Canoni e liturgie di un Dio che piange

Risurrezione di Lazzaro, Codex Purpureus Rossanensis, 550 d.C., Rossano, Museo Diocesano

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Il versetto 5 del capitolo 11 del Vangelo di Giovanni riporta in greco, all’interno del contesto del racconto sulla cosiddetta risurrezione di Lazzaro (“cosiddetta” perché Lazzaro torna alla vita fisica, biologica, ancora di nuovo soggetta a morte una seconda volta), espressioni di impressionante intensità per descrivere il rapporto tra Gesù di Nazaret ed il gruppo familiare di Betania legato a lui.

Le parole sono, testualmente: ἠγάπα δὲ ὁ Ἰησοῦς τὴν Μάρθαν καὶ τὴν ἀδελφὴν αὐτῆς καὶ τὸν Λάζαρον (la cui pronuncia può essere resa all’incirca così: “egàpa de ho Iesùs tèn Màrthan kài tèn adelfèn autès kài ton Làzaron”), che la versione latina della Nuova Vulgata (http://www.vatican.va/archive/bible/nova_vulgata/documents/nova-vulgata_nt_evang-ioannem_lt.html) traduce a sua volta con “Diligebat autem Iesus Martham et sororem eius et Lazarum”, ma dove, forse, la “dilectio” esprime meno della parola “amore” che invece compare anche nel testo liturgico italiano di questa domenica.

Gesù amava Marta (in realtà il greco riporta proprio “la” Marta, con l’articolo, τὴν, “tèn”) e sua sorella e Lazzaro.

Ed al versetto 35 il testo racconta il pianto di Gesù davanti alla tomba dell’amico: ἐδάκρυσεν ὁ Ἰησοῦς (edàrkysen ho Iesùs), “Lacrimatus est Iesus”: Gesù scoppiò in pianto.

Il pianto che in tutte le culture e le società dove è inimmaginabile vivere da soli, isolati – penso in particolare alle società del Corno d’Africa conosciute direttamente -, è dimensione non privata ed individuale, bensì pubblica e partecipata, costituisce, soprattutto quando occasionato da sofferenza e morte, qualcosa di cui noi, alle nostre latitudini, nei nostri contesti in particolare cittadini, abbiamo estremo pudore e la cui condivisione allargata ci crea enorme problema.

Eppure sono giorni in cui il pianto è diventato il linguaggio di ogni ora ed ogni minuto.

Sembra inutile e senza senso il pianto di Gesù: inutile perché comunque – avvertiamo l’obiezione che una certa accezione di religione devozionale ci trasmette – Gesù era il Figlio di Dio e dunque sapeva che da lì a poco avrebbe fatto uscire Lazzaro dal sepolcro, oppure inutile perché, rendendo più laica e razionale l’obiezione, con il pianto non si è mai risolto nulla. Come con la poesia, come con l’innamoramento, come con il canto.

Ed in effetti amore e pianto – accantonando le strumentalizzazioni pseudoreligiose che ridurrebbero le loro manifestazioni sostanzialmente a delle recite (Gesù avrebbe pianto “per finta” sapendo bene ciò che sarebbe accaduto da lì a poco) – sono utilitaristicamente inutili. Come inutile è la preghiera, come inutile è la liturgia.

Nella settimana che si è chiusa ed in vista della Grande Settimana – la Settimana Santa –, che inizierà domenica prossima e che tuttavia vedrà completamente assente il Popolo di Dio nelle chiese e nelle celebrazioni a causa dell’epidemia in atto, sono state emanate norme liturgiche di dettaglio da parte della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti (http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/ccdds/documents/rc_con_ccdds_doc_20200325_decreto-intempodicovid_it.html) e diffusi gli orientamenti attuativi da parte della Conferenza Episcopale Italiana (https://chiciseparera.chiesacattolica.it/in-tempo-di-covid-19-orientamenti-per-la-settimana-santa/).

La liturgia in quanto atto comunitario postula, esige, una partecipazione non individuale che però è al momento impossibile. Ci si domanda, legittimamente ad avviso di chi qui scrive, se dunque sia possibile celebrare una liturgia, viceversa, di necessità individuale o comunque ridotta a pochissime persone, così come ha indicato anche il Ministero degli Interni della Repubblica Italiana (https://diresom.net/2020/03/28/italy-a-letter-to-episcopal-conference-by-the-ministry-of-interior/; https://www.interno.gov.it/it/notizie/chiese-aperte-funzioni-religiose-ma-senza-partecipazione-dei-fedeli; https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2020-03/coronavirus-viminale-cei-chiese-settimana-santa.html).

Le norme del Decreto della competente Congregazione della Curia Romana per la liturgia nel rito romano hanno un presupposto ed una conseguenza di portata vincolante chiarissima, ma, sia permesso osservarlo in tutta modestia, anche discutibile nella sua apoditticità: “Dal momento che la data della Pasqua non può essere trasferita, nei paesi colpiti dalla malattia, dove sono previste restrizioni circa gli assembramenti e i movimenti delle persone, i Vescovi e i Presbiteri celebrino i riti della Settimana Santa senza concorso di popolo e in luogo adatto.”

