacrificare Isacco fa di Abramo, per alcuni, un modello perfetto di vera fede; altri vedono in Abramo un padre assolutamente disumano e privo di etica. Buber Martin ha espresso, in proposito, questo illuminante ragionamento: se Dio domanda ad Abramo di uccidere Isacco, significa che la validità dell’obbligo etico “non uccidere” può essere sospesa da qualcuno superiore, dall’Essere Supremo, secondo le sue insindacabili intenzioni; per la durata di tale azione è sospesa l'immoralità e l’anti eticità dell’azione omicida. Peggio, ciò che è di per sé eticamente malvagio diventa improvvisamente buono perché è gradito a Dio. Il dovere nel campo dell’etica perde così l’assolutezza se viene messo a confronto col dovere assoluto verso Dio. Allora, il bene e il male sono solo l’espressione della volontà di Dio, perché Lui stesso stabilisce e cambia l’ordine del bene e del male, da persona a persona. Com’è possibile che uccidere il figlio sia in quel momento un bene per Abramo, e in quello stesso momento un male se l’avesse fatto suo fratello Nacor o qualsiasi altro?

Passando al versante clinico, è noto a tutti che ci sono stati rapidi cambiamenti scientifico/tecnologici, e la tecnologia c’impone oggi di fare delle scelte inimmaginabili solo qualche decennio fa. È indubbio, cioè, che la medicina è sempre più in grado di allungare la vita biologica dei pazienti, senza tuttavia in molti casi migliorarne la qualità. Oggi si può mantenere in vita (con la circolazione extracorporea, con la ventilazione forzata, ecc.) una persona che soli cinquant’anni sarebbe di certo morta naturalmente. Questo avviene soprattutto in casi di oncologia, patologie neurovegetative e gravi traumi.

Ma il problema fondamentale resta sempre lo stesso su tutti i piani (clinico, etico, giuridico): chi decide? La scienza? Il medico? La legge dello Stato? La religione? In proposito ci sono posizioni plurime. La legge in Italia deve essere necessariamente laica perché non tutti hanno lo stesso Credo. Esiste forse una legge naturale capace di orientare la decisione di tutti? Abbiamo visto nel n. 482 di questa rivista, nell’articolo La legge naturale (https://sites.google.com/site/ultimotrimestre2018rodafa/numero-482---9-dicembre-2018/la-legge-naturale), come in realtà una legge valida per tutti non esiste, e la decisione è determinata dalla cultura. E, visto che i più strenui difensori del mantenimento in vita parlano così spesso di legge naturale, non è proprio contro natura mantenere in vita una persona che, lasciata alla natura, morirebbe?

La religione? Ma chi? Il vescovo, il parroco, il singolo prete? E soprattutto, si può pensare che Dio cambi idea in base ai progressi tecnologici dell’uomo? Si può cioè spostare il confine della conclusione naturale della vita in base agli eventi accidentali della storia? Di più: quello che è oggi ormai normale per un occidentale non lo è per un povero diavolo del terzo mondo. E allora com’è che quello che è normale e naturale per un paziente occidentale che viene ricoverato nel suo ricco Paese, non lo è più neanche se lo stesso viene ricoverato in un Paese del terzo mondo dove magari si trova in ferie? Possiamo pensare che il proseguimento della vita di una persona rispetta la volontà di Dio a seconda dello spessore del portafoglio del destinatario delle cure, o a secondo del luogo in cui si trova quella stessa persona? Vi sembra logico che Dio si rimetta alla tecnologia sanitaria per spostare i termini della morte naturale a seconda dei macchinari inventati dall’uomo e a disposizione dell’infermo in quel momento? Ogni giorno la sanità diventa sempre più tecnica, ma sempre meno umanizzata. Se poi chi vive questa sofferenza non trova sufficiente conforto né in una terapia, né in un accompagnamento, chi siamo noi per ergerci a giudici e imporgli di bere fino in fondo il suo calice amaro, perché così vuole Dio? E chi l’ha detto? Lo dice la Chiesa, ma la Chiesa, nel dire questo, a parole dice di amare Dio, ma ama l’uomo? Certo, nessuno vuol fare intenzionalmente del male a quest’uomo che soffre indicibilmente. Tutti l’amano, la Chiesa che non vuole che muoia, e i parenti che non vogliono che soffra. Entrambi però sono impotenti davanti a questo male. Ma se si ama veramente colui che sta male, la prima cosa da fare è aiutarlo a uscire o permettergli di uscire da questo male, perché solo così si ama veramente chi soffre (Camon F.).

