Il dialogo tra Chiesa e mondo

Gentili signori, gentili signore, è per me un onore e una gioia parlare in questa prestigiosissima sede di Trieste, su un tema tanto attuale quanto fondamentale come quello del dialogo. Ringrazio di cuore, in particolare, la direttrice del Castello di Miramare, dr.ssa Andreina Contessa per la squisita ospitalità e poi gli organizzatori dell’evento (Antonio Russo e Raniero Fontana) per l’invito e per le calorose parole di benvenuto.

Introduzione

Per poter comprendere utilmente i principali aspetti del problema del dialogo tra Chiesa e mondo, occorre innanzitutto precisare ed esaminare, sia pure brevemente data la sede e le circostanze, le fonti da cui attingere. Storicamente, il dialogo è stato scelto per esporre le idee dell’uno o dell’altro pensatore (Platone, Giordano Bruno, Galilei, ecc.) e per imporle nei confronti dell’interlocutore o di altri interlocutori; oppure è diventato quasi sinonimo di libero pensatore, cioè di una persona che non pensa niente. In questo modo, il termine ha assunto significati tra di loro contrastanti e addirittura antitetici, portando addirittura alla dissoluzione di ogni criterio, di ogni norma stabile di convivenza.

Come cristiani, il dialogo ci è imposto soprattutto per amore della pace e del prossimo. Non si tratta di una questione puramente accademica, ma sociale ed ecclesiale, che riguarda aspetti pratici e concreti a tutti i livelli, in una chiesa che è in cammino, per usare una famosa espressione, biblica e teologica, fatta propria e preferita da Papa Francesco [1]. Si tratta, qui, di una fondamentale esigenza di vita e di morale, intesa come comprensione, amore, misericordia, collaborazione, societas.

Ma qual è il punto di partenza del dialogo per un cristiano?

Perché dialogare, come e con chi dialogare?

Per sciogliere questi interrogativi e cogliere appieno il senso e la fisionomia che ad esso bisogna dare, è necessario tornare per un istante alle origini, cioè alla questione di Dio, ai testi scritturistici e ai grandi Padri della Chiesa. Questo è il punto di partenza.  

Nella Bibbia si parla dell’unico Dio, che è creatore e Padre di tutta la realtà e di tutti gli uomini. In tal modo, Dio fonda la dignità di ogni essere umano, indipendentemente dall’appartenenza ad una razza, nazione, cultura, sesso, dalle condizioni economiche. Questo discorso sta alla base della collaborazione per la non violenza e per l’universale solidarietà umana, l’uguale dignità tra uomo e donna, il rispetto della vita e la conservazione della creazione, la tutela dell’ambiente, il dialogo. La professione di fede nell’unico Dio di tutti gli uomini ha perciò delle conseguenze pratiche. Ciò non vale solo per l’ordine della creazione, ma vale anche a proposito dell’ordine della storia della salvezza.

E’ possibile, quindi, muovere dalla professione di fede nell’unico Dio, per tracciare delle linee entro cui sviluppare aspetti di carattere profondamento etico-sociale. Non per rigettare il mondo o per abbatterlo, come regno del male, ma per tener debitamente conto del fatto che per la Chiesa «Creatore e Redentore sono un solo unico e medesimo Dio: non potrebbe dunque esservi opposizione tra le loro opere, ed  è una aberrazione credere che si esalterà la seconda screditando la prima»[2]

Ai grandi Padri della Chiesa, forti di questa convinzione e pur pienamente consci «dell’origine diabolica dei culti idolatrici, le osservazioni indignate e ironiche di un Porfirio, di un Giuliano o di un Fausto alla vista degli “usi” pagani introdotti a poco a poco nella vita cristiana, non riuscivano a turbarli» (p. 251).

Nel secolo scorso, per queste stesse ragioni, soprattutto de Lubac - con il «rinnovamento dell’antica tradizione patristica e della scolastica medioevale del periodo d’oro», a cui io personalmente devo «stimoli decisivi per la comprensione della chiesa»[3] -, nel mettere in rilievo i tratti essenzialissimi del Cristianesimo scriveva: «Dominus naturalia legis non dissolvit, sed extendit et implevit. Come lui, i suoi messaggeri vengono dunque non a distruggere, ma a compiere; non a devastare, ma ad elevare, trasformare, consacrare…questi principi, la Chiesa li viveva. Sono alla base della sua pratica costante, e quando alcuni “riformatori” …pensarono di denunciare ovunque ciò che essi chiamarono le infiltrazioni pagane della Chiesa romana, furono obbligati, per indicarne la sorgente, di risalire a poco a poco fino alle primissime origini. La stessa Scrittura apparve contaminata»[4].

Di questi aspetti si è reso perfettamente conto il Concilio Vaticano II (1962-1965), che può essere visto come la Magna Charta della Chiesa cattolica del III millennio, la cui importanza dottrinale è vincolante e permanente, anche se esso è stato definito pastorale. I suoi sedici documenti principali e le sue formulazioni hanno segnato la via su cui deve incamminarsi la Chiesa e sono, quindi, tuttora un saldo punto di riferimento per l’attualizzazione del Vangelo nei suoi vari e molteplici aspetti, in rapporto e in dialogo con il mondo contemporaneo.

