Lettera memoriale a Celso Costantini


Lettera memoriale del Beato p. Paolo Manna

a Celso Costantini

Sommario



1929

Nota: Questa lettera, che anticipa di oltre trent’anni il Concilio Vaticano II, è stata tratta dal libro “La Nuova evangelizzazione – Proposte ‘ardite e temerarie’ del Beato Paolo Manna” di p. Ferdinando Germani, edito nel 2013 dall’Editrice San Gerardo.

Eccellenza, invitato a dare un mio parere sulla opportunità o meno di adottare per la Cina la liturgia in lingua volgare, dico subito che mi riesce difficile vedere la questione isolatamente. Una simile innovazione, per me, non si inquadrerebbe che in una riforma molto più radicale e vasta: nella riforma cioè del metodo di evangelizzazione attualmente in vigore, e più specialmente della formazione del clero indigeno. Riformare l'attuale metodo di evangelizzazione, riformare la preparazione del clero indigeno sono frasi piuttosto ardite, le quali richiedono una spiegazione, che mi sforzerò di dare in breve e con grande schiettezza.

Osservazioni preliminari

Premetto qualche osservazione. Le mie note si riferiscono particolarmente all'Asia, di cui ho miglior conoscenza. Noi europei, specialmente se non siamo vissuti in Asia, non siamo sempre i più idonei e perciò i più giusti nel giudicare delle cose di quell'immenso continente. Abbiamo una nostra mentalità, della quale ci è difficile spogliarci. Siamo occidentali e l'occidentalismo in tutte le sue manifestazioni è diventato necessariamente nostra natura. Per giudicare quindi dei metodi di evangelizzazione più adatti per l'Oriente e della formazione del rispettivo clero, al che va legata la questione della liturgia in lingua volgare, bisogna che quelli che se ne devono occupare facciano uno sforzo per spogliarsi della loro qualità di europei, affine di vedere il più rettamente possibile le cose. Occorre inoltre possedére una certa conoscenza della cultura, della storia, della vita e psicologia di quegli immensi popoli. A giudicare da italiani o da francesi si va necessariamente fuori di strada. Inoltre, se non vogliamo arrivare sempre troppo tardi, bisognerà avere il coraggio di affrontare risolutamente certi problemi missionari, la cui soluzione si impone per troppe ragioni che non è qui il caso di esporre. Ho detto che ci vuoi coraggio, perché siamo ancora al punto che fa quasi scandalo, per certe mentalità nostrane, anche solo l'enunciazione di alcune questioni che, se la fede deve progredire, meritano essere rivedute; mentre vi sono altri che, pur vedendo ed ammettendo la ragionevolezza di certe riforme, temono di affrontarle per non scostarsi dalla tradizione e per non disturbare posizioni acquisite, ma che l'esperienza ha ormai mostrato dannose alla più spedita propaganda del Vangelo.


Necessità di spogliare il cristianesimo dalle forme occidentali

Le odierne missioni si presentano ai non cristiani di Oriente soprattutto come organizzazioni di stranieri: la loro natura religiosa non risulta sempre di prima e diretta evidenza. In generale i non cristiani non vedono subito Gesù Cristo nella propaganda delle missioni; vedono la scuola, l'ospedale, vedono le altre grandi e belle opere; nei missionari vedono degli stranieri colti, ricchi ed influenti; nei convertiti degli uomini soggetti a questi stranieri per i benefici che ne hanno o che sperano averne. Se vedono una religione, è la religione degli europei e degli stranieri.

Dov'è il difetto? Nell'occidentalismo di cui religione e missionari sono rivestiti. Quale il rimedio? Spogliare per quanto è possibile la religione cristiana dalle sue forme occidentali non necessarie e rivestirla in ogni paese di forme indigene: accelerare perciò la formazione del clero indigeno e passare gradatamente a questo la cura dell'evangelizzazione, per cui scomparisca da essa ogni ingerenza straniera che non sia quella del Sommo Pontefice il quale, essendo il Padre di tutti, non è straniero in nessun paese. Questo spogliare il cattolicesimo dalle sue forme occidentali può suonare equivoco ed arrischiato ed occorre spiegare. Mettiamoci per un istante a considerare la nostra religione dal punto di vista di un non cristiano intelligente. A costui il cristianesimo deve sembrare la "religione europea", in quanto esso, come si è assimilato, così appare rivestito di molti elementi della civiltà europea: diritto, filosofia, arte, ecc.

Tutti sappiamo che il cristianesimo, nato in Asia, si e sviluppato nel mondo greco-romano ed è nella sua forma e veste latina che le missioni lo presentano ai popoli, anche a quelli di antiche e rispettabili civiltà. Ora, se vogliamo che il Vangelo si propaghi, bisogna che questa "forma esterna" del cristianesimo, come si è plasmata greco-romana in Europa, così naturalmente divenga cinese in Cina, indiana in India, ecc.

I popoli orientali hanno un antichissimo patrimonio di storia e di civiltà che merita rispetto e che non può essere ignorato e trascurato, o fatto dimenticare dalla propaganda religiosa di pochi missionari forestieri, che lo tengono in poco conto perché non Io conoscono.

Confucio e Budda possono dare alla filosofìa cristiana tanto e più che non le abbiano dato Platone ed Aristotele.

Non si servirebbero meglio gli interessi della fede, presentandola rivestita di quelle forme di vita, di pensiero, di lingua, dì arte proprie dei popoli che vogliamo conquistare? Non sarebbe questo sistema oltre che l'unico logico e naturale, anche il più giusto e il più accetto alle popolazioni?

Portiamo con noi la fede e la morale cristiana, il resto lo troveremo sul luogo. Le verità cristiane nella loro essenza, sono assolutamente universali, e, come tali, non dovrebbero essere presentate a nessun popolo così da parere ad essi esotiche ed estranee.

