L’impegno del cristiano nel mondo

Introduzione

È per me un onore e una gioia parlare in questa sede di Trieste su un tema tanto attuale quanto fondamentale come quello dell’impegno del cristiano nel mondo. Ringrazio di cuore per l’invito e per le calorose parole di benvenuto.

Non voglio soffermarmi lungamente sulla difficile situazione e sulle sfide enormi del nostro mondo contemporaneo, in cui – secondo le parole di Papa Francesco – ci confrontiamo non solo con un cambiamento dei tempi più o meno normale, ma con un tempo di cambiamenti a tutti i livelli della vita umana sia privata che sociopolitica globale. Tale situazione è una sfida che impegna ciascuno di noi e in modo particolare i cristiani, che dallo stesso Gesù sono chiamati ad essere sale della terra e luce del mondo (Mt 5,13), una chiamata, che non può e non vuole significare avere pretese arroganti, anzi, significa avere la consapevolezza di una responsabilità o meglio di una corresponsabilità per un futuro umano comune e per la casa comune del nostro pianeta.

Impostare e affrontare questo tema esigente significa per un teologo chiarire preliminarmente, nei suoi caratteri principali, il problema del rapporto tra chiesa e mondo, ovvero in termini teologici più precisi, tra natura e grazia, uno degli aspetti più cruciali della teologia del secolo scorso, che si è trovata esposta davanti ad una profonda crisi nel trattare dell’alienazione tra chiesa e mondo, o più preciso, tra realtà soprannaturale e realtà storica. Il dissenso e il consenso che si ebbe attorno ai dibattiti suscitati su di esso riguardavano aspetti non certo marginali, ma profondi e sostanziali della dottrina cristiana, perché coinvolgevano il nucleo centrale dello stesso Cristianesimo cioè il problema del messaggio della grazia in un mondo secolarizzato, cioè emancipato e alienato dal cristianesimo.

In questo mio intervento, su di un tema così complesso e arduo, vorrei partire dalla via riaperta, prima del concilio Vaticano II, da Henri de Lubac (1896-1991), teologo di spicco del secolo scorso, su di cui il professor Antonio Russo ha pubblicato molti libri. De Lubac è uno dei fondatori della cosiddetta nouvelle théologie, che in realtà era la riscoperta della grande tradizione dei Padri della chiesa e di san Tomaso d’Aquino. Le pubblicazioni di Lubac, soprattutto il famoso libro dal titolo Surnaturel (1946) [1] hanno portato ad una ri-determinazione del rapporto natura - soprannaturale, tanto che oggigiorno, sulla sua scia, «all’interno della teologia cattolica [...] esiste un’intesa in quanto si rifiuta ogni estrinsecismo che colleghi i due ambiti di realtà solo dall’esterno, quasi come due piani posti l’uno sopra l’altro».[2] Questo è lo sfondo da tener presente, su cui la teologia contemporanea deve innestarsi, privata degli elementi accessori, per poter intendere tutto l’insegnamento cattolico, nelle sue varie articolazioni.[3]   

1.      Il rapporto natura-grazia e la alienazione tra chiesa e cultura

La questione del rapporto tra natura e grazia, e quindi tra grazia e impegno nel mondo, ha a che fare con l’identità di ciò che è proprio del cristiano. Secondo la Bibbia il disegno salvifico di Dio già prima della creazione è orientato verso Gesù Cristo, in vista di cui e per mezzo di cui tutte le cose sono state create (Col 1,16 s). Così il quarto vangelo dice nel prologo che la luce del Logos, con cui tutto è stato creato, è la luce vera, che illumina ogni uomo (Gv 1,9).

In seguito i Padri della chiesa del secondo e del terzo secolo, come Ireneo o Tertulliano, hanno sottolineato l’unità della creazione e della redenzione e parimenti hanno differenziato tra la realtà creata e la grazia come dono gratuito, rompendo in tal modo l’unità tra ordine religioso e ordine mondano dell’antichità. Gregorio Nisseno, sulla scia di san Atanasio, il Padre del monachesimo, ha poi elaborato e portato ad espressione matura il motivo trainante del Simbolo di fede: Dio è diventato uomo, per divinizzare gli uomini e così portare il disegno divino al suo compimento. Questa elaborazione dottrinale della unità nella diversità, nei suoi frutti più maturi, si è sedimentata, servendosi di una formulazione medio-platonica applicata per analogia, nella celebre definizione del concilio di Calcedonia (451), secondo la quale Cristo, poiché è in due nature non confuse e non separate, è un unico prosopon e una ipostasi (DH 302). Così si è messo in risalto l’aspetto della incarnazione e della relazione tra le due nature, umana e divina, professando l’unità di Cristo a livello della persona e la duplicità a livello delle nature.

