Articoli 2024

MdI in Bangladesh

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Dalla sofferenza può nascere l'amore

Mondo e Missione - 14 giugno 2024                     

Una giovane donna maltrattata e sfruttata dalla suocera trova il coraggio di reagire e di sostenere la cognata di 14 anni, vittima anch’essa di soprusi e cattiverie   

Nella mia quotidianità non c’è solo la cura dei pazienti, ma anche l’ascolto delle donne e delle loro condizioni di vita molto difficili e dolorose. Lo scorso anno abbiamo avuto un episodio che mi aveva reso felice, ma che con il passare del tempo si è trasformato in motivo di sofferenza. Una mia paziente malata di tubercolosi era stata ricoverata a lungo qui in ospedale con la figlia Rotna, una bella ragazza di 18 anni, molto simpatica, vivace e creativa. Mentre stava qui, si è innamorata di un ragazzo che lavora da noi. «Che meraviglia!», ho pensato: in un Paese dove i matrimoni sono ancora combinati dalla famiglia, mi sembrava una cosa molto bella. I due si sono piano piano avvicinati al matrimonio, ma i genitori del ragazzo hanno scoperto che lei era già stata sposata a 14 anni e che il marito se n’era andato dopo una settimana. Questo poneva un grosso problema, ma poi avevano accettato la situazione perché i due ragazzi si volevano davvero bene.

Così si sono sposati, ma dopo il matrimonio la vita per Rotna è diventata un inferno: è stata infatti rinchiusa in casa a lavorare e a servire i suoceri, che però non le davano nemmeno abbastanza da mangiare. Le ho proposto di fare un corso di taglio e cucito, ma dopo aver accettato con entusiasmo, al momento dell’iscrizione è venuta a dirmi che la suocera non le dava il permesso. 

Ho chiamato il marito per dirgli di supportare la moglie e di chiedere alla madre di smetterla di trattarla male e di sfruttarla. Ma anche per lui era impossibile.

Non ho visto Rotna per qualche mese e quando è tornata mi ha detto che stava meglio, anche se il cibo che le davano era sempre poco. Mi ha spiegato anche il perché e questo mi ha fatto rabbrividire. Il fratello minore di suo marito, infatti, si era sposato con una ragazza di 14 anni e tutta la cattiveria della suocera si era riversata su di lei. Rotna mi ha detto che tutte le lacrime versate nei primi mesi di matrimonio ora le stava piangendo sua cognata e lei cercava in qualche modo di esserle di sostegno.     

Ho provato una grande rabbia nei confronti di quella suocera, che non aveva appreso nulla dalla sofferenza che lei stessa aveva patito e che ora riversava sulle giovani nuore. Rotna, invece, aveva fatto del dolore vissuto sulla sua carne e nell’anima un motivo per aiutare la giovanissima cognata.

Qualche tempo dopo l’ho rivista serena, sorridente e innamorata del marito: aveva un bellissimo completo disegnato e cucito da lei stessa. Le ho riproposto il corso di cucito, ma la cosa che più mi ha commosso è stata la sua reazione quando le ho dato due pacchetti di biscotti, uno per lei e uno per la cognata. Mi ha detto che ne sarebbe bastato uno solo e che lo avrebbe comunque condiviso con lei. Ecco cosa può nascere dalla sofferenza: non solo altra sofferenza, ma anche amore e condivisione.

Greenland: la bidonville molto poco verde 

Mondo e Missione - 22 aprile 2024                     

Si chiama “Terra verde”, ma di alberi non c’è neppure l’ombra. In quello che è il più grande slum di Khulna, in Bangladesh, c’è però un ambulatorio dove suor Roberta Pignone, missionaria dell’Immacolata e medico, prova a curare le malattie e a combattere contro il degrado  

Greenland è uno dei più grandi slum di Khulna con circa 20 mila persone, non molto distante dal nostro ospedale. Sin dalla prima visita, mi è entrato subito nel cuore: ci abitano molti nostri pazienti, curati sia per lebbra che per tubercolosi. Il mio sogno di aprirvi un ambulatorio è iniziato nel 2018 perché la gente non ha la possibilità di rivolgersi a noi facilmente.