Sulla via tracciata dal Vaticano II, negli ultimi decenni, si sono svolti numerosi dialoghi, che hanno condotto al superamento di non pochi malintesi e a vari consensi, convergenze parziali, con la Chiesa anglicana, le chiese protestanti, le chiese ortodosse, con gli Ebrei. In questo contesto si inserisce anche il dialogo con il mondo contemporaneo. Il Concilio ne ha tracciato le line guida soprattutto nella Gaudium et spes, il cui sottotitolo non a caso è Sulla chiesa nel mondo contemporaneo (De Ecclesia in mundo huius temporis), che da molti interpreti è stato visto come il testo che esprime nel modo più caratteristico l’intento fondamentale del Vaticano II.

Nella costituzione Lumen gentium si era trattato della chiesa, della sua essenza e della sua missione; nella costituzione pastorale, invece, si parla della chiesa ad extra, cioè che vive nel mondo. Con ciò il concilio intende superare la rigida contrapposizione dualistica tra chiesa e mondo e perciò intende affermare l’idea che la Chiesa vuole tener conto delle speranze, delle tristezze, e delle «angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono» (GS 1).

Ma cosa significa nel mondo?

Rispondere a questo interrogativo non fu facile, soprattutto perché si trattava di una costituzione pastorale, una novità conciliare assoluta, tanto che mai prima c’era stato un simile documento, si erano avuti soltanto testi dottrinali o disciplinari. In ogni caso, nella nota iniziale si specifica che il testo poggia su «principi dottrinali» e vuole «esporre l’atteggiamento della chiesa in rapporto al mondo e agli uomini di oggi». Ma ancora una volta qual è il significato da attribuire da attribuire all’espressione mondo contemporaneo? Il documento conciliare, qui, parla della necessità e dell’urgenza di leggere i segni dei tempi. Come però vanno intesi e qual è il loro rapporto con i principi teologici?

Tematizzare e mettere in chiaro questo discorso, implica affrontare il problema dei cristiani e della chiesa nel mondo di oggi, che è uno dei nodi più complessi e importanti, uno dei problemi più vitali con cui la fede si vede confrontata (cfr. Gaudium et spes, nn. 42 e 45), con cui la teologia contemporanea deve confrontarsi e implica a sua volta la chiarificazione del rapporto tra natura, grazia e cultura[5].

Le posizioni degli interpreti divergono per quanto riguarda la precisazione di questo aspetto. Alcuni accentuano l’importanza dei segni dei tempi (come ad esempio Chenu, Congar), altri (come ad esempio Ratzinger, Rahner) mettono in risalto l’impostazione cristologica del discorso. Su quest’ultima linea si colloca ad esempio, per certi aspetti, anche Giovanni Paolo II, con esplicito riferimento al capitolo di GS 22. H. de Lubac, poi, scrive che la Gaudium et spes suppone, «come viene affermato al nr 40, la base dottrinale di Lumen gentium “sul mistero della Chiesa”[6]» e che, in particolare, il 4 capitolo della sua prima parte, «che espone la visione dell’uomo cristiano, è uno dei testi più importanti del Concilio» (p.47).  

In effetti, ciò che sta a cuore alla costituzione pastorale è una concezione antropocentrica del mondo, il mondo come mondo della vita familiare, culturale sociale, economica e politica dell’uomo moderno, pur senza dare una definizione precisa del concetto di cultura e d’altronde non era suo compito farlo. Lo stesso accade quando il testo espone ciò che caratterizza il mondo contemporaneo. Neanche qui il concilio ci offre una delimitazione esaustiva e precisa della idea di modernità. Ciò che primariamente importava ai Padri conciliari, come viene messo in evidenza sin dal movimento iniziale della Gaudium et spes, è innanzitutto l’abbandono dell’atteggiamento, fortemente polemico, antimodernista e, poi, lo sforzo di mettere in risalto un rapporto dialogico, costruttivo - anche se su taluni punti, profondi e sostanziali, in modo non acritico - con il mondo moderno e la sua cultura.  Per tutte queste ragioni, la costituzione conciliare ha un approccio positivo nei confronti di molti aspetti del mondo moderno. Sin da principio, infatti, si dichiara che la chiesa è in intima unione con l’intera famiglia umana, tanto che essa si sente «realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia» (GS, Proemio).