Nella tarda antichità e nel Medioevo, sotto l’influsso decisivo di Agostino, l’importanza dell’autonomia propria dei valori naturali non svolse alcun ruolo. Essi vennero considerati buoni esclusivamente come strumenti e figure di passaggio per il raggiungimento del fine eterno. Secondo Agostino, l’uomo può solo seguire e amare la volontà di Dio per sé stessa, tutto il resto è un mezzo. Solo con Alberto Magno e san Tommaso d’Aquino, si è giunti a pensare ad una relativa autonomia dell’ordine delle cose mondane dentro l’unico ordine del disegno divino, che dà spazio alla libertà umana e concede una relativa autonomia ai valori mondani.

Però, la teologia post-tridentina, la cosiddetta Scolastica barocca, ha separato i due ordini, l’ordine naturale e l’ordine soprannaturale e li ha portati fino alle più radicali conseguenze di un dualismo dei due ordini. Questo schema dei due piani, natura e grazia, natura e soprannaturale, ma anche Chiesa e Stato, uniti solo estrinsecisticamente, ha favorito – come è stato dimostrato, in maniera del tutto convincente, da Henri de Lubac – senza volerlo la separazione netta tra mondo e Cristianesimo e contribuito all’emergere della moderna secolarizzazione, che ha abbandonato la soprastruttura del soprannaturale e puntato sulla pura autonomia e l’autodeterminazione dell’uomo.

Da una legittima distinzione si è avuta una separazione e una alienazione, talvolta anche una inimicizia dei due ordini. La Chiesa nel cosiddetto antimodernismo ha condannato l’autonomismo moderno e lo Stato moderno, ha rifiutato non solo ogni ingerenza della Chiesa nell’ambito dello Stato e negli affari culturali e economici ma ha marginalizzato il cristianesimo, lo ha escluso della sfera pubblica e lo ha ridotto all’ambito privato e alla sfera intima della persona.  

2.      La nascita di una teologia e una antropologia rinnovata

Nel secolo scorso, dopo la crisi modernista, la reazione a questa dottrina, è stata opera soprattutto di un filosofo, Maurice Blondel (1861-1949) con la sua famosa opera L’Action (1893).[4] In questo libro del primo Blondel c’è una dialettica interna tra volontà volente e volontà voluta, che conduce al rinvenimento in ogni azione, in ogni uomo normale, di un ‘unico necessario’, di una idea di Dio in noi, che non trova il proprio compimento nell’ordine naturale, ma porta inevitabilmente alla certezza di una realtà trascendente. Questo soprannaturale, però, in maniera paradossale, è inaccessibile e impossibile da attingere con le sole forze dell’azione.

 Questo carattere paradossale dell’uomo, come dirà de Lubac, può essere sciolto soltanto se l’uomo rinuncia alla propria egoistica volontà e si affida completamente all’assoluta libera iniziativa di Dio. Per questa via l’idea del soprannaturale, che viene dal di fuori, trova dunque la sua corrispondenza nell’intimo dell’uomo, non viene imposto dall’esterno «in maniera tirannica», ma viene disvelato, nasce per così dire «unicamente dall’intimo dell’azione perfettamente personale». Vi è una testimonianza dell'Assoluto nel fondo del cuore. Blondel, qui, cita san Agostino, e la sua interpretazione del prologo del vangelo di Giovanni, che dice – come abbiamo già visto – che la luce del Logos illumina ogni uomo e san Agostino ne conclude: «Testimonium sibi perhibet lux. Sibi ipsa testis est ut conoscatur lux».[5]

In questo modo, ciò che l’Aquinate e Alberto Magno avevano anticipato, viene riscoperto in vista di un rinnovamento della determinazione del rapporto tra natura, grazia e cultura, dando vita ad una sintesi di nova et vetera che è passata alla storia come nouvelle théologie. Essa vedeva una corrispondenza tra le posizioni blondeliane e la dottrina di san Tommaso nella tesi del desiderium naturale videndi Deum che può trovare il suo proprio compimento solo attraverso la grazia gratuitamente data da Dio. Sul terreno teologico più proprio, in particolare de Lubac, con la sua ammirevole conoscenza della tradizione teologica, ha cercato di dare una fondazione rigorosa e convincente a questo discorso. In modo simile, Blondel, assieme al belga Joseph Maréchal, ha influenzato anche Karl Rahner (1904-84), un altro grande esponente della teologia del secolo scorso con una irradiazione teologica universale.[6]   