Ancora oggi, ogni volta che ci vado è un colpo al cuore: penso sempre che, in fondo, io ci passo solo poche ore, ma la gente lì ci vive tutta la vita. Le abitazioni hanno il tetto in lamiera e nessuna finestra, con il caldo estivo diventa insopportabile stare dentro, mentre nella stagione delle piogge la fogna, che è sempre a cielo aperto, inonda le strade e di conseguenza le case. La vita familiare non conosce alcuna intimità. Tutti sanno tutto di tutti. E se la sister – la suora – viene in visita, allora tutti si mobilitano portando i bicchieri o le tazzine belle per l’ospite.

Tornata in Bangladesh dopo il Covid, ho chiesto a un nostro ragazzo di cercare un luogo idoneo dove fare un ambulatorio una volta la settimana e dove anche lui potesse accogliere i pazienti negli altri giorni. Abbiamo trovato una scuoletta, una piccola costruzione in lamiera, senza finestre, buia e cupa, ma che ci permette di ricevere i malati. Dopo qualche tempo, l’edificio è stato chiuso per lavori e per più di un anno sono stata ospite nella casa di una mia paziente, dove nulla era mai pulito e in ordine, ma dove ho potuto vedere da vicino come vive la gente. Tante cose che per noi sono scontate, lì non ci sono. I bagni, ad esempio, sono pubblici e non sempre vicini a casa, e dunque di notte ogni famiglia si arrangia come può.

Andare lì è sempre un’esperienza forte. I pazienti non mancano. Komla viene puntualmente ogni settimana a prendere la sua terapia e anche lei ci ha offerto la sua casa per qualche mese quando la scuola era inagibile. Mariam, la sua nipotina, insieme ad altre due amichette vengono invece a prendere le caramelle e si siedono lì con me mentre faccio le visite; non è certo tranquillo, ma le bimbe portano gioia.

C’è un’altra donna “affezionata”, si chiama Mina Begum, ed è una malata psichiatrica diventata ormai mia amica: ogni settimana viene per qualcosa di diverso, anche se credo che nemmeno li prenda i miei farmaci che di solito sono vitamine e che ne abbia una scorta non indifferente nascosta da qualche parte.

Così stiamo portando avanti questa nuova avventura seguendo il desiderio del cuore di avvicinarmi a questa gente, che curiamo come possiamo, anche se non riusciamo a incidere sulle loro condizioni di vita. Per questo ci vorrà ancora molto tempo, anche per cambiare la mentalità. Ci vorranno tante mattine in ambulatorio, con le cucciole che saltano su e giù dal tavolo, ma sono sicura che prima o poi qualcosa migliorerà.

Camminare insieme vicini e lontani 

di sr. Roberta Pignone*

 

Mondo e Missione - Khulna - aprile 2024    

  

Gli ultimi mesi sono stati ricchi di visite di amici e colleghi:   «Che bello poter condividere quello che facciamo per i nostri malati, e anche le nostre vite, senza paura di farci trovare piccoli»

I giorni invernali sono davvero speciali. Ci permettono di tirare un po' il fiato sul gran caldo che spesso ci opprime qui in Bangladesh. E poi quest'anno il freddo non è stato troppo pesante. Sono stati giorni contrassegnati anche da visite di tanti amici italiani che approfittano delle ferie invernali per venire a condividere con noi un po' della nostra vita. È bello poter accogliere persone che vengono per la prima volta nella nostra missione e quest'anno, in modo speciale, è stato un dono poter avere con noi amici che ci aiutano a distanza come Franco, Luisella, Tina. E anche padre Daniele Criscione del Pime e Michelle che sono arrivati sin qui dagli Stati Uniti. Ci sono anche medici italiani, che da anni e con fedeltà tornano per dare una mano sia qui da noi, al Damien Hospital, sia nell'ospedale gestito dai missionari saveriani e dalle suore di Maria Bambina. E così io posso permettermi un po' di confronto con colleghi e amici che sempre sono disposti ad aiutarmi. Sono davvero belle le amicizie che si consolidano o che nascono successivamente!