In Cina vi sono parecchi milioni di musulmani e quale mirabile adattamento! Chi li distingue dagli altri cinesi? Sarebbe interessante studiare in qual modo il Corano abbia potuto introdursi in Cina e farsi cinese così da conquistarsi tanti aderenti. Il Buddismo è nato in India. Si vada a vedere in qual modo è penetrato e si è fatto tutto di casa in Indocina, in Cina, nel Giappone.

Quando nel 1928 fui in Cina lessi nel "The Chinese Recorder" e trascrissi questa pagina di uno scrittore protestante cinese: "La più grande difficoltà che il cristianesimo incontra e continuerà ad incontrare in Cina è l'interpretazione occidentale dei suoi insegnamenti. Cristo era un asiatico e molti dei suoi precetti furono da lui espressi in maniera facile a comprendersi dagli asiatici. Ma i missionari che ci hanno portato il suo messaggio sono venuti dall'Occidente, hanno visto i concetti cristiani attraverso lenti occidentali ed hanno portato con sé forme di culto di tradizione europea.

Questo ostacolo sarà superato quando i cristiani cinesi saranno talmente imbevuti dello spirito del Vangelo da poterlo interpretare da cinesi a cinesi, liberi da pregiudizi e tradizioni europee; in altre parole, quando il cristianesimo sarà diventato indigeno in Cina". ;

E più avanti dice: "Quando la Chiesa sarà diventata intieramente cinese rafforzerà la fede del popolo che allora imparerà a riguardarla come cosa sua propria. Come sono andate le missioni finora, molti si sono naturalmente appoggiati agli aiuti stranieri ed hanno riguardato il cristianesimo come una religione straniera".

Sono osservazioni che non mancano di un gran fondo di verità. Nell'esporre queste idee so di dire cosa contrastata da parecchi vecchi missionari. Ricordo il sarcasmo di cui si regalavano le idee del delegato apostolico in Cina quando propugnava l'opportunità che gli edifici ecclesiastici fossero fatti secondo lo stile del paese.

Si obbiettava che gli orientali più ricchi ed evoluti cercano di adottare le nostre forme più comode di vita nel vestite, nelle abitazioni, ecc. Non vedevano che sotto la questione dell'arte si nascondevano una verità ed uno scopo ben più elevati.

Quella che prospetto non è una semplice questione di forma: è qualche cosa di ben più profondo. Si tratta di spianare la via alla nostra santa religione, affinché, per quanto dipende da noi, entri senza troppi ostacoli e senza sospetto nelle anime delle popolazioni non cristiane e vi divenga cosa tutta loro propria.

Per questo, ripeto, portiamo nelle missioni l'essenziale: la fede romana e la morale evangelica e lasciamo che si sviluppino e si naturalizzino a seconda dei climi e degli ambienti dei vari paesi. Compito della Chiesa, dei missionari sarà vigilare che nulla si introduca che sia veramente contrario all'integrità di questa fede, alla santità dei costumi.

Quando vogliamo trasportare un albero da un luogo all'altro, ci facciamo premura che integri siano le radici, il tronco e i rami principali: delle foglie, dei fiori non ci curiamo, sicuri che l'albero, naturalizzatosi nel nuovo terreno, trarrà da esso gli umori per rinverdire e dare fiori e frutti non privi forse di nuova bellezza.

Del resto gli Apostoli per primi si videro obbligati a mettersi questo problema di adattamento, e, attaccati pure come dovevano essere alla religione nella quale erano nati e cresciuti, lo sciolsero con grande larghezza e generosità. Ma essi avevano una cosa sola in cima ai loro pensieri: come portare Cristo alle anime ed è nota la lotta che sostennero per liberarsi dal giudaismo.

Nei paesi infedeli la Chiesa è da per tutto nei suoi primordi, è bambina.

Dobbiamo temere che troppe fasce non abbiano ad impedirne il naturale sviluppo, e che a tenerla sotto tutela dei missionari esteri per troppo tempo non abbia a crescere rachitica ed incapace di muoversi da sé e progredire.

D'altronde perché complicare le cose? Seguiamo la tattica degli Apostoli. Essi, dice l'Allard, non chiedevano ai loro aderenti altri sacrifici che quello dei loro errori e dei loro vizi. I riti erano semplicissimi, la morale senza singolarità. Gli Apostoli e i primi uomini apostolici potevano così indirizzarsi a tutti gli uomini di ogni nazionalità e razza, e si diveniva cristiani senza cessare di essere greci o romani.

Circa questo adattamento della nostra religione alle varie civiltà, sentiamo quanto diceva recentemente il regnante pontefice nell'enciclica "Summi pontifìcatus". Secondo il santo padre, le ricerche dei missionari di ogni tempo "si sono proposte di agevolare l'interna comprensione e il rispetto delle civiltà più svariate, e di renderne i valori spirituali fecondi per una viva e vitale predicazione del Vangelo di Cristo. Tutto ciò che in tali usi e costumi non è indissolubilmente legato con errori religiosi troverà sempre benevolo esame e, quando riesce possibile, verrà tutelato e promosso ... Tutti quelli che entrano nella Chiesa,'-qualunque sia la loro origine o la favella, devono sapere che hanno uguale diritto di figli nella - casa del Signore, dove domina k legge e la pace di Cristo".

In queste mirabili parole è segnata la soluzione del nostro problema.

Ma accostiamoci un po' di più al sodo della questione.


La formazione del clero indigeno

Come è stato già tante volte affermato, la vera naturale soluzione del problema missionario sta nella costituzione della Chiesa indigena e perciò nella formazione del rispettivo clero, non potendoci essere Chiese senza sacerdoti.