Deve decidere l’etica? Ma quale? Paziente e medico possono non avere la stessa etica.

Non sembra, allora, che – almeno quando è possibile,- sia più ovvio lasciare comunque ogni decisione al paziente, al diretto interessato? Come ha scritto sempre Gesualdi, “Non si tratta di favorire l’eutanasia, ma solo di lasciare libero l’interessato, lucido cosciente e consapevole di essere giunto alla tappa finale, di scegliere di non essere inutilmente torturato e di levare dall’angoscia i suoi familiari, che non desiderano sia tradita la volontà del loro caro”.

Mi si obietterà: ma così si distrugge la legge divina, si distrugge la religione. No. Anche Gesù ha fatto chiaramente intendere che la religione vale ed è accettabile nella misura e solo nella misura in cui serve per potenziare la vita e salvaguardare in ogni caso la dignità di ogni persona. E anche san Paolo predicava: «È la mia coscienza, che ben distingue il bene dal male, a legarmi; e la mia libertà non va sottoposta al giudizio di coscienza di un altro» (1Cor. 8, 7-12; 10, 25-30).

Se trovassimo un accordo almeno su chi è legittimato a decidere, avremmo già fatto un bel passo avanti.

 

Dario Culot 

[1] L’uomo può rifiutare il dono che gli viene offerto: il peccato è appunto il rifiuto dell’amore di Dio e la chiusura nel proprio piccolo mondo egoistico, il fissarsi nel presente e chiudersi al futuro (Masina E. e al. Linee di un catechismo per l’uomo d’oggi, ed. Rocca, Assisi, 1971, 86). Oppure si può dire che la vita è un dono di Dio, ma per gli altri (Kasper W., Misericordia, ed. Queriniana, Brescia, 2013,227). Ma forse dovremmo anche chiederci: la sofferenza viene pure donata da Dio? Dobbiamo accettare anche questo dono e rifiutare la sofferenza significa rifiutare l’amore di Dio? E una persona in coma irreversibile che dono può fare consapevolmente della propria vita agli altri? È poi vero che non ci siamo dati la vita, però non abbiamo dato la vita neanche alle piante e agli animali, eppure li uccidiamo senza che la Chiesa abbia nulla da ridire.

[1] Accanimento terapeutico è un trattamento di documentata inefficacia, gravoso per il paziente, sproporzionato agli obiettivi perché senza possibilità di vitale recupero organico-funzionale. Quest’anno il Comitato nazionale per la bioetica ha scritto: “per quanto riguarda i bambini piccoli va riconosciuto che nella prassi l’accanimento clinico è spesso praticato perché quasi istintivamente, anche su richiesta dei genitori, si è portati a fare tutto il possibile per preservare la loro vita, senza considerare gli effetti negativi che ciò può avere sull’esistenza del bambino in termini di risultati e di ulteriori sofferenze. Altre volte, invece, l’accanimento clinico viene praticato in modo consapevole, come difesa da possibili accuse di omissione di soccorso o di interruzione attiva delle cure o dei trattamenti di sostegno. Così queste pratiche cliniche vengono prestate principalmente non per assicurare la salute e il bene del paziente, ma come forma di tutela e di garanzia delle proprie responsabilità medico-legali relative all’attività svolta”. Non credo servano commenti.

