Titoli e onoreficenze

Il Cardinale Ignacy Komorovski, autore anonimo, collezione privata 

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La religione, per tanti uomini religiosi, è spesso occasione per aumentare il proprio prestigio.

A quegli uomini di religione ai quali non dispiace vestirsi in maniera – diciamo,- quanto meno originale, e comunque diversa rispetto ai comuni mortali, occupare i primi posti nelle feste e nelle manifestazioni, essere chiamati con titoli onorifici, farsi baciare l’anello, dovremmo chiedere: cosa ha a che vedere tutto questo con i vangeli? Non era stato proprio questo aspetto della religione che aveva provocato un ennesimo scontro fra Gesù e gli scribi ed i sacerdoti? [1] Non è stato Gesù in persona ad ammonire che nessuno doveva permettersi di farsi chiamare Maestro, [2] che nessuno doveva vestirsi come i farisei che si vestono in modo particolare per distinguersi (Mt 23, 5-8)? San Bernardo di Chiaravalle, nel suo De Consideratione, che secondo lo stesso papa Benedetto XVI è una lettura obbligatoria per ogni papa, [3] ammoniva: “ricordati che non sei il successore dell’Imperatore Costantino, ma di un pescatore.”

Ma allora, perché i papi ed i vescovi hanno continuato a vestirsi come se dovessero andare alla corte di un imperatore romano? Ricordate le croci d’oro che molti vescovi avevano fatto sparire subito dopo aver visto come si vestiva papa Francesco? Però, poco dopo sono riapparse e tornate in auge.

È vero che di fronte alle scarpette rosse usate da Papa Benedetto XVI, o alle stole in oro pesante, criticate come esibizionismo religioso da parte di alcuni, è stato replicato, con supponente aria di superiorità, che siamo noi, uomini d’oggi, che per superficialità e lacune culturali non sappiamo più respirare questo linguaggio privo di parole: “la talare bianca evidenzia simbolicamente il ministero papale, non certo la sua individualità. Il color porpora dei calzari allude all’onorevolezza dell’ufficio. Quanto alle stole, si tratta di paramenti liturgici simboli di sacerdozio. Colori e segni possiedono un ben collaudato linguaggio. La finezza estetica del minuto decoro non tende ad esaltare l’individualità dell’uomo, ma a esplicitare visivamente il carattere simbolico della gioia festosa. Colori e segni possiedono un linguaggio che nel tempo non ha perso la capacità comunicativa” [4]. In un articolo di indirizzo cattolico è stato perfino sostenuto che la stola non è affatto simbolo di potere, per cui è stato criticato il compianto vescovo di Molfetta Tonino Bello il quale, distorcendo il significato della stola, con vera anomalia aveva fondato la sua chiesa sul grembiule, [5] simbolo di servizio [6]. Senza dubbio questa linea ortodossa avrà anche delle buone ragioni storiche, ma non mi sembra abbia giustificazione evangelica: innanzitutto non tutti sono attirati da questa ‘gioiosa capacità comunicativa’ che, almeno nell’idea di chi esibisce quei ricchi paramenti, dovrebbe suscitare ammirazione, richiamando il senso del sacro e del potere. Questi signori dimenticano completamente che Gesù l’aveva espressamente proibita, perché nel messaggio di Gesù la gerarchia di onori andava sostituita con una gerarchia di servizio. Da ciò risulta evidente che l’attuale struttura di potere della Chiesa non è data da Dio; l'istituzione gerarchica è un'invenzione umana [7]. Si è visto nell’articolo della settimana scorsa qual era l’atteggiamento di Gesù nei confronti del Tempio e del culto. Egli si aspettava l’imminente arrivo del Regno: «vi assicuro che alcuni tra quelli che sono qui presenti non moriranno, prima di aver visto il regno di Dio che viene con potenza» (Mc 9, 1). Queste parole devono per forza essere state pronunciate da Gesù perché, quando sono stati scritti i vangeli, non potevano certo essere messe in bocca a Gesù dalla comunità, non essendosi ancora verificato l’evento. Ma se Gesù era convinto dell’imminenza dell’arrivo del Regno, non aveva motivo di pensare, né tantomeno di progettare, di costituire un sistema ecclesiastico, un ordinamento cultuale e una gerarchia piramidale [8].