Per questa questione in modo speciale sostengo che non c'è altra via, altra soluzione per ben riuscire che, spogliandoci del nostro occidentalismo, tornare all'antico.

Si è più volte di questi ultimi tempi rimproverato ai missionari come che non abbiano lavorato di lena a formare il clero indigeno, e sta di fatto che tutto l'edificio delle missioni in tanta parte di mondo è edificato e si sostiene quasi totalmente sulle spalle del clero forestiero.

Potrà essere che ragioni politiche abbiano contribuito ad impedire la formazione del clero indigeno in numero e qualità sufficiente, perché col clero straniero si assicurava meglio il dominio delle colonie; e può anche essere che i missionari esteti abbiano creduto le missioni loro feudi in perpetuo e siano stati perciò lenti nella formazione del clero indigeno.

Però questi motivi e la negligenza dei missionari stranieri, se e quando vi fu, non sono ragioni adeguate per spiegare la mancata formazione di questo clero. La ragione vera del grave e doloroso fatto sta soprattutto nella intrinseca difficoltà del compito: difficoltà che non è stata creata dai missionari, ma che i missionari, quando si sono accinti all'impresa, hanno tentato di superare, benché, come si sa, con scarso successo.

Si è preteso che, per sconfiggere il gigante Golia del paganesimo, il clero indigeno rivestisse l'armatura di Saulle. Fa meraviglia che l'abbia trovata pesante? Che gli sia stata, d'inciampo e gli abbia impedito di camminare speditamente e di combattere? Questa è in figura la vera situazione.

Si è preteso e si pretende che l'aspirante indigeno al sacerdozio si europeizzi nella mente e nelle usanze e così diventi prete. Quante volte si sente dire che dobbiamo formare un clero indigeno "per nulla inferiore al nostro" per educazione, elevatezza di cultura, ecc. Ma non si ha cura di osservare che le forme di educazione e di cultura non sono uguali per tutti i paesi e per tutti i bisogni.


Principi e conseguenze

Bisogna partire dal principio fondamentale che il clero indigeno è il clero "naturale" delle missioni: quello su cui propriamente grava l'evangelizzazione dei rispettivi popoli infedeli, dopo che la fede vi è stata introdotta dai missionari esteri. Finora invece quei pochi preti che siamo riusciti a fare li abbiamo ritenuti come nostri umili ausiliari, quasi elementi di second'ordine in rapporto al personale estero e non come i naturali, principali e permanenti evangelizzatori dei paesi che si debbono conquistare a Gesù Cristo. Per questa conquista, ripeto, il cielo indigeno è strumento naturale, principale ed indispensabile, perché è assurdo ed innaturale pensare che i missionari esteri debbano e possano essere in perpetuo i ministri ordinari della fede di tutti i popoli della terra.

Quale nazione soffrirà avere a lungo nell'interno delle proprie terre stranieri, siano pure missionari, che vengono a conoscenza dei loro segreti, delle loro ricchezze naturali, uomini che sono in continua relazione con i loro paesi di origine, dai quali sono sovvenuti ed all'occasione anche protetti?

Da questi principi e fatti viene di conseguenza che la formazione del clero indigeno deve essere la principale preoccupazione di una missione, ed anche che questo clero si possa e debba formare in quella forma e in quel numero per servire adeguatamente all'evangelizzazione.

Ora la questione è questa: come lo formiamo noi oggi, questo clero indigeno, serve bene alla causa? Se ne può formare in numero adeguato al bisogno?

Non sembra che la risposta a queste due domande possa essere decisamente affermativa. Perché il nostro metodo di formazione del clero indigeno estranea i soggetti dal loro naturale ambiente, rende la loro educazione superfluamente difficile e quindi lunga, per cui i preti che produciamo sono poco idonei alla missione che debbono svolgere nelle loro terre e del tutto insufficienti per numero ai bisogni delle anime ed alle opportunità che si offrono alla Chiesa di guadagnarle.

Non lieve errore è quello in cui spesso noi cadiamo di considerare i popoli non cristiani del tutto alla pari dei nostri vecchi popoli, e di voler adattare a quelli, tali e quali, le leggi, i metodi, i pastori che ben si addicono a noi e che sono il prodotto di due mille anni di cristianesimo e di un'altra civiltà. In questo stesso errore cadiamo pure nella formazione del clero indigeno.

Dimostriamolo.

Reclutamento

Mi faccio prima una domanda: è buona tattica per provvedere sacerdoti alle Chiese nascenti delle missioni, in Oriente in modo particolare, scegliere dei ragazzi, chiuderli nei seminari e sottoporli in tutto per tutto ai nostri metodi francesi ed italiani di formazione clericale?

Quando si vuole introdurre una nuova religione, quando si vuole instaurare un nuovo ordine di cose, i riformatori non usano educare dei giovinetti per poi servirsene come collaboratori e propagandisti delle loro idee; ma cercano di conquistarsi una eletta di uomini maturi, intelligenti e disposti a comprendere e sposare la causa.

Nostro Signore ha fatto così nello scegliersi i suoi apostoli; gli apostoli hanno fatto così nell'assegnare preti e vescovi alle prime Chiese. Essi non presero dei ragazzi ma degli adulti, i presbiteri, dei quali era più facile servirsi dopo averne provato soprattutto la fede, la maturità, lo zelo, la cultura e l'autorità che avrebbero potuto esercitare sulle nuove Chiese.

Non occorre ricordare che così hanno fatto pure i fondatori di altre religioni ed i grandi rivoluzionari. È d'oggi l'esperienza del comunismo in Russia, del nazionalsocialismo in,Germania, del fascismo in Italia, dove ai ragazzi si è pensato in un secondo tempo. E quanto videro chiaramente i primi missionari gesuiti in Cina, per cui impetrarono la liturgia in volgare e la ottennero.