 Sono felice di accogliere ogni persona che desidera entrare nelle nostre case e nel nostro ospedale e condividere con ciascuna di loro il nostro servizio quotidiano ai pazienti. Molto spesso questi nostri ospiti ci servono anche da "specchio": mi fanno ricordare la bellezza del donarsi ai nostri ammalati, ma anche lo stile e l'atteggiamento che forse a volte danno per scontati e che invece possono essere cambiati o rimodellati. 

I loro sono spesso occhi commossi che guardano con stupore quello che facciamo e che noi invece consideriamo così quotidiano e "normale"; occhi che non si stancano di cercare nel profondo; occhi che spesso brillano di lacrime perché vedono cose inaccettabili; occhi che scrutano ogni nostro movimento, atteggiamento, parola... 

Che bello poter condividere quello che facciamo per i nostri pazienti! Che bello poter condividere anche le nostre vite, le nostre relazioni, senza paura di farci trovare piccoli, senza paura di mostrarci poveri come le persone che siamo qui a servire. A volte non sono capace di risolvere i problemi della gente, a volte mi devo fermare di fronte alla mancanza di mezzi di questo Paese che non mi permette di agire come vorrei. E però si va avanti, con i limiti del contesto e anche con i nostri limiti. Dico grazie a questi amici, con i quali ho trascorso giorni belli di condivisione profonda e unica. Abbiamo scoperto insieme i colori del Vangelo in questo Paese, li abbiamo nel cuore e continuiamo a farcene dono prezioso. So che questi amici ci portano poi con loro in Italia e nel mondo, con i loro racconti e la loro testimonianza. Sono amicizie che nascono cosi, perché sono volute dal Padre nostro che non cessa di mostrarci la sua tenerezza e il desiderio di non lasciarci mai soli. Anime e cuori che anche a distanza desiderano camminare ancora insieme. 

* Missionaria dell'Immacolata, direttrice del Damien Hospital di Khulna

Emon: la vita oltre l’Aids

di sr. Roberta Pignone

    

Mondo e Missione - 9 marzo 2024

        

Ha contratto il virus probabilmente alla nascita e sembrava condannato. Ma terapie e accoglienza gli hanno restituito un futuro: «Questa è resurrezione!», dice suor Roberta Pignone, missionaria e medico a Khulna in Bangladesh  

Emon aveva 6 anni quando si è presentato qui da noi al Damien Hospital di Khulna nel 2012 mandato da una ong che si occupa di malati di Aids. Aveva anche la tubercolosi ed era accompagnato dai due nonni materni e dal fratello maggiore, dieci anni più grande di lui e sano. I genitori erano già morti entrambi, la mamma verosimilmente si era ammalata tra le due gravidanze. Emon era uno scricciolo, malaticcio ma per nulla spaventato della sua situazione.

Si è fermato in ospedale con la nonna ed ha terminato la terapia per la tubercolosi per poi continuare quella antiretrovirale al villaggio, un luogo sperduto ai confini con l’India, dove non c’è proprio nulla e loro non avevano neppure un letto, ma dormivano per terra. Così il letto glielo abbiamo regalato noi, una sorta di “premio” per aver terminato la terapia per la Tb ed essere stato proprio un paziente modello.