La Chiesa, anche se fosse stata costituita da Gesù, dovrebbe però avere solo il compito di servire. Invece un servizio che stupisce, che deve suscitare ammirazione per l’onorevolezza di chi lo compie, finisce per presentarsi non come un servizio, ma come un potere esercitato dall’alto, umiliante per l’uomo, mentre rinunciando ad ogni forma di dominio e superiorità, doveva giungere dal basso e consistere nell’aiutare gli uomini a raggiungere la loro piena dignità, la loro statura pienamente umana [9]. Ecco perché, oggi in particolare, quando tutti sono molto più critici di una volta, una Madre Teresa, un San Francesco con i loro abiti ruvidi sono pienamente credibili; un papa Benedetto con le sue morbide scarpettine rosse molto meno. Ci sarà una ragione se nessuno pensa di criticare il rozzo saio di San Francesco, mentre molti non apprezzano la ‘gioiosa capacità comunicativa’ delle scarpette rosse firmate. Questo fa ovviamente parte di un discorso più ampio: se chi si proclama rappresentante di Dio poi non viene visto mettersi con amore al servizio degli altri, non ha nulla a che vedere col Dio di Gesù, e oggi la gente intuisce che chi si comporta come volesse raggiungere uno stadio di superiorità, potrà usare tutti i paramenti, tutte le insegne, tutti i titoli religiosi che vuole, ma in realtà non ha nulla a che fare con quel Dio, anche se fa profondissimi discorsi teologici. Gesù lo ha detto espressamente quando ha parlato di minimo e di grande nel Regno di Dio (Mt 5, 19). I termini non indicano una gerarchia di onori, ma sono espressioni giudaiche per designare chi col suo comportamento appartiene al regno, e chi col suo comportamento ne resta fuori [10].

Del resto, gli ornamenti liturgici sono riproduzioni, più o meno adattate, di abiti usati nelle solennità antiche, e oggi più che mai appare anacronistico camuffarsi da antico romano, da nobile del 1500 o da museo di antichità [11]. Certo, il vestiario pomposo è rimasto l’unico modo per far sentire agli altri il peso della simbologia sacrale, far capire a tutti chi è un vescovo o un cardinale, o meglio, chi pensa di essere più importante: “io sono qui in alto vicino a Dio; tu sei laggiù in basso, molto più lontano da Dio”. È indubbio cioè che è normale pensare che, se uno si veste con abiti particolari e si fa chiamare con titoli altisonanti, lo fa dimostrare di essere più vicino a Dio e per far capire che egli è più in alto degli altri. Chi si comporta così forse non ricorda che Gesù camminava in mezzo alla gente, sembrava uno del popolo: allora come potrebbe aver fondato una religione basata sulla distanza? Non è una forma pagana quella di vestirsi pomposamente per il culto, quando gli altri partecipanti sono vestiti normalmente? In effetti, al giorno d’oggi molti non riconoscono la vera Chiesa in quel teatrino folcloristico, [12] colorato e pomposo. Altri, all’opposto, attaccati al rito, si scandalizzano vedendo, dopo le scarpette rosse di Benedetto XVI, un papa Francesco che calza le sue scarpe grosse e nere (brutte, ma comode per chi ha male ai piedi), o un cardinale che si era vestito da bovaro, [13] anche se in quel momento solo quello era l’abito più idoneo. A questi altri che si scandalizzano dovremmo domandare come si coordina questo comportamento gioioso della gerarchia, vestita come pensa che Dio comanda, col divieto espresso di Gesù. Se tutti devono essere equidistanti da Gesù, che è al centro del cerchio, le divise indossate da alcuni servono solo a dividere, perché si torna alla piramide: in alto il vicario di Dio vestito in modo strano, e in basso, alla base, il gregge vestito in modo normale. Ma voi, ve lo immaginate Gesù Cristo vestito come un vescovo di oggi, o con le scarpette rosse di papa Benedetto XVI? Naturalmente tutto indossato col solo scopo di onorare Dio. Vuol dire che Gesù non onorava Dio come si doveva.