Invece il nostro metodo di formare gli apostoli indigeni è, come ho detto, di prendere dei ragazzi, chiuderli in seminario dove devono rimanere lunghi anni per attendere nello studio di una lingua che non è la loro e di studiare poi in questa lingua la religione che dovranno propagare.

Non mi domando quanti arrivano così alla meta, perché si sa che ne arrivano pochissimi; ma vi arrivano almeno ben preparati? '[

Mettiamo per un momento che dal nostro punto di vista vi arrivino in modo perfetto, come di fatto è il caso di parecchi; ma dal punto di vista dèi popoli ai quali vogliamo presentarli? Per questa parte i nostri pretini indigeni mancano assai.

Che cosa sanno questi preti formati all'europea della storia, della letteratura, della sapienza insomma dei loro paesi d'origine? Essi, usciti dai nostri seminari, si trovan d'esser quasi estranei nel loro proprio ambiente: hanno dimenticato d'essere indiani, cinesi, giapponesi, ecc.; ed, educati all'europea, europei non sono del tutto divenuti.

Che autorità, quale ascendente ai fini della propagazione della fede potranno vantare sulle masse tali giovani sacerdoti in paesi dei quali essi non conoscono bene il pensiero e le tradizioni, e nei quali l'autorità e la sapienza sono ritenuti privilegio degli anziani?

Buoni forse questi giovani preti per le vecchie cristianità; ma per presentare Gesù Cristo ai non cristiani? Non hanno l'autorità che accompagna naturalmente il missionario straniero e non hanno quella che loro verrebbe dal possedere ciò che dà prestigio presso la propria razza.

Davanti alla cattedrale di Kaifeng, nell'Honan, mi passò un vecchio fabbriciere cinese, e il vescovo mi disse: "Vede quel vecchio? Se potessi farlo prete, mi convertirebbe più gente che tanti missionari".

Ottimi preti si potrebbero reclutare fra i letterati ed i più zelanti catechisti, i quali avrebbero più maturità di senno, maggior libertà di movimento e ben altra efficacia ..di penetrazione nell'ambiente pagano di tanti pretini educati all'europea e spesso disabituati a vivere la vita dei propri connazionali.

Bisogna infatti tener presente un altro effetto che la nostra educazione occidentale spesso produce su soggetti indigeni: essa ne indebolisce alquanto la fibra e crea necessità di vita che sarà difficile poi mantenere.

I preti indigeni che otteniamo, educandoli con i nostri sistemi, sono uomini spesso fisicamente esauriti, perché certe razze male si adattano alla vita chiusa e sedentaria di un seminario. Si oppone che tanti cinesi, giapponesi, indiani, ecc. studiano pure a lungo e non deperiscono: però è da osservare che la loro vita di studenti è altra da quella dei nostri seminaristi.

Ma oltre le sopra citate razze, ce ne sono altre assai meno resistenti, per le quali divenir preti alla nostra maniera è intellettualmente e fisicamente una fatica superiore alle loro forze.

Celibato

Si cerca di trattarli bene i nostri seminaristi; ma domani, quando, fatti preti, saranno messi in cura d'anime, si sentiranno a disagio e quasi fuori di ambiente, non potendo procurarsi quelle comodità a cui furono abituati nei seminari.

A preti indigeni conviene educazione indigena; indiana per gli indiani, cinese per i cinesi; è un errore farne dei quasi europei. Le esigenze che in loro creiamo potranno essere di impedimento allo svolgimento naturale della loro attività apostolica.

Celibato

Connessa con la questione che abbiamo toccato del reclutamento di soggetti adulti per il sacerdozio, sta quella del celibato. Ove trovare, si dirà, soggetti adulti celibi da fare sacerdoti? Ora su questa questione non insisto affatto. Solo osservo che quello che ci dovrebbe importare, non è tanto il celibato, quanto lo stabilimento del regno di Dio nel mondo e la salvezza delle anime: questo è il supremo compito della Chiesa.

È stato detto che, ove non ci fosse la legge del celibato, la questione del clero indigeno sarebbe risolta per metà. Sarebbe questione anche qui di tornare un poco all'antico, e non volere applicare alla Chiesa da fondare leggi e discipline che alla Chiesa fondata non furono applicate che gradatamente. Se il celibato del clero fosse l'unico ostacolo al ritorno degli orientali e dei protestanti alla Chiesa, si può essere sicuri che la S. Sede non insisterebbe.

Così io penso dovrebbe essere per gli infedeli, sicuro che la grazia di Dio, la vita eucaristica, l'esempio della Chiesa d'Occidente, la introduzione del monachismo, farebbero vedere la bellezza della vita verginale delle persone consacrate al servizio di Dio, ed il celibato fra il clero delle attuali terre infedeli' si introdurrebbe naturalmente col propagarsi e consolidarsi della fede, più presto di quanto non sia avvenuto nei nostri paesi.

Il nostro metodo di formazione dà poco rendimento anche per numero

Naturalmente vi saranno molti a contraddirmi sui punti toccati. Essi potranno mostrare quali eccellenti preti indigeni hanno prodotto i nostri seminari; ed io non contraddico. I fatti sono fatti. Ma questi fatti non dicono altro se non che si è riusciti a produrre un certo numero di preti, ottimi se si vuole, ma dal nostro punto di vista occidentale, non però altrettanto ottimi per lo scopo per cui debbono servire.