Sono passati circa quattro mesi ed Emon è tornato con una brutta tosse; gli abbiamo fatto un esame dell’espettorato, ancora positivo, ma questa volta il bacillo era più cattivo del primo, resistente alla normale terapia. Lo abbiamo fatto ricoverare in un ospedale specializzato per questo tipo di cure nel nord del Bangladesh, accompagnato dal fratello e dal nostro capo del personale. Dopo tre giorni hanno chiesto di dimetterlo: le condizioni dell’ospedale erano terribili, con l’acqua del bagno del piano superiore che scendeva dal soffitto della sua camera.

È iniziata così un’altra “avventura” qui da noi, dove è stato ricoverato per più di un anno, sopportando due mesi di iniezioni alle quali non si è mai ribellato come spesso fanno i bambini.

Il nostro ospedale è diventato la loro casa. Una maestra veniva a fare lezioni private ai due fratelli che ormai si muovevano liberamente conoscendo ogni angolo: sapevano dove poter giocare, nascondersi e rubare la frutta dagli alberi quando non c’eravamo!

Si avvicinava la fine della terapia e io mi chiedevo come sarebbero potuti tornare al villaggio con il sistema immunitario così debole; ero sicura che sarebbe morto.

Da tempo sentivo parlare di un volontario italiano, Rudy, che gestiva una casa-famiglia per ragazzi soli o con gravi problemi. L’ho invitato a pranzo una domenica, ha conosciuto Emon e si sono piaciuti subito. Ho rivelato a Rudy che avevo un sogno: quello di dare un futuro a quel bambino, senza precisare che si sarebbe dovuto prendere anche il fratello. Però sono riuscita a convincerlo e dal febbraio 2014 i due ragazzi hanno cominciato a vivere nella casa-famiglia. Sono passati dieci anni e sono cresciuti: Emon ora ha 18 anni, continua la sua terapia antiretrovirale ed ha iniziato da poco il College. Da qualche mese portiamo nel cuore una gioia grande, la sua carica virale si è annullata, quindi potrà sposarsi e avere una famiglia normale. Ora si pensa al futuro in modo diverso. Questo è aiutare a tornare alla vita, questa è resurrezione!

Saimon, la vita oltre la tubercolosi 

di sr. Roberta Pignone


Mondo e Missione - 20 febbraio 2024


Saimon è una giovane mamma che è rimasta incinta durante la terapia antitubercolare e ha deciso di tenere il figlio. Ma la malattia resta endemica in un Paese estremamente povero 

Saimon è una mia paziente di 26 anni che si sta curando per la quinta volta per la tubercolosi. Ora il bacillo ha colpito un osso della gamba e si è esteso poi a un linfonodo. La terapia è lunga e impegnativa. Ma la vita riserva sempre sorprese: e nel suo essere bella e feconda dà sempre segni di positività. Saimon, infatti, è rimasta incinta proprio nel tempo della terapia e ha deciso di tenere il bambino, nonostante qui tutti i medici dicano di abortire quando le donne hanno una gravidanza durante le cure. Sei mesi fa è nato un bellissimo bambino, il suo terzo figlio, l’unico proprio ben messo e paffuto. A sei mesi porta i vestiti che usava suo fratello quando aveva un anno!

La tubercolosi – come pure la lebbra – sono sempre state considerate le malattie della povertà e della malnutrizione. Il sistema immunitario delle persone, infatti, non è in grado di rispondere all’infezione da bacillo e non produce anticorpi in grado di proteggere l’organismo e così si ha lo sviluppo della malattia. Il Bangladesh è ancora considerato endemico per la tubercolosi e si sta valutando la situazione per quanto riguarda la lebbra. Il Paese, infatti, sta riscontrando un aumento dei numeri a dispetto delle aspettative dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). I nuovi casi si aggiungono ai vecchi malati che, anche se ormai guariti dalla malattia, soffrono ancora per le complicazioni ad essa correlate: ulcere e reazioni. Il nostro ospedale, il Damian Hospital, è l’unico che fornisce un sostegno a questi pazienti in tutta la regione sud-occidentale del Paese. E molti arrivano anche da zone piuttosto distanti. Il nostro servizio è un modo per entrare nella vita delle persone e aiutarle a sentirsi amate, offrendo loro una speranza e una nuova aspettativa di vita.