Partendo dalla Action, il tardo Maurice Blondel, nel suo testo Histoire et dogme [7] è entrato in dibattito con lo storicismo modernista e con Alfred Loisy, considerato (oggi diremmo meglio: presunto) il capo dei modernisti e con il suo L’évangile et l’Église (1902). In questa discussione Blondel ha mostrato come riconciliare la storicità della Chiesa e dei suoi insegnamenti con la loro validità permanente e vincolante. Così Blondel trova il suo posto accanto ad un altro grande precursore della teologia moderna, il neo-canonizzato John Henry Newman, con il suo Essay on the Development on Christian Doctrine (1845). Sia Newman che Blondel hanno posto la base filosofico-teologica per riconoscere le realtà e le scienze storiche senza cadere né nel relativismo e liberalismo modernista, né in un cieco fondamentalismo antimodernista.    

Tutti i grandi precursori della teologia moderna – John Henry Newman, Maurice Blondel, Henri de Lubac, in Italia merita di essere citato Antonio Rosmini[8] ed è da non dimenticare l’italo-tedesco Romano Guardini [9] – hanno mostrato che l’unica strada per superare la crisi del modernismo e dell’antimodernismo è quella del ressourcement, del ritorno alle fonti scritturistiche e della grande tradizione, che è il presupposto indispensabile per l’aggiornamento della teologia e della Chiesa per una apertura verso il futuro. Il concilio Vaticano II (1962-65), in merito, ci ha già fornito i più importanti segnavia, non solo contro l‘antico dualismo della tarda Scolastica ma anche contro i nuovi dualismi dei due gemelli nemici il modernismo e l’antimodernismo.  Già il grande Aristotele ha detto e san Tomaso lo ha ripetuto, che la virtù è nel mezzo fra gli estremi.

3.      Il concilio Vaticano II – Progetto di un nuovo umanesimo integrale

Il concilio Vaticano II si appropria di questo rinnovamento, per quanto riguarda il nostro problema, in particolare, nella Costituzione pastorale Gaudium et spes, Già il titolo di questa costituzione è significativo. Il concilio non dice: “La Chiesa e il mondo moderno” come se la chiesa e il mondo fossero due stelle polari separate; il concilio parla de: “La Chiesa nel mondo contemporaneo.” Il testo centrale si trova nel nr. 22, [10] che inizia così: “In realtà solo nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo.” Cristo rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione.” Anche nel nr. 45 si dice che “Cristo è il fine della storia umana, “il punto focale dei desideri della storia e della civiltà”, il centro del genere umano, la gioia di ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni.” E finalmente: “Chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, si fa lui pure più uomo.” (nr. 41). Su questa base il concilio ha riconosciuto i diritti fondamentali della persona umana (nn. 21; 26; 29; 60 ecc.) e soprattutto dopo lunghi e controversi dibattiti ha ammesso in una Dichiarazione particolare la libertà religiosa come diritto fondamentale della persona e espressione dalla sua dignità.

I redattori dei testi conciliari si resero perfettamente conto che qui non si tratta affatto di una sintesi armonica, perché la realtà concreta del mondo non solo di oggi non è semplicemente aperta a Dio: l’uomo concreto è l’homo incurvatus, uomo curvato e rinchiuso in sé stesso, che, per usare un’espressione cara ai Padri della Chiesa, per via ed a seguito del peccato originale, ha spezzato l’umanità indivisa in mille frammenti ed in una miriade d'individui e tendenze discordanti. Perciò soltanto se comprendiamo questo nuovo umanesimo nell’ambito della croce e della resurrezione possiamo affermare con Gaudium et spes: “Per Cristo e in Cristo riceve luce quell’enigma del dolore e della morte, che al di fuori del suo vangelo ci opprime” (nr. 22). 