La Chiesa non esiste per sé stessa, ma è Chiesa nel mondo e Chiesa per gli uomini di questo mondo. In questo ambito rientra anche il problema della libertà e, in concreto, della libertà di religione. Nel 1965 venne promulgata la Dichiarazione sulla libertà religiosa, considerata una pietra miliare, che dette vita a feroci dibattiti. E’ qui in questione, ancora una volta, «il rapporto della chiesa, della sua comprensione della verità e della libertà, con i processi di libertà della modernità, una questione di importanza fatale per il futuro del cristianesimo nella nostra società»[7].  Questa apertura nei confronti dei diritti dell’uomo va oltre la stessa costituzione Gaudium et spes, poi, perché non si ferma ad ammettere soltanto l’autonomia delle realtà terrene, ma «segna un passaggio dal diritto della verità, fino ad allora riconosciuto, al diritto del soggetto.[8] Per lungo tempo, soprattutto a partire dalla rivoluzione francese, «la coscienza moderna della libertà e della storia» era stata vista come un processo di deviazione, di contrapposizione ed estraneamento dal cristianesimo. Ora, invece, alla luce di una rinnovata lettura dei testi biblici, la «dignità dell’uomo, basata sulla libertà, costituisce il presupposto del messaggio cristiano della salvezza […] costituisce il fondamento portante della visione che dei diritti dell’uomo ha l’enciclica Redemptor hominis».[9]

Ciò non significa affatto che, pur avendo una valutazione positiva della modernità, il Concilio Vaticano II e il magistero successivo mettano in ombra alcuni aspetti critici della modernità (cfr. GS 9; 37; 43; 54; 56 e, poi, Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, 12; 17; 21; 24; 28; 95). Esso ne conosce i limiti e l’ambivalenza, le crisi in fatto di crescita e la distruzione degli equilibri in esso in atto. Annovera l’ateismo tra le cose più preoccupanti del nostro tempo e deplora l’umanesimo intramondano ed ostile nei confronti della religione. Nel frattempo gli aspetti negativi della cultura moderna sono diventati ancor più chiari. Giovanni Paolo II ha addirittura parlato di una civiltà della morte e di una congiura contro la vita. Ma una visuale critica non è solo quella proposta dalla Chiesa, ma anche quella proposta da molti studiosi moderni tra loro assai diversi. Chi vuole entrare in dialogo con la modernità deve prendere conoscenza anche della critica mossa alla modernità. Max Horkheimer e Theodor W. Adorno hanno messo in luce una dialettica dell’illuminismo, secondo la quale ogni progresso comporta simultaneamente un regresso e una perdita. In modo simile Jürgen Habermas e Joseph Ratzinger parlano di una dialettica della secolarizzazione. Habermas difende il progresso incompiuto dell’illuminismo, ma parla nello stesso tempo di una modernità deragliata. La soggettività moderna corre il pericolo di degenerare in una oggettivazione, cioè in una cosificazione dell’uomo e in un individualismo socialmente spietato, in una ingiustizia che grida vendetta al cielo e in un divario crescente tra poveri e ricchi, in uno sfruttamento senza riguardi della natura e in una distruzione dell’equilibrio ecologico, in un materialismo pratico, in un relativismo e, alla fine, nel nichilismo.   

Conclusioni

Sulla base di questo sfondo, quali sono le conclusioni da trarre?

Una prima constatazione si impone: la cultura moderna è pluristratificata. Per Paolo VI, la rottura tra Chiesa e mondo moderno rappresentava il dramma della nostra epoca, che richiede una nuova evangelizzazione. Giovanni Paolo II, richiamandosi al discorso di San paolo all’Aeropago di Atene, ha parlato di un nuovo impegno nei confronti dei moderni aeropaghi. Benedetto XVI è andato oltre, sulla stessa linea, concentrandosi in particolare sul rapporto tra fede e sapere, mettendone in chiaro l’importanza. Il dialogo tra Chiesa e mondo moderno ha molti aspetti e coinvolge molti ambiti, tra cui arte, scienza, economia, politica, ecc. I Padri conciliari partirono dalla concezione biblica di Dio per riconoscere le legittime istanze della modernità, al di sopra di tutto il mondo e da esso distinto. Non appena la realtà si sgancia dal suo fondamento, si crea un vuoto spirituale, privo di fondamento e senza senso. Il primo e più importante compito della Chiesa è quello di ricordare sempre di nuovo che Dio è il fondamento, il fine e il contenuto della vita.

Card. Walter Kasper

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[1] Und jetz beginnen wir diesen Weg. Die ersten Botschaften des Pontifikats, Herder, Freiburg i. Br. 2013, 122-124.

[2] H. de Lubac, Cattolicismo. Gli aspetti sociali del Dogma, 1964, 249.

[3] W. Kasper, Chiesa Cattolica. Essenza- Realtà- Missione, Brescia 2012, 20-21.

[4] H. de Lubac, Cattolicismo, 249.

[5] W. Kasper, Natur – Gnade – Kultur. Zur Bedeutung der modernen Säkularisierung, in W. Kasper, Theologie und Kirche, Bd. II, Mainz 1999, 195, ma anche W. Kasper, La chiesa sacramento universale della salvezza, in W. Kasper, Teologia e chiesa, Brescia, Queriniana, 1989, 247.

[6] H. de Lubac, Entretien autour de Vatican II, Paris 1985, 45.

[7] W. Kasper, Theologie und Kirche, Bd. 2, 214.

[8] W. Kasper, Teologia e antropologia, in Teologia e chiesa, Brescia, 1989, 184.

[9] W. Kasper, Teologia e antropologia, 188.