Dal 1986, le missionarie dell’Immacolata sono presenti sul territorio metropolitano di Khulna con un progetto per la lotta alla lebbra e, nel 2001, abbiamo iniziato a occuparci anche di tubercolosi. La città di Khulna è la terza per importanza nel Paese con una popolazione di circa 1 milione e mezzo di abitanti. 

La regione è molto povera e tante famiglie continuano a sopravvivere grazie alle attività legate all’agricoltura e soprattutto alla lavorazione del riso. Molti però sono costretti ad andarsene in cerca di lavoro soprattutto a Dhaka, la capitale, e a Chittagong, principale porto del Paese. C’è chi trova occupazione nelle industrie tessili e per abbigliamento, ma tantissimi lavorano ancora a giornata. La situazione socio-economica della maggioranza della popolazione è tutt’altro che facile: milioni di persone vivono in slum o in contesti sovraffollati, con gravi carenze igieniche e in situazioni di sotto-alimentazione. L’insieme di questi fattori aumenta notevolmente il rischio di contrarre malattie, comprese la tubercolosi e la lebbra, che sono appunto “figlie” di povertà a più livelli.

Contro la lebbra l’unione fa la forza! 

di Roberta Pignone


Mondo e Missione - gennaio 2024


Suor Roberta Pignone, missionaria dell’Immacolata e direttrice del Damien Hospital, ci accompagna nel corso del 2024 con questa rubrica da Khulna, nel Sud del Bangladesh  

Pallabi oggi ha 36 anni e appartiene a una famiglia indù di casta alta. Viveva serena con i genitori, i fratelli e le sorelle, ma all’improvviso il padre si è ammalato ed è morto. In mancanza dell’unica persona con uno stipendio, si sono ritrovati in difficoltà e così la madre e la sorella si sono impegnate in lavori di sartoria e lei ha cominciato a lavorare come domestica.

A quel tempo Pallabi aveva 15 anni e non aveva mai avvertito alcun problema fisico, però i bacilli della lebbra si erano moltiplicati nel suo corpo e il suo sistema immunitario si era indebolito. Sulla sua pelle sono comparsi i primi segni della malattia: numerosi noduli, infiltrazioni cutanee, gonfiore ai lobi delle orecchie, dita ad artiglio e le prime ulcere ai piedi. I nervi periferici erano ormai seriamente compromessi. Inviata al nostro ospedale – il Damien Hospital delle Missionarie dell’Immacolata – le è stata diagnosticata la lebbra. Abbiamo iniziato immediatamente le cure e la fisioterapia per la correzione della disabilità. 

Attraverso il controllo dei contatti, sua madre, la nonna, la sorella, la zia e sua cugina sono state anch’esse identificate come malate di lebbra. A causa dello stigma sociale, le persone della comunità locale le evitavano e si sono così ritrovate ad affrontare un momento particolarmente difficile.

Il personale del nostro Progetto contro la lebbra, oltre a continuare i trattamenti, ha cercato di aiutare Pallabi a rendersi autosufficiente attraverso una formazione professionale. Ora è una sarta esperta ed è riuscita a crearsi una clientela fissa che le permette di mantenere se stessa e la sua famiglia. Pallabi si è anche sposata tre anni fa ed è felice con la sua bellissima figlia e suo marito che ha accettato la malattia. Un caso rarissimo! Attualmente non ha bisogno di trattamenti, deve solo prendersi cura del suo corpo, evitando la formazione di calli ai piedi e alle mani, che sono privi di sensibilità, e che a lungo termine provocano la formazione di ulcere. Pallabi dice che non dimenticherà mai l’amore di tutto lo staff del nostro ospedale. E oggi, come volontaria, aiuta a sensibilizzare le persone sui segni e i sintomi della lebbra, perché sia diagnosticata tempestivamente.