Queste affermazioni centrali implicano la negazione di ogni idea di natura pura. Infatti, consentono di respingere l’estrinsecismo di natura e grazia, chiesa e mondo, sulla base del cristocentrismo biblico un nuovo umanesimo (nr. 55), che all’interno dell’unico ordine salvifico dà spazio ad una, correttamente intesa, relativa autonomia delle realtà terrene, che hanno le loro proprie leggi, la loro propria verità e bontà (nn. 36; 41; 56; 76). Tale relativa autonomia non è in contraddizione con la dipendenza totale del mondo e dell’uomo da Dio nella creazione e nella redenzione, perché appunto la dipendenza significa anche la differenza infinita fra Dio e il mondo. Così ad ogni somiglianza corrisponde una maggiore dissomiglianza.[11] 

Se questa differenza non viene considerata, allora si giunge alla divinizzazione del mondo e all’assolutizzazione dei valori mondani, sia che si tratti di razza o classe sociale, sia che si tratti di valori di una determinata cultura o dei beni materiali che vengono assolutizzati, ci rendono schiavi e spingono una cultura o nazione contro l’altra. Solo quando il mondo è soltanto mondo, cioè quando rimane una realtà relativa, l’uomo può godersene e al contempo può essere libero e superare gli steccati frapposti dalle culture e dagli interessi egoistici, ed essere aperto l’un verso l’altro.  In questo modo il Concilio accoglie e fa proprio l’impulso alla libertà dell’umanesimo moderno, ma parimenti lo preserva dall’autodistruzione integrandolo in una prospettiva cristologica universale.

Paolo VI, poi, nella enciclica Evangelii nuntiandi (1975) va oltre e concretizza il rapporto natura e grazia, affermando che la «separazione tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo è stato anche in altre epoche» (nr. 20) e sulla scia di Jacques Maritain [12] propone il superamento del dramma dell’umanesimo ateo (de Lubac), con il recupero di un umanesimo integrale.

La Evangelii nuntiandi di Paolo VI è diventata fondamentale per la programmatica Lettera apostolica di Papa Francesco Evangelii gaudium (2013). Papa Francesco ha tratto le conclusioni del dramma della separazione fra Vangelo e cultura, vede le sue conseguenze nella tristezza individualista, in un vuoto interiore, nell’ isolamento e nella ricerca malata di piaceri superficiali. Solo un nuovo incontro personale con Gesù Cristo e la Buona Novella del Vangelo possono portare a nuova gioia e a un nuovo entusiasmo (nnr.1-3) perché può appagare il cuore. [13] Pertanto, egli vuole iniziare una nuova stagione della evangelizzazione, una chiesa in partenza, una chiesa in permanente missione, però una missione che non si fa con proselitismo ma attraverso l’attrazione dello stesso messaggio evangelico (nr.14;34), una missione che non imponga la verità ma faccia appello alla libertà (nr.165), che convinca attraverso il messaggio stesso e il fascino della sua bellezza (nr.34; 264), perché corrisponde al desiderio più profondo del cuore umano creato per la gioia. Qui si vede quanto Papa Francesco ha imparato da Henri de Lubac e della teologia francese [14] e come sa applicarla alla pastorale concreta in un linguaggio comprensibile per tutti. 

4.      Conseguenze per l’impegno cristiano

Il linguaggio concreto di Papa Francesco mi porta adesso alle conseguenze concrete del progetto conciliare di un nuovo umanesimo per l’impegno cristiano nel mondo contemporaneo. Mi limiterò a trattare ed esplicitare tre aspetti di carattere fondamentale.

4.1. La testimonianza vissuta di Dio

L’aspetto e la preoccupazione fondamentale del pensiero occidentale sin dai origini della cultura occidentale erano la questione dell’uomo. Già negli scritti preplatonici si incontra l’ammonimento: Gnothi seautón! conosci te stesso![15] E va aggiunto: „Medèn ágan“, „Nessun eccesso!” Riconosci che non sei dio ma uomo! Come modello di tale umanesimo occidentale è da considerare la figura di Socrate. Simile ma tuttavia diverso è il salmista. Anche lui si domanda: “Che cosa è l’uomo?” E però aggiunge: „Che cosa è l’uomo, perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi” (Sal 8,5; 144,3). Il punto di partenza della Bibbia è: L’uomo è creato ad immagine e somiglianza di Dio (Gn 1,27). Pertanto – e questa è stata la convinzione di tutta la tradizione cristiana: Solo Dio è abbastanza grande per appagare l’apertura e il desiderio infinito dell’uomo. L’uomo può trovare solo in Dio il suo compimento ultimo. Solo Dio rende sazi (Tomaso). Solo Dio basta (Teresa d’Ávila). Solo attraverso e in Christo, che è Dio e uomo, l’uomo trova la sua vera eudaimonia, la sua beatitudine, la sua gioia piena (per usare il linguaggio di Papa Francesco).  