Ma questo lo trascuro: non bado e non do eccessivo peso alle lagnanze che non di rado si sentono fare dai superiori di missioni, che cioè questi preti formati all'europea, per le loro esigenze, sono talvolta più d'impaccio che di aiuto; che sanno parlare latino, ma sono deficienti nella conoscenza della propria lingua; che sono laureati in teologia, ma non riescono a predicare il Vangelo agli indigeni con quella naturalezza con cui lo sanno comunicare catechisti bene istruiti.

Tutto questo io trascuro e solo mi domando: i preti indigeni, che le missioni si sono finora sforzate di formare con i metodi vigenti, sono in numero sufficiente per curare le cristianità esistenti e per aiutare i missionari esteri a diffondere la fede fra gli infedeli? Questa è la grande questione perché una cosa è assolutamente certa, ed è che il Signore non può volere cristiani senza sacerdoti.

Se i nostri seminari non ci danno preti in numero sufficiente per il bisogno delle anime, abbiamo bene il diritto di dubitare della bontà dei nostri metodi nel formarli.

Diamo uno sguardo alle missioni. Non badiamo per il momento al numero immenso degli infedeli da convertire; limitiamoci a vedere come sono assistite le cristianità." È cosa da piangere; ma ci siamo così abituati a vedere le cose; che si va avanti come se la situazione fosse affatto normale!

Cominciamo col dire che la cura dei neofiti e dei catecumeni, nella maggior parte delle missioni, è affidata ancora quasi esclusivamente ai missionari stranieri; i pochi preti indigeni, dove ci sono, per lo più fungono da coadiutori. Ogni missionario estero ha ordinariamente la cura di dieci, venti, trenta e più cristianità. Il missionario fa alcuni giri all'anno per il suo distretto, e solo allora i neofiti hanno l'opportunità di ascoltare la S. Messa e di ricevere i sacramenti.

Il missionario ha stentato per apprendere la lingua, per acclimatarsi, quand'ecco che o si ammala, o i superiori lo destinano ad un altro luogo od ufficio: egli parte. Tante volte il vescovo non ha chi mandare subito a sostituirlo. Viene poi un nuovo missionario, che deve cominciare da capo la fatica. Intanto il tempo passa: i neofiti, poco accuditi prima, restano alle volte per lungo tempo abbandonati e senza sacramenti. Intanto la zizzania cresce e la fede non si consolida. Nelle missioni a molte lingue, se viene a mancare un missionario, è quasi sempre una rovina. Parlo di cose vissute.

Quante anime rimangono per anni senza sacramenti, quanti muoiono senza sacramenti! Morire senza l'assistenza del sacerdote è cosa quasi ordinaria per alcune missioni.

Di più, i neofiti delle nostre missioni, meno forse quelli delle residenze ove c'è stabilmente un missionario, rimangono praticamente, per mancanza di clero, senza l'aiuto del culto esterno. A che cosa si riduce la liturgia per la maggior parte delle nostre cristianità? A sentire un po' di messa due o tre volte all'anno su altarini improvvisati, in miserabili capanne che hanno nulla di Chiesa. I neofiti, non avendo preti residenti, non celebrano neppure le grandi solennità cristiane; non potendo conservare il SS. Sacramento, non sentono la necessità di aver Chiese decenti.

E qui mi domando: abbiamo noi il diritto di disporre così delle anime? Dio nella sua divina sapienza e misericordia ha reso i mezzi di salute, i sacramenti, estremamente facili ed accessibili a tutte le anime; quale diritto abbiamo noi, che tali mezzi abbiamo in custodia, di renderne difficile l'applicazione, per aver reso tanto difficile la formazione dei sacerdoti?

Poveri cristiani delle missioni! Vescovi e clero di importazione, grande difficoltà di avere propri sacerdoti, Sacramenti perciò con estrema parsimonia; sempre minorenni, sempre dipendenti dall'estero per divenire e conservarsi cristiani, per cui, tante volte sono tenuti presso i loro connazionali come gente venduta agli stranieri! ! ! Quante volte - giova notarlo - questi sospetti provocarono crudeli persecuzioni in Cina, in Giappone, in Concincina ed altri paesi!!! E tutto per la difficoltà di avere propri sacerdoti in numero sufficiente avendone noi, con i nostri metodi, reso tanto complicata e lunga la formazione!

Quante cristianità, una volta fiorenti, sono perite perché i missionari esteri per morte od altre ragioni le hanno dovute abbandonare! Sarebbe perito il cristianesimo in Giappone se colla fede gli avessimo dato vescovi e sacerdoti indigeni? ;

Non occorre dire quello che è accaduto, accade oggi, e potrà accadere per ragione di guerre e di persecuzioni! Che ..cosa accadrà, dopo la presente guerra, di tante missioni?

Questa situazione tanto innaturale di cose dovrebbe farci aprire gli occhi. Il clero indigeno dovrebbe dunque essere almeno proporzionato al numero e bisogni dei cristiani, e crescere col crescere di questi. S. Paolo, tutti gli altri apostoli, dove passavano e fondavano nuove cristianità, trovavano subito a chi affidarle. Negli Atti leggiamo chiaramente: "Et cum constituissent illis per singulas ecclesias presbiteros, et orassent cum jejunationibus commendarunt eas Domino". Trent'anni dopo la morte di N. Signore, S. Pietro, scrivendo ai fedeli del Ponto, della Galazia, della Cappadocia, dell'Asia e della Bitinia ci fa intendere come dappertutto ci fossero dei pastori di anime e, nel capo V della sua lettera, fa loro mirabili e commoventi esortazioni: "Pascite qui in vobis est gregem Dei...". S. Giacomo esorta i fedeli che cadessero infermi a chiamare i sacerdoti; il che fa supporre che già dappertutto i sacerdoti fossero a disposizione dei credenti.

S. Cipriano ci fa sapere: "Jampridem per omnes provincias et per urbes singulas ordinati sunt episcopi...". Ma tutto questo è ben noto.