Se Colui che era in alto è venuto ad abitare in mezzo a noi, nascendo in una grotta, significa che d’ora innanzi nessuno può porsi in alto ritenendosi migliore di altri [14]. Quanti cardinali, quanti vescovi hanno oggi il coraggio di dire: “Vivete come me e così tutti noi insieme seguiremo Gesù”? Forse quei prelati che vivono in lussuosi attici, serviti dalle suore? [15]

E i titoli? Sua eccellenza monsignor XY… con queste parole inizia una lettera ufficiale a un prelato [16]. Ma v’immaginate se Pietro, o Paolo nella sua lettera inviata a Roma si fosse presentato ai romani: “Sono Sua eccellenza monsignor Paolo…” o se gli altri, avvicinandolo, avessero dovuto chiamarlo “Sua eccellenza?” e baciargli l’anello. In nessuna parte dei vangeli si legge che Gesù abbia conferito titoli onorifici ai propri discepoli; anzi, se Dio in persona si è abbassato a compagno di strada dell’uomo di basso livello sociale, è quanto meno poco coerente che chi siede più in alto nella gerarchia si erga sopra la gente, e ponga una distanza formale fra lui e la gente, anche attraverso titoli altisonanti e indumenti che, addosso a qualsiasi persona normale, apparirebbero stravaganti.

Forse servono a diffondere la Buona Novella le nomine a cavaliere dell’Ordine di San Silvestro Papa, pubblicate poi sugli Acta Apostolicae Sedis (la Gazzetta ufficiale del Vaticano), che a volte diventano perfino imbarazzanti per la Santa Sede quando vengono nominati gentiluomini di Sua Santità persone che poi risultano coinvolte in scandali di livello nazionale? [17] Insomma, Gesù ha incentrato l’attenzione sul servizio, sul farsi minimo (questo è il significato originario di ministro) “ma quante aggiunte a quel povero e nudo ministero: quante “eccellenze, eminenze, santità” [18]. 

Qualcuno ha cercato di arrampicarsi sugli specchi dicendo che, in fin dei conti, siamo davanti a innocue espressioni formali, come quando si inizia una lettera scrivendo “Gentile Signore”, anche se quel signore non è affatto gentile. Non è proprio così: è chiaro a tutti che una cosa è indirizzare una lettera: “All’egregio signor vescovo,” un’altra è scrivere “A Sua Eccellenza reverendissima Monsignor”. E se poi siamo solo davanti a innocue espressioni formali, perché non abolirle?

“Eh! Ma come puoi pensare di mettere sullo stesso livello un cardinale eminentissimo e una persona comune o perfino volgare?” protesterà un altro devoto intransigente.

“Invece sono tutti alla stessa distanza del sole. Pensi che la distanza diminuisca davvero se vivi in cima a un grattacielo?” [19]

Dunque, c’è ancora chi pensa che rivolgendosi nella preghiera a Dio o alla Madonna con titoli altisonanti, la preghiera avrà sicuramente più peso; così analogamente si sente anche in molte prediche un uso spropositato e assordante di superlativi con cui si adornano i nomi di Dio, della Madonna e dei santi. Tutti queste pie persone che credono di esprimere la loro devozione ampliando a dismisura le parole, non si rendono conto che sono state paragonate da Gesù agli idolatri [20] «Pregando poi, non blaterate come i pagani, i quali credono di venire ascoltati moltiplicando le parole» (Mt 6, 7).

Per quel che riguarda l’altare se ne è già parlato nell’articolo sul Sacrificio del mese scorso e sulla Teoria della soddisfazione di fine novembre. Forse il concetto cristiano più appropriato sarebbe quello di mensa, dove Gesù si fa pane per gli altri, e la mensa non ha né candelabri né commensali con ricchi paramenti. Forse la tavolata conviviale in una trattoria, più dell’altare e dei paramenti colorati in una sontuosa cattedrale, richiamerebbe oggi l’idea di ‘gioiosa capacità comunicativa’.