Queste espressioni al giorno d’oggi suonano strane, obsolete, fuori moda. La morte di Dio proclamata da Friedrich Nietzsche è anche la morte dell’uomo come inteso finora e ha portato a una crisi della antropologia.[16] L’umanitarismo moderno, al contrario dell’umanesimo, vede la beatitudine nella maggior possibile soddisfazione di bisogni del maggior numero possibile di uomini (Jeremy Bentham, il padre del Welfare State). Così nel moderno umanitarismo, al posto della buona vita subentra il vivere bene e la lunga vita. Ma se tutto va ridotto a un calcolo dei piaceri e dell’utile, anche l’uomo diventa oggetto di un calcolo e perde la sua dignità inviolabile; in ultimo l’umanitarismo rinuncia all’idea di un valore incondizionato di ogni uomo e diventa mezzo per un presumibile scopo più alto, come nelle dittature totalitarie dove la generazione presente va sacrificata sull’altare del progresso, o come nel capitalismo sull’altare del vantaggio economico, e come, nel triste dibattito sull’aborto, sull’altare del proprio futuro individuale.

Sin dai tempi del concilio il problema si è aggravato sempre di più. Il problema non è più l’umanesimo ateo. Karl Rahner disse una volta: Oggi un vero ateo è già un colpo di fortuna pastorale. Per un ateo Dio è un problema, con lui si può discutere. Però oggi molti non hanno solo dimenticato Dio, ma hanno anche dimenticato che hanno dimenticato Dio. Per loro Dio non è più un problema e parlare di Dio per loro non significa più nulla. Non sono atei, sono indifferenti. Il che non vuol dire che siano cattivi o più cattivi di quanto lo sia la media dei cristiani, anzi la maggioranza di loro ha dei criteri di ciò che è bene o male. A loro si può dire: Gnothi seautòn, ascolta la voce della tua coscienza, la coscienza - che secondo il concilio – è il nucleo segreto e il sacrario di ogni uomo, in cui risuona la voce di Dio (Gaudium et spes 16), o forse meglio e più cauto– come disse John Henry Newman – dove si sente l’eco della voce di Dio, dove si può sentire qualcosa di incondizionato, qualcosa che vale assolutamente e che richiede la nostra responsabilità.

Sono convinto, che in questo modo molti che si dicono indifferenti, se pronti ad ascoltare la voce del loro cuore, possono sperimentare qualcosa di Dio, ma di un Dio che per loro rimane anonimo, non sanno chiamarlo per nome. Da cristiani speriamo che la testimonianza vissuta del Dio di Gesù Cristo possa risvegliare ciò che dorme o forse anche ciò che essi sognano nell’ intimo del loro cuore. Non possiamo imporlo o forzarlo. Possiamo solo, con ogni rispetto per la libertà e la dignità dell’altro, proporre la nostra fede. [17] Questa testimonianza vissuta del Dio che si è manifestato in Gesù Cristo è il nostro contributo cristiano, il più importante per la sopravvivenza dell’eredità culturale dell’umanità.

4.2.  L’impegno per una civiltà dell’amore

Al fondo del parlare di Dio ci sono le esperienze drammatiche e traumatiche del secolo scorso con due guerre mondiali, due sistemi totalitari brutali, numerosi eccidi etnici e di massa. Il nostro secolo non ha cominciato meglio con il terrorismo spietato, con ingiustizie che gridano vendetta al cielo, bambini vittime di abusi e che muoiono di fame, milioni di uomini in fuga, e crescenti persecuzioni di cristiani, inoltre devastanti catastrofi naturali, infine gli scandali nella stessa chiesa. Di fronte a questa situazione a molti riesce difficile parlare di un Dio onnipotente e nello stesso tempo giusto e misericordioso. Dov’ era e dove è Dio? Cosi la miseria e la sofferenza nel mondo sono divenute l’argomento più importante per l’ateismo moderno.[18] 

In tale situazione l’empatia e la compassione sono divenute una nuova via di accesso alla teologia[19] e per la scoperta nuova della centralità del messaggio della misericordia nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Papa Francesco ne ha fatto il centro del suo pontificato.[20] Questo messaggio ci ha portato a un ripensamento del concetto di Dio, che rivela la sua onnipotenza non nella violenza, nella vendetta o nella punizione ma nella kenosi (abbassamento) e nella debolezza della incarnazione e della croce, nella misericordia e la tenerezza con i deboli, i sofferenti e i peccatori, che cercano il suo perdono e nel suo amore preferenziale per i poveri sia nel senso materiale e nel senso spirituale. Dio è amore (1 Gv 4,8.16) e la misericordia cioè il suo cuore per i miseri è l’espressione di questo amore.[21]