Il ritardo dell'evangelizzazione

Non è solo la conveniente assistenza dei neofiti che soffre per lo scarso numero del clero indigeno: v'è un altro enorme danno da segnalare, a cui ordinariamente non si bada: il ritardo cioè della propagazione della fede in mezzo ai non cristiani.

Una delle principali ragioni per cui i protestanti, arrivati talvolta in certi paesi secoli dopo di noi, vi hanno fatto spesso più proseliti dei cattolici, è perché dove noi, sempre per la difficoltà di produrlo, abbiamo potuto disporre di un piccolissimo numero di clero indigeno, i protestanti hanno impiegato larghe schiere dei pastori. Preparando il loro personale all'indigena, hanno guadagnato in tempo, in numero ed in successo.

Se i protestanti avessero dovuto insegnare ai loro pastori per otto o dieci anni il latino prima di introdurli nelle scienze sacre e farli predicatori, non sarebbero arrivati ai successi odierni. Si possono confrontare le statistiche dei cattolici e dei protestanti di molte missioni: non hanno un valore assoluto, ma dicono qualche cosa. Si dovrebbe dire qui della massa immensa dei non cristiani che noi vogliamo convertire praticamente senza preti, ragione per cui non riusciamo; ma andrei troppo per le lunghe. Un alto personaggio al quale feci questa difficoltà, rispose: "Si usino molti catechisti!". Ma quale ministero possono esercitare dei semplici laici?

Bisogna dunque rivedere il nostro sistema di formare il clero indigeno. La cosa si deve rendere più facile, per cui, dovunque sorgono nuove cristianità, là si lascino pure sacerdoti. Così si verrà a stabilire a poco a poco la vera Chiesa di Dio in tutto il mondo. Oggi abbiamo cristianità senza sacerdoti e perciò abbiamo missioni e non Chiesa, anche dove il Vangelo è predicato da secoli.

Cristianità complete col loro prete indigeno costituirebbero in mezzo al mondo pagano piccole cellule vive, piccoli centri di naturale espansione della fede. Oggi invece, come abbiamo già detto, chi lavora nelle missioni è ancora e principalmente l'elemento straniero, che detiene tutto nelle sue mani: autorità, iniziativa, responsabilità e la borsa; perciò il cattolicismo è tenuto una religione straniera.

E qui viene a proposito un'altra grave osservazione. Sembra urgente ed assoluto il bisogno, data anche la condizione dei tempi che attraversiamo, che Roma, con chiara visione del futuro, renda al più presto l'apostolato delle missioni indipendente dall'aiuto di personale e danaro straniero. Troppo a lungo è durata la soggezione delle missioni cinesi, per non parlare che di queste, dai missionari e dal finanziamento estero, ragione per cui quel clero e quei fedeli sono stati veduti, e non senza ragione con sospetto dai loro connazionali. E questo un altro punto che meriterebbe essere ben considerato.

Mi limito ad osservare che, legati e soggetti a vescovi e missionari stranieri, che non hanno rinunziato ad un certo loro patriottismo, clero e cristiani cinesi si sono spesso trovati in un vero disagio di fronte al loro paese, i cui interessi non coincidono con quelli che vi possono avere i paesi dei missionari stranieri, loro padri nella fede. È qui una delle ragioni per cui la Chiesa cinese -se si può parlare di una Chiesa in Cina - fino ad oggi non ha avuto una propria personalità, ed è stata ritenuta forestiera in casa sua. Oggi, collo stabilimento delle prime missioni indigene, le cose su questo punto vanno migliorando; continuando però il loro finanziamento, continua ancora in certo modo la servitù.

Essendo così dipendente dagli stranieri, è chiaro che la religione cattolica è tollerata e non è veduta di buon occhio dai cinesi pagani indipendenti.

Su questo piano realistico bisogna mettersi per meglio vedere la necessità di rendere presto sempre più indigeno; ed indipendente il cattolicismo in Cina.

E, giacché sono in argomento, mi domando perché mai, credute mature alcune missioni di reggersi da sé, non le si eleva al rango di diocesi?

Sono, o non sono le Chiese naturali del paese? L'erezione in diocesi delle Chiese indigene servirebbe a distinguere l'opera transitoria delle missioni estere cinesi dalla Chiesa della Cina, che, sorgendo dalle missioni, va gradatamente fondandosi.

Formazione spirituale

È presto detto che bisogna rivedere l'attuale metodo di formazione del clero indigeno; la cosa però non è senza gravi difficoltà. Metodi e programmi di studio, come dirò più avanti, dovranno essere attentamente studiati da persone del tutto competenti ed autorizzate. Mi limiterò qui a toccare solo qualche punto sulla formazione spirituale e culturale da dare a questo clero, sull'abolizione del latino e conseguente introduzione della liturgia in volgare.

Proponendo che si debba rivedere il nostro sistema di formazione del clero indigeno per renderlo più pratico e sbrigativo, non mi riferisco già alla formazione spirituale. Questa, non che essere ridotta o diminuita, dovrebbe essere assai più intensa di quanto è al presente.

Tutta la formazione spirituale dei preti indigeni deve tendere a plasmare degli apostoli. Bisogna far sentire dì più Gesù Cristo ai preti indigeni nell'anima, nel cuore, come nel loro intelletto: tanta orazione quanta teologia. Che cosa servirà fra loro conoscere tutto quanto, i teologi hanno detto di Gesù Cristo, se poi saranno freddi nel predicarlo?

Le case di formazione del clero indigeno, più che Case di studio, dovrebbero essere veri chiostri, nei quali la pietà dovrebbe avere somma importanza.

