Ruhea, all'estremo confine Nord


Il mercato delle stelle

Capitolo 3

Ruhea, all'estremo confine Nord

Sommario

P. Pinos fu a Ruhea dal febbraio 1970 all'agosto 1983

Così nacque una missione

Per la missione di Ruhea il 1980 fu un anno giubilare: infatti i primi due convertiti di questa zona erano stati battezzati 50 anni prima.

Nell'autunno del 1930 due giovanottoni, Mohonto e Mukundo, del villaggio di Fakirganj, si misero in viaggio per Dinajpur, sede del vescovo, per farsi cristiani. La strada era ben delineata: la ferrovia, 88 Km. La ferrovia però non era ancora completata e i due ragazzi si dovettero fare tutti gli 88 Km. a piedi. Speravano di arrivare con due giorni di cammino, ma non ce la fecero e già si erano accomodati su una pianta, per passare la seconda notte all'aperto, quando una musul­mana li adocchiò e andò a dir loro di allontanarsi perché non aveva piacere che degli sconosciuti si appostassero nelle vicinanze della sua casa.

Quando però essi parlarono, la donna notò quanto erano stanchi, ne ebbe pena e li ospitò a casa sua.

A Dinajpur, quel gran vecchio di Padre Macchi pareva che fosse in attesa del loro arrivo; li rifocillò, li fece riposare e li trattenne una decina di giorni per istruirli. Dopo di che il 2 novembre li battezzò, dando loro nomi di grande auspicio, Pietro e Paolo.

Come mai questa decisione di percorrere 88 Km. per farsi cristiani? La vicenda ebbe origini molto umane. I due ragazzi erano istruiti, ma appartenevano alla casta bassa degli Hazara ed un giorno si trovarono coinvolti in un piccolo incidente di casta. Assieme ad altri giovani del villaggio avevano preso parte ad una sagra induista, che annualmente si faceva in onore di una certa divinità. Questa, per l'occasione, veniva sistemata in un tempietto provvisorio, nel mezzo di un prato. Sembra che, danzando e picchiando i loro tamburi, i giovanotti si fossero avvicinati un po' troppo al recinto sacro, tanto che il bramino li sgridò, dicendo di non andare a dissacrare il luogo sacro con la loro vicinan­za". Quelle parole ferirono Mohonto, il quale cedette il suo tamburo ad uno dei suoi amici e andò a sedersi in disparte, da solo. Ma, anche lì, non gli sfuggì un'altra scenetta: il bramino, fatto il bagno sacro ed indossata una pezza di bucato, avanzava, calzando zoccoli di legno, verso il recinto sacro per la funzione. Senonché, nell'inchinarsi davanti a lui, un devoto lo toccò inavvertitamente al braccio. Il malcapitato fu irosamente redarguito, dopo di che quel benedetto bramino tornò al pozzo, tirò su due altri secchi d'acqua, se li buttò addosso per purificarsi di nuovo e così, stralunato e grondante d'acqua, tornò alla sua funzione. Mohonto non volle vederne di più; si alzò e se ne tornò a casa, giurando a se stesso che non avrebbe avuto più niente a che fare con una religione, che, per quanto tu la pratichi, impuro sei e impuro resti.

E' comprensibile che, quando Padre Macchi parlò del battesimo come di un lavacro che purifica, Mohonto e Mukundo decidessero di non tornare a casa senza averlo ricevuto. Il sant'uomo alla fine li dovette accontentare.

Sono passati 50 anni da quel giorno: tutt'e due si formarono una famiglia; Mukundo morì anni fa, Mohonto è ancora vivo e durante tutto questo tempo, qui a Ruhea, egli fu sempre di scena. Tutti i padri di Ruhea lo ebbero precursore o instancabile compagno di viaggio in tutte le loro escursioni apostoliche. Se nella missione di Ruhea e in quella di Thakurgaon (staccata da Ruhea alcuni anni fa) ci sono oggi 6000 cristiani, non c'è che dire, Dio ha benedetto e valorizzato l'azione degli uomini.

Papà, sai pregare?

Ci sarà chi desidera conoscere quali astuzie apostoliche noi usiamo per accalappiare i convertiti. Ebbene, vi garantisco che non si usano astuzie, né strategie, né si accalappia nessuno: abbiamo bene in mente che "Nessuno viene a me se il Padre non lo attira!" Noi (cioè i missionari e i catechisti) stiamo semplicemente sul chi va là per scoprire coloro che "sono attirati dal Padre".

Qualche volta ecco cosa può accadere.