Se Dio è misericordioso con noi, anche noi dobbiamo essere misericordiosi (Lc 6,36). Se Dio ha manifestato sé stesso come colui che dona e comunica sé stesso, anche l’esistenza del cristiano deve trovare il suo compimento nella pro-esistenza, cioè nell’essere per gli altri e con gli altri. [22] Questa regola non vale solo come chiave della vita cristiana per i singoli cristiani, ma vale anche per la nostra esistenza e nostro impegno sociopolitico. Già Paolo VI ha coniato il termine di una civiltà dell’amore, i Papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI lo hanno ripreso e per Papa Francesco di nuovo è divenuto centrale. Lui richiede una nuova cultura della solidarietà e della misericordia.

Sarebbe pure un grave malinteso se si intendesse la misericordia come opposta alla giustizia. La misericordia non è né un cristianesimo light e a buon prezzo né una negazione o una minimizzazione della giustizia. La misericordia non fa a meno della giustizia e non la sostituisce ma la include e allo stesso tempo la oltrepassa e la supera; essa è la pienezza della giustizia. Mentre la somma giustizia in casi concreti può trasformarsi in somma ingiustizia, la misericordia è la giustizia concreta che corrisponde non solo a una regola o una legge generale ma risponde alla situazione concreta dell’altro e alla sua dignità personale che richiede di essere accolta incondizionatamente non come un caso fra tanti altri, ma come una persona che è sempre singolare ed unica. Solo una civiltà dell’amore è una verace civiltà umana. Perché l’amore è più di un vago sentimento, è il compimento della persona umana e la carità è l’adempimento della Legge e di tutti i comandamenti (Rom 13,8-10).  È il superamento del nostro individualismo ed egoismo occidentale attraverso la solidarietà; è la risposta alla miseria del e nel nostro mondo attuale. Non si possono, tuttavia, codificare giuridicamente, in maniera positiva, l’amore e la misericordia. Essi possono e debbono ispirare il concreto ordine del diritto e della giustizia e trasformare la società dall’interno. In questo senso, noi cristiani dobbiamo dare uno specifico contributo nella costruzione dell’economia, della cultura e della politica. Dobbiamo rendere concretamente chiaro che solidarietà e la misericordia appartengono all’umanità della società.

4.3. Una chiesa dal volto umano

La nascita della teologia e antropologia rinnovata è intimamente connessa con il risveglio e l’aggiornamento della chiesa nella prima metà del secolo scorso dopo la crisi modernista. Romano Guardini scrisse allora la famosa frase: “Le chiesa si sveglia nei cuori.”[23] Henri de Lubac, insieme con altri teologi della théologie nouvelle come Yves Congar, Jean Daniélou, Marie-Dominique Chenu , è stato tra i grandi protagonisti di questo sviluppo, che è sfociato nel concilio Vaticano II soprattutto, nella costituzione sulla chiesa Lumen gentium.

De Lubac ha dato il tono con il suo libro programmatico Catholicisme (1938).[24] Il sottotitolo Les aspects sociaux du dogme non va inteso male, come si trattasse di una interpretazione sociologica della chiesa. Anzi, Lubac intende rendere chiaro che la chiesa primariamente non è una realtà giuridica sociologica gerarchica, ma una comunione nello Spirito, nella fede e nella carità di tutti i fedeli, anche e soprattutto i fedeli laici. [25] La chiesa è segno sacramentale e strumento della unità di tutta la umanità, e così la risposta al problema della unità e della pace nel mondo. Pertanto, deve aprirsi per il dialogo ecumenico e interreligioso.

Con il suo annuncio essa si rapporta agli uomini del proprio tempo. La chiesa è una chiesa sempre da rinnovare.[26] Tuttavia, lo spirito del tempo e la mentalità di una determinata cultura possono per la chiesa essere soltanto un punto di partenza e un punto di contatto, ma mai la misura del suo agire. Per essa l’unico metro può essere soltanto il vangelo, che vale una volta per sempre. Questo non significa rinserrarsi in sé stessa come se si trattasse di una setta, perché proprio in quanto prende sul serio la trascendenza dell’annuncio della grazia la chiesa può essere custode e difensore della libertà umana.