Tutte le Chiese, ma quelle nascenti in particolare, hanno bisogno più di santi che di laureati. Si dà oggi molta importanza agli studi, e, dato che bisogna cercare di far assimilare tanta parte del nostro scibile a giovani di altre razze e civiltà, viene da sé che il maggior tempo, le energie migliori siano assorbiti dallo studio. La pietà, se c'è chi la dirige bene, non si trascura, ma viene in seconda linea.

Grave errore, se badiamo a quello a cui poi i preti indigeni dovranno servire. Come ho detto, i preti indigeni debbono essere apostoli nel senso più genuino del termine: dobbiamo dunque educarli ed allevarli dando loro in grande abbondanza lo spirito di Gesù Cristo, stimolando con ogni miglior mezzo nelle loro anime il senso della responsabilità che loro incombe se vogliono essere le pietre fondamentali delle nuove Chiese che debbono sorgere nei loro paesi.

I primi fondatori del cristianesimo non furono né dotti né potenti secondo il mondo; conoscevano però Gesù Cristo meglio di noi, erano ricchi di fede e potenti in grazia e perciò fondarono la Chiesa. Questo si deve tenere soprattutto presente nell'educazione da dare al clero indigeno.

Se questo venisse trascurato, a nulla gioveranno la semplificazione degli studi e la liturgia in volgare. Metodi più apostolici funzioneranno bene solo se chi li usa è animato da verace spirito apostolico, altrimenti prepareranno nuove delusioni.

Il latino

La principale difficoltà nella formazione del clero indigeno sta nell'obbligo che gli facciamo di apprendere il latino e di seguire i lunghi corsi di studio tutti propri del clero dei nostri vecchi paesi cristiani; mentre è specialmente in questo che si dovrebbe saper vedere che quello che si deve esigere da ministri di .una Chiesa antica di duemila anni, non è lo stesso che occorre a sacerdoti di una Chiesa che si deve diffondere ed è in via di fondazione.

Riguardo particolarmente all'imposizione dello studio del latino osservo quanto segue.

Bisogna in primo luogo tener presente che gli studi preparatori al latino nella maggior parte delle missioni non sono, come per esempio in Italia, le quattro o cinque solite classi elementari. In India, per es. il corso di latino è ordinariamente preceduto da due anni di scuole di infanzia e da dieci anni di scuola media e superiore. Poi, dopo due anni di latino, si entra in filosofia. Bisogna pur considerare come in alcuni paesi, come per es. in Cina, la conoscenza profonda della propria lingua in un sacerdote è essenziale e lo studio di essa richiede anni di seria applicazione.

Ci sono poi aspiranti sacerdoti di razze aborigene, i quali, oltre la lingua materna, debbono necessariamente apprendere quella della razza principale se vogliono contar qualche cosa. Così i Cariani della Birmania debbono imparare necessariamente anche il Birmano che è fra le lingue più difficili. Se poi siamo in paesi coloniali, ogni persona rispettabile deve possedere la lingua della potenza colonizzatrice.

In fatto di lingue dunque, specie in Oriente, un uomo rappresentativo come il sacerdote ne ha da studiare più che un prete in Europa. Orbene ad un indigeno di uno di questi paesi che vuol diventar ministro di Gesù Cristo, noi ingiungiamo indispensabilmente lo studio del latino, per possedere il quale egli deve faticare non poco. Ci riescono sì i seminaristi indigeni ad apprendere in qualche modo il latino, ma con quanto sforzo tempo e fatica, poiché il latino ha per i cinesi, per gli indiani ecc. maggiori difficoltà che le lingue di questi popoli hanno per noi, con la differenza che noi siamo più di essi maturi, allenati e resistenti allo studio.

Perché, mi domando, un popolo di oltre quattrocento milioni, come il cinese, per non dire che di questo, il quale possiede una lingua antichissima e perfetta nel suo genere, non potrà avere libri di teologia ed una liturgia nella propria lingua?

Lo so: l'uso della lingua latina offre alla Santa Chiesa grandi vantaggi; ma guardiamo a quel fine a cui tutto nelle missioni deve servire e che niente dovrebbe ostacolare. Ora, non v'è dubbio, la lingua latina è un grave ostacolo alla spedita formazione del clero indigeno e quindi alla propagazione della fede.

In principio la Chiesa si servì della lingua greca allora in uso in tutto il mondo greco-romano: poi in occidente prevalse il latino, ma le Chiese orientali ritennero e ritengono le loro lingue. Perché con l'aprirsi del mondo al Vangelo, com'è aperto oggi, i sacerdoti indigeni dei grandi popoli dell'Asia non possono apprendere le scienze sacre ed avere una liturgia nelle proprie lingue? Di quanto questo faciliterebbe lo stabilimento della Chiesa in quei grandi paesi!

Ciò garberebbe forse poco ai missionari esteri, e ciò si intende facilmente; ma che cosa importa di più, la più spedita conversione del mondo o conservare le nostre posizioni e tradizioni?

Il problema presenta certamente delle difficoltà, ma tutte si dovrebbero vincere in vista del gran bene da raggiungere.

Alla comune difficoltà che si suol fare, che il latino serve come vincolo essenziale per tenere unite con Roma tutte le cristianità, rispondo che questo vincolo si può tenerlo ugualmente per mezzo della gerarchia e dei rappresentanti che la Santa Sede deve tenere presso tutte le Chiese.

Sosteniamo che cattolicesimo non è latinità, ma universalità: non dovremmo quindi insistere, specie al giorno d'oggi, sul latino che è essenzialmente espressione di occidentalismo. L'aver voluto vedere il cattolicesimo attraverso il latino e l'avere imposto questa lingua alle Chiese di popoli tanto lontani e di altro genio e civiltà si è risolto in indebolimento e mortificazione per la fede, che nata per diventar cittadina in tutte le terre, se ne è veduta ostacolata la via.