Nel gennaio del 1931, Padre Macchi arrivava al villaggio di Fakirganj per la sua prima visita: era il paese di Paolo Mukundo e di Pietro Mohonto, i primi due convertiti di Hazara, battezzati due mesi prima dallo stesso Padre. Il suo arrivo creò un momento di imbarazzo; nessuno desiderava ospitare il prete, meno di tutti il capo del villaggio, che non era altro che il nonno di Mohonto. Padre Macchi alla fine fu felice di potersi sistemare in una capanna cadente e abbandonata, ai bordi del villaggio; essa era ridotta al solo tetto ed era aperta ai quattro venti, perché le mancavano tutte le pareti. La situazione era scorag­giante, però Padre Macchi, figura paterna dalla gran barba bianca, occhio mite e parlata bengalese perfetta, vi si accomodò con gratitudine (nella sua vita missionaria gli era capitato anche di peggio) ed incomin­ciò a dire il suo breviario, osservato in tutte le sue minime mosse da uno stuolo di bambini. Finita la preghiera e deposto il libro, egli si rivolse a quell'amorfo pubblico infantile e chiese: "Sapete pregare?" I bambini risero per quella domanda e dissero: "No!" "Volete che vi insegni?" "Sì". Vi posso garantire che i bambini di Fakirganj, quelli del giorno d'oggi, sono intelligenti e bravissimi: quelli del 1931 non potevano essere da meno, perché alla fine di quella sessione esse ti sapevano a memoria il Padre Nostro e l'Ave Maria e l'avevano imparate accompa­gnate da una melodiosa cantilena bengalese.

Venuta la sera, seduti vicino al fuoco, in attesa che la cena fosse pronta, qualcuno di quei ragazzi chiese: "Papà, sai pregare?" "No, perché tu sai farlo?" "Sì. Me l'ha insegnato il vecchio forestiero laggiù" "Oh, bella! Sentiamo cosa ti ha insegnato!" Le parole di quelle preghiere e quelle melodie furono ascoltate in molte case e non poterono non colpire.

Durante quella prima notte a Fakirganj successe anche un'altra cosa: un improvviso temporale scoperchiò molte casupole e tutti si immaginavano che il forestiero nella sua capannuccia senza pareti dovesse essere fradicio e a mal partito; tanto peggio per lui! Invece, quando, passata la furia, qualcuno si mosse fuori di casa per dare un'occhiata alla situazione, fu sorpreso nel trovare che il forestiero dormiva placi­damente all'asciutto: anche la sua lanterna non era stata spenta dal vento.

Il giorno seguente, Padre Macchi notò che, dietro ai bambini, stava rannicchiato su un piccolo sgabello, un vecchietto magro e striminzito: sembrava insignificante ed invece era lui l'autorità del villaggio, quello che viveva nell'unica capanna coperta di lamiera, il nonno di Mohonto. Il vecchio voleva apparire indifferente, ma non Io era, perché se qualche ragazzino disturbava, e gli lo fulminava con un'occhiataccia. Nel suo dire il missionario si indirizzava ai bambini, ma era il vecchio la persona alla quale egli intendeva parlare e ci riuscì. Prima di sera, Padre Macchi veniva invitato a trasferirsi nella casa di lamiera, ospite del capovillaggio.

Venti giorni dopo egli lasciava Fakirganj, dopo aver battezzato una quindicina di giovanotti e ragazzi. Non passò molto e tutto il villaggio (esso è ancor oggi il più grosso della missione di Ruhea) "fu attirato a Gesù dal Padre" e si convertì.

Nirashidanga, "Lo spiazzo del disperato"

Il Venerdì Santo abbiamo inaugurato una nuova bella chiesa in una località chiamata Nirashidanga (letteralmente "spiazzo del disperato"). Il posto si trova a 7 Km. da questa missione di Ruhea e la nuova chiesa servirà Fakirganj ed altri villaggi della zona, per un totale di 400 fedeli. Portammo in processione dalla chiesa di Ruhea, per insediarlo nella nuova chiesa, un bel Crocifisso di grandezza quasi naturale. Nel percorso, ad ogni 500 metri, ci attendeva un gruppo di fedeli per fare una stazione della Via Crucis e così si proseguiva (Alla viva luce del sole, come apparivano sbiaditi e sdruciti i vestiti da festa dei nostri cristiani! Però il Cristo che viaggiava con noi poteva dirci "Non temere piccolo gregge...!").