Qui, però, si deve proprio fare una precisa domanda ai ferventi seguaci dell’ortodossia: spiegateci perché certe parole di Gesù sono completamente dimenticate, come se Gesù non le avesse mai dette, mentre certi altri argomenti sui quali Gesù non ha detto una parola, invece, vengono assolutizzati.

Ad esempio, come si è detto altre volte, Gesù non spende mai una parola per quello che riguarda la sessualità delle persone. Invece il magistero della Chiesa cattolica ha costruito quasi tutta la morale cattolica sulla sessualità e spiega tutto quello che si può fare, come fare, quando farlo: perfino Paolo VI, nella sua contestatissima Humanae vitae affermò che le regole ivi affermate non erano state pensate da lui, ma erano derivate niente po’ po’ di meno che dalla legge di Dio [21]. Eppure Gesù non ne parla mai. Invece Gesù dice espressamente: «non chiamate nessuno Padre», visto che nell’antichità il padre era quello che dirigeva la vita delle persone, e quindi nella comunità non ci deve essere nessuno che possa permettersi di dirigere la vita delle persone, posto che l’unico Padre è quello nei cieli. E Gesù continua: «e non chiamate nessuno Maestro, perché uno solo è il maestro». Infatti, il papa si chiama “Santo Padre”, e a tutti i preti viene attribuito il titolo di “padre”; e tutta la Chiesa si atteggia a Maestra. Come se Gesù non avesse detto niente.

Gesù abolisce tutti questi titoli (monsignore, eccellenza, eminenza) perché siamo tutti fratelli (Mt 23, 8), e la Chiesa fa il contrario di quello che Gesù ha detto e fatto. Gesù abolisce l’uso di paramenti e segni distintivi, e abbiamo visto le scarpettine rosse. E sempre a proposito delle scarpettine rosse di papa Benedetto XVI, guardate cosa scriveva negli anni ’60 il giovane Ratzinger: “La nostra realizzazione cristiana effettiva non sembra essere la maggior parte delle volte assai più simile al culto delle alte cariche dei giudei stigmatizzato da Gesù che non all’immagine da lui disegnata della comunità cristiana fraterna? Non soltanto il titolo di ‘padre’ viene limitato in Matteo (Mt 23, 8-11: Non fatevi chiamare rabbi, padre, guide), bensì tutta la forma esteriore (ribadiamolo: esteriore) del gerarchismo, così come essa si è strutturata nei secoli dovrà in continuazione lasciarsi giudicare da questo testo” [22]. Possiamo fondatamente chiederci: Benedetto XVI è stato forse un sosia di Ratzinger? Non sorge il dubbio che ci sia una sfasatura fra quello che la coscienza dettava al giovane Ratzinger e quello che ha fatto come Benedetto XVI?

In sintesi: da cosa si riconosce Gesù? Proprio dal grembiule (Gv 13, 4: cinse sé stesso), proprio come sosteneva il vescovo Tonino Bello, piuttosto osteggiato dalla gerarchia finché era in vita, ma amatissimo dalla gente. Questo dovrebbe essere l’unico segno distintivo della gerarchia ecclesiastica. Gesù non veste i paramenti sacerdotali, Gesù non indossa abiti religiosi, per distinguersi e farsi vedere più vicino a Dio. Quello che Gesù indossa nel corso dell’ultima cena, senza più toglierselo, è un indumento che indica il servizio. Da cosa si riconosce il nostro magistero infallibile? Lo abbiamo appena visto: né dall’abito del pescatore, né dal grembiule. Qualcuno ha mai visto un papa col grembiule? Eppure questo, che dovrebbe essere l’unico segno distintivo, non è considerato all’altezza del Pastore universale (art.152 Catechismo Pio X), la massima fra tutte le dignità della terra che gli dà il potere supremo ed immediato sopra tutti gli altri pastori e sopra tutti i fedeli (art.196 Catechismo Pio X). Il grembiule è in realtà incompatibile con la religione, dove all’amore servizievole si preferisce mettere in mostra i segni del potere, cui corrisponde per gli altri il dovere di obbedienza (art.470 Catechismo Pio X; nn.1897-1899 Catechismo); e, ovviamente, così il cerchio si chiude perché il dovere di obbedienza implica pure l’obbligo di tributare all’autorità gli onori che le sono dovuti (n.1900 Catechismo). Il potere celebra il potere. Gesù, invece, non ha avuto gli onori dal potere: semplicemente l’hanno ammazzato, e sulla croce non aveva sicuramente alcun paramento sacro.