In sé stessa la chiesa è un organismo, in cui la più grande proprietà dei parti, anche delle chiese particolari, serve alla più forte unità della chiesa universale.[27] La libertà cristiana deve essere realizzata a vari livelli nell’ambito della realtà ecclesiale, nel rapporto tra magistero e fedeli, tra magistero e teologi, in un’atmosfera di reciproca fiducia e in una cultura di libertà, di dialogo, di rispetto reciproco, di tolleranza e di amore. L’apostolo Paolo ci invita, con una celebre formula, a vivere la verità nell’amore (Ef 4,15).

“Nella carità e nello scambio anche di beni materiali indispensabili alla vita, forma continuamente la “comunità”, la quale è dunque comunione e comunanza di vita e di beni spirituali e materiali. I sazi, in una parola, non potranno prendere parte alla Liturgia della Comunità accanto a fratelli affamati, se non abbiano prima provveduto a sfamarli (meglio: metterli in grado, oggi, di sfamarsi da sé, col proprio lavoro), altrimenti si avrebbe una tragica farsa”.[28]

Questi caratteri essenziali che abbiamo cercato di tratteggiare, sia pure in maniera molto sintetica, costituiscono il proprium e lo specifico del cristianesimo, Purtroppo, questa sintesi geniale di vetera et nova dopo il concilio talvolta è stata abbandonata per una visione unilateralmente umana e sociologica. Dall’apertura al mondo talvolta si è passati ad un adattamento al mondo e dall’aggiornamento ad una mondanità spirituale, che Lubac, con una frase molto cara a Papa Francesco, ha chiamato la più grande tentazione della chiesa.  

Nello sguardo retrospettivo di Lubac si trovano alcuni toni critici forse pure risegnativi su questo sviluppo.[29] Così Lubac alza la sua voce anche nella situazione odierna della chiesa e ci ammonisce che nell’impegno per un nuovo umanesimo cristiano ci vuole una sintesi di nova et vetera, perché si può conservare la tradizione solo aggiornandola e si può rinnovare e aggiornare solo attingendo dal tesoro della tradizione. Gli estremi sono sempre la soluzione più facile, la forza del pensatore si manifesta nella misura e nel mezzo. Per i cristiani Gesù Cristo è il mediatore, misura e mezzo e anche scopo di tutta la storia. Il suo vangelo merita il nostro impegno e avrà avvenire anche domani per costruire un nuovo umanesimo cristiano del terzo millennio. 

Card. Walter Kasper

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[1] H. de Lubac, Surnaturel. Études historiques, Paris 1946 ; Le mystère du Surnaturel, Paris 1965.

[2] W. Kasper, Fede e storia, Brescia 1975, p. 88; cfr. Joseph Ratzinger, Relazione su Henri de Lubac a cent’anni dalla nascita, tenuta dal Card. Joseph Ratzinger, al Convegno Internazionale su H. de Lubac nel centenario della sua nascita (1896-1996), Pontificia Università Gregoriana, Roma 9 dicembre 1996, organizzato da Antonio Russo e Jacques Servais. 

[3] W. Kasper, Nature-Gnade-Kultur. Zur Bedeutung der modernen Säkularisierung, in W. Kasper, Theologie und Kirche, Bd. II, Mainz 1999, p. 195.

[4] M. Blondel, L’Action. Essai d’une critique de la vie et d’une science de la pratique, Paris 1893.

[5] S. Agostino, In Jo. tract. 35, n. 4.

[6] Cfr. A. Raffelt, Maurice Blondel und die katholische Theologie in Deutschland, in: Das Tun, der Glaube, die Vernunft. Studien zur Philosophie Maurice Blondels. „L’Action“ 1893-1993. Hrsg. von A. Raffelt, P. Reifenberg, G. Fuchs, Würzburg 1995, 180-205.    

[7] M. Blondel, Histoire et dogme. Les lacunes philosophiques de l'exégèse moderne. Extrait de la 'Quinzaine' des 16 janvier, 1er et 16 février 1904.

[8] Cfr. Credere pensando. Domande della teologia contemporanea nell’orizzonte del pensiero di Antonio Rosmini, ed. K.-H. Menke e A. Staglianò, Brescia 1997.

[9] Anche Guardini è cresciuto e si è formato durante la crisi fra modernismo e antimodernismo e finalmente ha trovato una filosofia della polarità e del mezzo e della misura. Cf. Der Gegensatz. Versuch zu einer Philosophie des Lebendig Konkreten, 1925; poi, R. Guardini, Berichte über mein Leben. Autobiographische Aufzeichnungen, hrsg. von F. Henrich, Düsseldorf 1984.