Pallabi prega il suo Dio per tutti i malati e per le persone che si prendono cura di loro. Si unisce così al nostro desiderio di realizzare quanto deciso dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) in collaborazione con il governo del Bangladesh: «Niente più discriminazione, niente più stigma. Eliminazione della lebbra entro il 2030». Questo è stato il tema del Congresso nazionale sulla lebbra tenutosi a Dhaka lo scorso novembre e questo è lo spirito con cui celebriamo la Giornata mondiale contro la lebbra del 28 gennaio. Qui in Bangladesh, come ovunque, l’unione fa la forza! E questa lotta noi la vogliamo vincere!


Balsamo per molte ferite 

di Anna Pozzi


Mondo e Missione - gennaio 2024


Medico e missionaria, suor Roberta Pignone dirige il Damien Hospital di Khulna, dove lotta contro la lebbra e la tubercolosi, ma anche contro stigma e pregiudizi. Nel corso di questo 2024 ci accompagnerà con la nuova rubrica “La Cura”


«Guardo i miei pazienti e mi faccio tante domande sulla loro situazione di vita e su cosa potremmo fare di più. A volte bisogna solo stare ad aspettare che arrivi il tempo della guarigione. Che fatica accettare tutto questo! Sembra di non essere all’altezza della situazione, di non essere capaci di fare bene. Ma in fondo quello che conta è che loro si sentano amati. Anche questo aiuta a guarire. Essere balsamo per le loro ferite è quello che chiedo ogni giorno al Signore. Olio che lenisce e fa stare meglio. Sempre pronta, con il desiderio di lavare i piedi a questi amici ospiti, proprio come ha fatto il Maestro ai suoi».


Così scrive suor Roberta Pignone, missionaria dell’Immacolata e medico, che dal 2012 è direttrice del Damien Hospital di Khulna, una città di circa 2 milioni di abitanti nel delta del Gange, una regione molto povera, ma soprattutto molto segnata da contraddizioni, diseguaglianze, ingiustizie e sofferenze. Il Damien Hospital è l’unica struttura specializzata, in tutto il Sud del Bangladesh, nella cura di malati di tubercolosi, lebbra e di persone co-infette da Tbc e Hiv/Aids. Ed è qui che questa dinamica missionaria – nata a Monza 52 anni fa e diventata religiosa nel 2006, dopo la laurea in Medicina – si è rimessa totalmente in gioco, a livello personale e professionale, aggrappandosi alla sua fede – in un Paese quasi esclusivamente musulmano dove il dialogo si fa solo con la vita – e mettendo in campo le sue competenze, per lottare contro la tubercolosi che toglie il fiato e la lebbra che consuma le membra. Due malattie fortemente stigmatizzanti, soprattutto la lebbra, che si mangia i corpi e deturpa i visi, che distrugge le relazioni e si accanisce come la peggiore delle maledizioni. Dichiarata debellata nel 1998 dall’Organizzazione mondiale della sanità, la lebbra è presente ancora oggi nel vissuto quotidiano di suor Roberta e di tante altre persone che in varie parti del mondo continuano a trovare e curare sempre nuovi casi. È la «malattia dei poveri, della malnutrizione e della sporcizia», dice suor Roberta, così come la tubercolosi, che trova terreno fertile anche nel pregiudizio e nell’incuria.


“Incuria” che è proprio il contrario di quello che suor Roberta offre: ovvero “cura”. Fatta sì di medicine e ricerca scientifica, di esperienza e professionalità, ma anche di affetto, amore, compassione, dedizione. Anche di arrabbiature e fatiche, di senso di impotenza o scoraggiamento. Perché quando ci si prende cura non si può rimanere indifferenti o “neutrali”, neppure di fronte alle tante ingiustizie e paradossi che spesso sono più gravi – e quasi sempre sono all’origine – della malattia stessa. «I care» diceva don Lorenzo Milani: mi prendo cura perché mi interessa, perché mi sta a cuore. Perché io sono l’altro, anche in un Paese come il Bangladesh, nonostante le differenze linguistiche, culturali, religiose, di genere… Nonostante le incomprensioni e, a volte, i fallimenti.