“No, questo che dici non è vero” dirà qualcuno che è abituato a credere a tutte le verità che la Chiesa insegna e a fare tutto quello che la Chiesa comanda (artt.173 s. Catechismo Pio X). Allora provate a immaginare cosa succederebbe se un prete dicesse messa con addosso il grembiule, invece che i previsti paramenti sacri. Provate a immaginare cosa accadrebbe se l’eucarestia venisse data da un prete col grembiule, a un tavolo con tante persone sedute intorno, condividendo un unico pane.

È che la fedeltà ai rituali ha occupato il posto della fedeltà a Gesù, ed il rito e la liturgia hanno finito per rubarci il Dio di Gesù [23]; un Dio che si trovava nel profano, non del Tempio (Gv 4, 21s), perché il dio del Tempio era mammona, il principale nemico del Dio di Gesù (Mt 6, 24; Lc 16, 13). Se noi oggi ci scandalizziamo vedendo un sacerdote che dice messa senza paramenti sacri, ma solo col grembiule, vuol dire che crediamo ancora al Dio del sacro, al Dio del Tempio. Vuol dire che, al pari dei farisei, crediamo che indossando i vestiti più strani si è più vicini a Dio; ma vuol inesorabilmente dire anche che la religione ha deformato il messaggio di Gesù senza che noi ce ne accorgessimo. Non ci siamo, cioè, resi conto che la denominazione di Abba (usata da Gesù per descrivere Dio) fa passare Dio dalla sfera del sacro a quella della famiglia. Cessa pertanto il culto di Dio nei templi. Da quando in qua un padre esige per sé culto e regali? Egli è il donatore che comunica vita ai figli. L’omaggio al Padre non può più consistere nel culto rituale [24 (Gv 4, 4-42).

Mi sembra che costituisca un vero e proprio problema per la Chiesa di oggi il fatto che tanti sedicenti credenti si nascondano ancora nella pratica religiosa rituale, nel culto, nella liturgia, senza neanche pensare che l’unico segno distintivo del cristiano avrebbe dovuto essere l’amore tradotto in servizio. Ma forse hanno imparato questo dalla gerarchia che hanno seguito nel corso della loro vita. Però, a dimostrazione che la strada opposta indicata da Gesù è quella giusta, occorre scoprire individualmente e personalmente che dare accoglienza a chi soffre fa sentire vivi e gioiosi, mentre la ‘gioiosa capacità comunicativa’ della liturgia non ottiene sui fedeli lo stesso risultato.

[1] Castillo J.M., Dio e la nostra felicità, ed. Cittadella, Assisi, 2008, 89. La religione impone distanze, e la gente si abitua alla distanza, alla riverenza nei confronti dei signori del culto. Invece Gesù, pur essendo un maestro, si lascia toccare, e lui stesso tocca e abbraccia: la gente resta sorpresa e sbigottita (Cugini P.,Visioni postcristiane, EDB, Bologna, 2019, 83).

[2] Passi per il titolo di “don” che deriva dal latino dominus e vuol dire “signore” (Dianich S., Che cosa significa “don”?, “Famiglia Cristiana,” n.5/2011, 13. Quindi, don Luigi vuol dire signor Luigi. Ma i titoli ampollosi di monsignore, eccellenza, eminenza sono contrari al vangelo.

[3] Benedetto XVI, Luce del mondo, ed. Libreria editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2010, 108.

[4]  Ad esempio così si esprime il prof. Vizzutti F., storico dell’arte, in  “Famiglia Cristiana”, n.41/2010,  16.