Tutto il tragitto fu accompagnato dal rombo rituale dei tamburi. Uno stuolo di ragazze procedeva portando sul capo anfore ricolme di fiori (simbolo qui dei doni e degli auguri per la persona onorata). Però era ancora il Cristo che attirava l'attenzione dei passanti non cristiani. All'altezza del Cristo, di qua e di là della processione, camminavano con noi due gruppi di non cristiani, suggestionati da quella figura umana, immensamente sofferente e con le braccia aperte. Con l'arrivo di Gesù la Speranza è arrivata su questo spiazzo, la cui chiesa è dedicata a Gesù Sacerdote e Martire. Questa bella costruzione resterà a perpetuo ricordo della presenza e del lavoro in questa missione di Padre Antonio Mapelli, il quale ha sudato sette camicie per trovare i fondi e altre settanta per costruirla.

Da Napoli con amore

L'anno scorso venne in visita quaggiù don Pasquale, un prete di Napoli. Accompagnato da due dei nostri Padri in jeep, egli capitò qui a Ruhea. Non trovò a casa nessuno: io mi trovavo a 40 Km. di distanza, nel piccolo centro di Putimari, per il raduno mensile dei catechisti di quella zona e Padre Alvigni era pure uscito in visita ai villaggi e non sarebbe tornato che nel tardo pomeriggio. Successe poi che nel tardo pomerig­gio arrivasse soltanto il catechista che accompagnava il Padre; il Padre aveva forato e sarebbe tornato molto più tardi. I visitatori rimproverarono il pover' uomo di non aver pensato di cedere al Padre la propria bicicletta e di venir lui a piedi (essi evidentemente non conoscevano bene il Padre Alvigini). Il catechista, tutto confuso, rispose: "Ho tentato di fare come dite voi, ma il Padre non volle sentir ragione. Disse che io non ero meno stanco di lui!".

Padre Alvigini, che meno di un anno prima aveva avuto un infarto, arrivò a notte fatta, stravolto dalla stanchezza; si sentì rivivere nel vedere i visitatori e offrì loro per cena... quello che c'era! Il giorno dopo, invece di aspettare il mio ritorno, i visitatori vollero venire a trovarmi nella piccola missione di Putimari, pittoresca nel bel mezzo di un boschetto di mango. Arrivati, dissero che avevano solo due ore di tempo, per cui ci affrettammo ad offrire loro il minimo offribile, una tazza di tè. Per l'occasione mettemmo sulla tavola le stoviglie in dotazione della missioncina e cioè l'unico bicchiere e due vecchie chicchere di plastica, sbiadite e sbrecciate. Il tè fu addolcito con zucchero fatto in casa ed aveva un gusto infame; non avevamo né una fettina di limone, né un biscotto; dove trovare cose del genere, da un momento all'altro, in quella zona? Il più furbo dei visitatori disse subito: "lo non prendo niente". Il prete di Napoli, invece, fu buono, si prese in mano la sua chicchera e bevette; io ero tutto confuso nell'immaginare la ripugnanza che deve aver provato nel mandar giù quel tè e gli auguravo di arrivare presto in luoghi più civili e più vivibili del nostro.

Fu proprio così: partito dal Bangladesh, l'amico napoletano visitò la Thailandia, Hong Kong ed il Giappone, tutti luoghi bellissimi e progrediti. Poteva dimenticarsi del Bangladesh e di Ruhea in santa pace!

Ma questo non avvenne. Era appena tornato a Napoli che due anziane signorine andarono a trovano con un loro problema; eccolo: avevano appena venduto un loro hotel ed avevano in mano un bel gruzzolo di denaro: quale opera buona si sarebbe potuto fare con quel denaro? In quel momento don Pasquale si ricordò di Ruhea.

In poco tempo la cosa fu fatta: ricevetti da Napoli una lettera, che proponeva l'offerta cospicua delle due sorelle. Accettai ed ecco che la povera missione di Ruhea si vide improvvisamente dotata di cento milioni, uno sopra l'altro! Stiamo già costruendo un piccolo ospedale, un convitto-orfanotrofio e il convento delle suore. Ecco dunque perché ho rimandato la mia vacanza. Questa nuova situazione e le inerenti attività (progetti, spese, compere, muratori, materiali da costruzione, rumori e clamori di ogni genere) mi hanno come stordito e non mi hanno lasciato il tempo di badare al clima estivo del Bengala (mi hanno anche impedito di prepa­rarvi la mia usuale circolare natalizia). Per di più le donatrici continuano a farci sapere che loro sono molto anziane e che hanno fretta: non vorrebbero morire prima che il piccolo complesso sia completato.