  

Succede, e non può che essere così, specialmente quando ci si prende cura di tante donne che non sono solo malate, ma sole, abbandonate, maltrattate, non considerate. Come Modina, ventidue anni, due figli e un marito malato psichiatrico che la picchia; o Sumi, che è viva solo perché il figlio di sette anni è riuscito a fermare la violenza del padre che la stava massacrando; o Litaz, vent’anni, una bambina piccolissima e un marito che in quattro mesi di ricovero non s’è mai visto… In ospedale ricevono cure e amore e forse è proprio quest’ultimo che, a volte, fa ancora più bene, che rende – almeno nel tempo della lunga degenza per seguire la terapia antitubercolare – la vita un poco più bella. «Nessuno ha mai amato i miei figli come stai facendo tu!», le ha detto Saimon, prima di essere dimessa.

 

Poi ci sono loro, quelli che suor Roberta chiama i “cuccioli”! Ne parla spesso la missionaria, negli incontri, nei messaggi e anche nelle tante lettere che invia ad amici e sostenitori e che ha appena raccolto in un libro: “Balsamo per molte ferite”. Sono i suoi piccoli pazienti o, più spesso, i figli delle sue pazienti che magari passano lunghi mesi in ospedale con le mamme, portando un soffio di vita e ricevendo in cambio un affetto che a casa probabilmente non avrebbero mai avuto. «Sister den!», la chiamano: «Suora dammi!». I bambini le chiedono di tutto e sempre di più. Lei si arrende facilmente. «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date», le ricorda il Vangelo. «Quanto ho ricevuto io! – esclama -. Quanto ricevo e non posso tenere nulla: devo dare in amore, in coccole, in tenerezza!». È la condivisione del dono, che diventa ancora più bella e materna quando avviene con i più piccoli. E quando l’ospedale diventa anche un po’ “casa” e dunque suor Roberta non è più solo medico, ma sorella e madre, che accudisce ma anche “genera”. Desiderare, mettere al mondo, prendersi cura e, infine, lasciar andare. Ma anche educare, partecipare, innovare, costruire una società più libera, più giusta, più vera, più amorevole. Sono i verbi della generatività. Che, però, costa sempre fatica.

         

«Ma ne vale davvero la pena?», si chiede ogni tanto suor Roberta, che ammette talvolta di essere «stanca, stanca, stanca, ma… contenta!». Tanto lavoro, tante responsabilità. La sensazione di non fare mai abbastanza o di poter fare meglio. Ma non solo: le tante questioni anche esistenziali che l’essere donna straniera e cristiana pongono in un contesto musulmano e maschilista come quello del Bangladesh; il bisogno di dare una testimonianza cristiana autentica senza poter parlare esplicitamente di Gesù; il desiderio di diventare davvero amica di quella gente, della “sua” gente di Khulna; l’opzione preferenziale per i più poveri tra i poveri, per i malati che vengono in ospedale, ma anche per quelli visitati a casa, negli slum più abbandonati e degradati; l’attrazione per i villaggi e il sogno di aprire un nuovo centro in una bidonville che si è realizzato nel 2021 e che è stato chiamato “Green Land” (“Terra Verde”), terra di speranza. «Sono stanca, stanca, stanca, ma… ce la farò!».

  

«Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite», ripete spesso suor Roberta, riprendendo le parole di Etty Hillesum, ebrea olandese, morta ad Auschwitz nel 1943. Un balsamo – lo sapeva bene Etty in quella situazione di male assoluto e lo sa perfettamente suor Roberta – è molto più di una medicina, perché lenisce le ferite del corpo e quelle dell’anima, cura non solo i malati ma le persone, sfida il male con la bellezza. In qualsiasi tempo e luogo