[3] Quando la malattia non risponde più alle cure specifiche, resta fondamentale il controllo del dolore e dei problemi psicologici, sociali e spirituali del malato. E questo, anche secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), si può fare attraverso la medicina palliativa, che è un approccio che migliora la qualità della vita dei malati e delle loro famiglie.

Lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica, § 2279 riconosce che: “L’uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile”.

Come ricordava il grande giornalista Indro Montanelli “Ciò che fa paura a tutti sono le sofferenze che accompagnano la morte. Non solo e non tanto quelle fisiche che oggi ci sono mille modi di lenire, ma quelle morali che ti colpiscono nella dignità e te la tolgono. Un uomo che dipende dagli altri anche per le cose più quotidiane e banali che uomo è?”.

[4] C’è anche chi è di un’altra idea: “Lasciami respirare la sofferenza, la sofferenza è meglio di niente” (Canetti E., Il libro contro la morte, Adelphi, Milano, 2017, 194). Quest’autore, però, ha sempre lottato contro la nemica morte e si è scagliato contro chi non la combatte, e anzi l’accetta. Non credo sia mai venuto a capo del problema.

[5] “Non ho mai ammazzato nessuno, sono una verginella” – osserva lo scrittore Canetti Elias (Il libro contro la morte, Adelphi, Milano, 2017, 292),- “ma quanti animali ho mangiato. Sono ugualmente una verginella oppure un perfido assassino?”

[6] Harari Y.N., Sapiens. Da animali a dèi, Bompiani, Milano, 2018, 427.

[7] E allora si capisce anche perché papa Francesco nella sua Eosrtazione Querida Amazonia parla di un nuovo approccio ecologico, di ascoltare la saggezza ancestrale del popolo amazzonico, scardinando la nostra mentalità colonialista ancora vigente.

[8] Si dice che anche dopo morte nascono ancora cellule dei capelli delle unghie, e persino la produzione di spermatozoi di un morto non cessa immediatamente.

[9] Legalmente si è morti con l’encefalogramma piatto: la legge 578/1993 definisce la morte di un individuo come la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo.

[10] Canetti E., Il libro contro la morte, Adelphi, Milano, 2017, 31.

[11] Capozzi G., Successioni e donazioni, ed. Giuffrè, Milano, 2002, II, 765.

[12] Cfr., ad es., “Dio onnipotente, re del cielo e della terra, re delle schiere della guerra e sostegno del mondo, benedici con il tuo sangue innocente le armi imperiali ... Conserva i combattenti nella loro fedeltà incrollabile e guidali in battaglie colme di fiducia sino alla felice vittoria!” Questa preghiera per i soldati fu pronunciata dal principe vescovo Franz Egger di Bressanone. Nella sua lettera pastorale del 30 luglio 1914, quindi due giorni dopo l‘inizio ufficiale della guerra, aggiungeva: "Se mai c’è stata una guerra giusta, allora è sicuramente quella attuale" (Muser Ivo, vescovo di Bolzano, lettera pastorale “Beati gli operatori di pace” del 2.11. 2018). Come può il magistero ribadire che il Non uccidere è un principio non negoziabile (vale sempre per l’aborto e per l’eutanasia), quando invece la Chiesa ha benedetto le guerre, ha benedetto i roghi degli eretici?

[13] Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB, Bologna, 2019, 248.

[14] Ma occorre cominciare col dire che in natura non esistono diritti. I bonobo, parenti stretti degli scimpanzé, sono governati da un’alleanza femminile, mentre gli scimpanzé sono governati da un maschio alfa. Le femmine scimpanzé non possono prendere esempio dai parenti bonobo e inscenare una rivoluzione femminile (Harari Yuval Noah, Sapiens, Da animali a dèi, Bompiani, Milano 2018, 48). La zebra afferrata dal leone non ha diritto di rivolgersi al tribunale per far valere il suo diritto alla vita, né i suoi eredi possono chiedere i danni al leone.