[5] Sul blog di apologetica cattolica del 16.2.2012, in www.pontifex.roma.it. Vedasi anche la lettera sdegnata su “Famiglia Cristiana” n.43/2012, 11, che trova fuori luogo la “Chiesa del grembiule” e si scandalizza perché alcuni criticano i paramenti sacri. Peccato che il lettore non spieghi come il suo sdegno possa ricollegarsi al vangelo, dove l’unico ‘paramento sacro’ cui si fa cenno è il grembiule al momento della lavanda dei piedi.

[6] Di Santo G., La messa non è finita, ed. Rizzoli, Milano, 2012: “Non è il grembiule l’unico abito liturgico indossato da Gesù secondo i Vangeli?”.

[7] Intervista a Hans Küng del 17.12.2012, in www.dongiorgio.it del 12.1.2013.

[8] Haag H., Da Gesù al sacerdozio, ed. Claudiana, Torino, 2001, 73.

[9] Mateos J. e Camacho F., L’alternativa Gesù e la sua proposta per l’uomo, ed. Cittadella, Assisi,1989, 149.

[10] Mateos  J. e Camacho F., Il Vangelo di Matteo, ed. Cittadella, Assisi, 1995, 79.

[11] Castillo J.M., Simboli di libertà, ed. Cittadella, Assisi, 1983, 528.

[12] Il folclore, ammoniva Frantz Fanon, sta alla cultura come l’arteriosclerosi sta all’intelligenza (riportato in Il Venerdì di Repubblica, n.1319/2013, 39).

[13] Quando il cardinale Ersilio Tonini andò in Brasile appoggiando una campagna in favore degli indios, fu ripreso vestito come ci si deve vestire quando si sta nel fango con le vacche. Arrivò al giornale una lettera scandalizzata e don Tonini dovette spiegare che là non si poteva andare col vestito rosso cardinalizio (“Famiglia Cristiana”, n.25/2012, 170).

[14] Cugini P., Visioni postcristiane, EDB, Bologna, 2019, 36.

[15] Si pensi ai mega-appartamenti utilizzati da vari cardinali elencati in Nuzzi G., Via Crucis, ed. Chiarelettere, Milano, 2015, 62s (e in particolare l’elenco a p.143s. degli appartamenti occupati dai vari cardinali con le rispettive metrature); l'autore conclude che i 50 mq occupati da Papa Francesco sembrano quasi una capanna.

[16] “Avvenire” 7.11.2008, 14.

[17] Vedasi la nomina di un boss della ‘ndrangheta, in “Corriere della Sera”, 1.12.2011, 22 s. Finalmente è intervenuto papa Francesco a bloccare le onorificenze facili e invitando a non più chiederle (“Di Giacomo F., Cronache celesti, “Il venerdì di Repubblica”, n.1350/2014, 41).

Finalmente non si vede più il papa trasportato sulla sedia gestatoria, come gli antichi faraoni. Finalmente papa Francesco si veste semplicemente e sempre di bianco.

[18] Zarri A., Vita e morte senza miracoli di Celestino VI, ed. Diabasis, Reggio Emilia, 2008, 18.

[19] De Mello A., Shock di un minuto, ed. Paoline, Milano, 1995,159. E, a proposito, inutile aggiungere che De Mello è stato censurato dall’istituzione per aver proclamato ai quattro venti queste ovvie verità.

[20] Maggi A. e Thellung A., La conversione dei buoni, ed. Cittadella, Assisi, 2005, 25.

[21][ McInerny R., Vaticano II: che cosa è andato storto, ed. Fede & Cultura, Verona, 2009, 59.

[22] Ratzinger  J., La fraternità cristiana,  ed. Queriniana, Brescia, 2005,  74.

[23] Castillo J.M., Analisi teologica dei sacramenti, conferenza settembre 2011 tenuta a Montefano, in www.studibiblici.it. 

[[24] Mateos J. e Barreto J., Il Vangelo di Giovanni, ed. Cittadella, Assisi, 1982, 233.