Anche la Congregazione per le Chiese Orientali, fornendo le proprie indicazioni circa le celebrazioni pasquali nelle Chiese Orientali Cattoliche, ha sentito di dover esprimere la raccomandazione che “Si mantengano rigorosamente [sic: rigorosamente] le feste nel giorno previsto dal calendario liturgico” (http://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2020/03/25/0182/00412.html).

Sarebbe necessario al riguardo chiarire perché la data della Pasqua non possa essere trasferita e le feste debbano essere rigorosamente mantenute nei giorni previsti – un perché tutt’altro che richiesto polemicamente ma anzi necessario per la stessa corretta catechesi pasquale – e perché comunque i riti debbano essere assicurati in ogni caso benché senza popolo. Le implicazioni del presupposto e della conseguenza non sono senza importanti, forse addirittura decisive, implicazioni teologiche. Non si tratta di quisquilie, al contrario: si tratta di aspetti fondativi dell’esperienza di fede della comunità cristiana che dalla Pasqua celebrata nasce e attinge forza per vivere.

E tuttavia resta la possibilità di un’apertura forse ancora poco esplorata: esiste o non esiste il modo di rendere liturgia ogni singolo secondo delle giornate che stiamo vivendo? Che cosa manca all’intensità di passione e morte che stiamo attraversando ogni momento che solo il culto, da assicurare in ogni caso, possa garantire e rendere efficace?

Dire “culto” non è lo stesso di dire “liturgia”. Di che cosa abbiamo bisogno? Di entrambi, certo. Ma siccome al momento entrambi non possono essere assicurati, non possiamo scegliere il primo per sacrificare la seconda.

Come dunque celebrare la Grande Settimana e la Pasqua con liturgie obbligatoriamente personali, addirittura vissute nelle case anche da soli, da sole, oppure nell’ambito, comunque ristretto, della propria famiglia?

Credo possa tornare ad orientarci, più che la norma, la realtà amore e pianto del rabbi di Nazaret con le sue amiche ed il suo amico.

Credo cioè che dovrebbe essere mantenuta una certa difficoltà a tradurre subito in atti e gesti liturgici, immediatamente concreti ed in qualche modo nuovamente codificabili, il nostro desiderio, impotente ora, di celebrare, per far vivificare piuttosto tale impossibilità come occasione di grazia. Una sorta di “epoché” liturgica ed ecclesiale. Una “sospensione”, una interruzione, che salva. La grazia che sta nell’avvertire cioè lo scarto tra la dimensione comunitaria – unica possibile dimensione celebrativa in effetti – e lo sbigottimento di non poter tuttavia affatto celebrare con “gli altri” ma di doverlo fare, al momento, solo con “noi stessi”.

Il Dio che ama e piange, nel corpo di “un ebreo marginale” chiamato Gesù, celebra una umanissima liturgia, non compie riti e però neppure dimentica l’importanza vitale di ciò che è considerato spesso inutile e che, tuttavia, se ci manca, ci conduce a sicura morte interiore, come appunto l’amore, lo struggimento per chi amiamo, il desiderio di stare con chi amiamo.

Forse, o senza forse, in questi giorni è Dio che celebra al posto di ogni altro celebrante, secondo quel principio di “supplenza” (supplet Ecclesia) che pure insegna da sempre la grande tradizione della Chiesa, vedendo proprio nella comunità credente – non necessariamente celebrante – il luogo in cui si incontrano desiderio di Dio e desiderio di chi ama e non può “fare” adesso questo amore.

A fronte di tale strazio che colpisce l’intera Comunità ecclesiale la constatazione per cui, proprio in giornate terribili di furioso diffondersi dell’epidemia, si sia trovato modo e tempo, da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede, di pubblicare gli interventi normativi di riforma del Messale del 1962 utilizzato  nel “vetus ordo” (http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20200222_decreto-cum-sanctissima_la.pdf; http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20200222_decreto-quo-magis_la.html) lascia aperti interrogativi ecclesiologici profondi, che hanno trovato formulazione in una lettera aperta (https://www.cittadellaeditrice.com/munera/open-letter-on-the-state-of-liturgical-exception-english-version/) cui anche il direttore di questo giornale ha sentito di dover in coscienza dare la propria sottoscrizione, in nome di quella parresía sempre raccomandata e che non può restare solo parola ad effetto. Un segno di appassionata partecipazione ad un vero e proprio Calvario di Chiesa; probabilmente la crisi più acuta dal Concilio Vaticano II in poi, una sofferenza oggettiva e non autoindotta a motivo di vicissitudini istituzionali o dissensi interni, bensì causata dalla pandemia in atto di covid-19. Ciò che dovrebbe indurre a scrutare con particolare attenzione i segni dei tempi – come nella struggente Benedizione Eucaristica “Urbi et Orbi” di Francesco venerdì scorso davanti alla Piazza San Pietro completamente vuota – piuttosto che dedicare energie ad un passato celebrativo, liturgico, disconnesso dal tragico presente della vita liturgica della Chiesa universale, scossa, tale vita liturgica, essenziale alla vita stessa della Chiesa, alle sue fondamenta.

Ci salvano l’amore ed il pianto di Gesù di Nazaret, non ci salvano i riti se non trasmettono, traducono e celebrano tale amore e tale pianto.

La tomba viene svuotata dall’amore di un amico per le sue due amiche, da quel pianto a tre che è finestra affacciata sul nostro oggi.

Perché l’oggi della Chiesa è sempre la Pasqua.

 

Stefano Sodaro