[10] Anche K. Wojtyla trova nel n 22 della Gaudium et spes l’«essenziale dell’antropologa cristocentrica» (G. Weigel, Testimone della speranza. La vita di Giovanni Paolo II, protagonista del secolo, Milano, 1999, 209). E Wojtyla, nel Vaticano II, ebbe modo di lavorare «fianco a fianco» con Henri de Lubac, che «segnò l’inizio di una ‘speciale amicizia’ tra i due» (Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, Milano, Mondadori, 2001,173; J.-M. Lustiger, Souvenirs et présence du Cardinal Henri de Lubac, in Henri de Lubac et le Mystère de l’Eglise, Paris, 1999, 220-221). Il frutto principale di questa cooperazione si tradusse nella redazione dello Schema XIII.  H. de Lubac, Mémoires sur l’occasion de mes écrits, Namur 1989, 175 : «J’avais connu Mgr Wojtyla à Rome, au temps du Concile. Nous avions travaillé côte à côte, lors de l’enfantement pénible du fameux schéma 13, devenu après nombre de remaniements précipités la Constitution Gaudium et spes».

[11] Così la famosa affermazione del concilio Lateranense IV (1215) DS 806.

[12] J. Maritain, Humanisme intégral. Problèmes temporels et spirituels d'une nouvelle chrétienté, Paris 1936 e 1947.

[13] La gioia non è solo un qualcosa di emozionale, ma significa che un desiderio sensibile o spirituale ha raggiunto la sua mèta e si sente appagato. Così Francesco con Tommaso definisce la gioia come dilatazione del cuore (Amoris laetitia, nr.26; cfr. Evangelii gaudium. nr 272) (Tommaso, S. th. I/II q. 31 a. 3 ad 3) che si contraddistingue dalla angoscia, come strettezza del cuore.  

[14] A. Ivereich, The Great Reformer. Francis and the Making of a Radical Pope, New York 2014, XV; 207; 241; 245; 358; M. Borghesi, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale. Dialettica e mistica, Milano 2017, 94-101. Fra i gesuiti francesi particolarmente influente Gaston Fessard, la cui ispirazione fondamentale proveniva soprattutto da Blondel. Cfr. P. Henrici, La descendance blondélienne parmi les jésuites français, in Maurice Blondel et la philosophie française, par E. Gabellieri e P. de Cointet, Paris 2007, 317.

[15] Die Fragmente der Vorsokratiker, Bd. 1, 62; vgl. Chilon, zit. ebd. 63; Thales, zit. ebd. 71; 73.

[16] Cf. H. de Lubac, Le Drame De L’Humanisme Athée, Paris 1942.

[17] Cf. il documento dei vescovi della Francia Proposer la foi dans la société actuelle. Lettre aux catholiques de France (1994).

[18] W. Kasper, Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo – chiave della vita cristiana, Brescia 2013.

[19] Cf. La richiesta di J. B. Metz per una teologia sensitiva per la teodicea, per una mistica degli occhi aperti e per una chiesa della compassione, Opera omnia, vol. 1 e 7, Freiburg i.Br. 2015 e 2017.   

[20] Francesco, Lettera apostolica, Misericordia et misera (2016). Già prima Giovanni Paolo II, enciclica Dives in misericordia (1980).

[21] Benedetto XVI, enciclica, Deus caritas est (2005)

[22] Qui il principio fondamentale della filosofia del dialogo di M. Buber, F. Rosenzweig, F. Ebner, E. Levinas ed altri, portato avanti criticamente dalla scuola di Francoforte, particolarmente da J. Habermas.

[23]  R. Guardini, Vom Sinn der Kirche (1922) Würzburg 41955,19.

[24] Da aggiungere il bellissimo libro più tarde di H. de Lubac, Méditations sur l’Église, Paris 1952.

[25] Sull’impegno dei laici cf. Y. Congar, Jalons pour une théologie du laicat, Paris 1952.

[26] Cf. Y. Congar, Vraie et fausse réforme dans l’Église, Paris 1950.

[27]  H.de Lubac, Les églises particulières dans l’Église universelle, Paris 1974.

[28] Tommaso Federici (teologo, biblista e liturgista ingiustamente poco noto), Letture bibliche sulla carità, Roma 1970.

[29] H. de Lubac, Mémoire sur l’occasion de mes écrits, Namur 1989.