È un fatto indiscutibile che la latinizzazione del cattolicesimo è la ragione della sproporzione fra la sua diffusione in Europa e nelle altre parti del mondo, ove è così poco rappresentato perché ritenuto religione dell'Europa. Quanto all'America si sa che là altri fattori concorsero all'evangelizzazione: primo fra tutti l'opera dei governi colonizzatori; altrimenti si starebbe là come altrove.

I rapporti con la Santa Sede, come tutti sanno, sono oggi resi estremamente facili per i vari e rapidi mezzi di comunicazione che la Provvidenza ci offre: basti solo ricordare la radio, per cui si può ben dire che tutto il mondo sia oggi chiuso in un salotto, potendo tutti gli uomini dai più distanti continenti parlarsi ed intendersi come di presenza. Di questo mezzo la Santa Sede già si serve nel comunicare con i suoi lontani rappresentanti.

Giova su questo punto anche osservare come la proposta dell'abolizione del latino nella formazione del clero indigeno, non esclude che lo studio di questa lingua possa e debba rimanere, specialmente nei grandi seminari, come corso liberò di cultura, come si usa da noi per altre lingue, affinché almeno la parte più eletta del clero possa avere conoscenza diretta di tutta la letteratura sacra latina.

C'è anzi da augurarsi che le grandi nazioni di Oriente, Cina, India, Indocina, Giappone, ecc., abbiano in Roma le loro proprie case di studio per il perfezionamento di un certo .numero dei loro sacerdoti. Questi istituti gioverebbero grandemente per tenere stretti i vincoli di quelle Chiese con Roma e per preparare soggetti idonei per posti di particolare responsabilità.


Il programma degli studi

Se il latino è un ostacolo alla spedita formazione del clero indigeno, difficoltà non minore è la complessità degli studi ai quali l'assoggettiamo.

Salvo eccezioni, non si riesce a farli dotti i preti indigeni: li obblighiamo però ad ingerire tanta erudizione che, se buona ed utile per noi, riesce spesso inutile per essi che non sempre riescono ad assimilarla. Fa loro perdere del tempo e, più che chiarire, offusca quella somma di dottrina che dovrebbe indispensabilmente e con sicurezza possedere.

Già oltre 90 anni fa il p. J. Gabet della Congregazione della Missione, in una sua critica sulle missioni della Cina, presentata a Pio IX toccava questo punto.

Egli giustamente osservava che bisogna trapiantare la religione con quello solo che ha di universale, di obbligatorio, di adattabile a tutte le nazioni, per tutti i tempi e luoghi. Quando poi avrà messo le radici nella nuova terra saprà ben essa produrre, come da noi, gli altri complementi ed abbellimenti. Forse i costumi e le località potranno presentare in queste forme complementari varietà diverse da quanto è stato prodotto da noi.

Il punto difficile è di fissare e precisare quello che vi è di veramente universale ed essenziale nella dottrina, nella morale, nelle cerimonie della religione. Agli aspiranti indigeni al sacerdozio andrebbe messa in mano una esposizione esauriente e chiara di tutto quanto si è obbligati a credere e a praticare. Questa esposizione, diceva il p. Gabet, esiste ed è il "catechismo romano": in esso tutto è dogmatico e sostanziale. Questo il trattato di teologia da offrire agli aspiranti al sacerdozio nei paesi di missione.

Una moltitudine di estesissimi sviluppi appropriati alla nostra cultura, alle nostre idee, non fanno che confondere le menti dei nativi i quali, vedendo che tale o tal altro punto di dottrina è stato oggetto di tante dispute, ed è stato combattuto con accanimento da tanti avversari, restano turbati, la loro fede rimane come offuscata e la verità religiosa perde di chiarezza. Queste osservazioni riguardano evidentemente gli errori e le lotte dottrinali già sorpassati, non quelli ancora sopravviventi nelle eresie di qualunque forma.

Per quanto riguarda particolarmente l'insegnamento della teologia, questa dovrebbe essere insegnata ai seminaristi indigeni come una scienza vivente e veramente divina, in rapporto alla confutazione del paganesimo dei vari paesi ed in funzione di apostolato, cosicché un prete indigeno, uscendo dal 'seminario, non solo conosca bene la dottrina, ma la sappia pure, bene insegnare e predicare non solo ai fedeli, ma anche agli infedeli.

Lo stesso deve dirsi della morale e del diritto. Quanta parte di queste scienze che noi obblighiamo a studiare non serve a un prete indigeno che deve esercitare il suo ministero nell'interno dei paesi di missione.

Queste scienze dovrebbero essere insegnate avendo riguardo, non agli usi e alle leggi d'Europa, ma a quelli dei rispettivi paesi.

Gli sviluppi poi con i quali i moralisti europei trattano, oggi specialmente, certi comandamenti del decalogo, producano sugli studenti cattiva impressione. Essi vedono in tali esposizioni la descrizione dei costumi dei cattolici d'Occidente, della moralità dei quali si fanno un'idea poco elevata.

In conclusione si deve dare al clero indigeno una seria preparazione dottrinale, proporzionata però alla loro capacità ed all'ambiente nel quale devono svolgere la loro missione. Ed alla dottrina religiosa andrebbe aggiunta sempre una buona cultura di carattere ed utilità locale, quale deve possedere una persona colta e rispettabile del paese.

Se queste idee hanno un fondo di ragionevolezza e sono attuabili apparisce in maniera chiara la necessità che in ogni paese importante di missione vi sia una sezione di Propaganda Fide, diretta dal rispettivo delegato apostolico, con speciali commissioni alle quali sia affidato il compito di studiare sul luogo tutti questi gravi problemi, formulare programmi, preparare testi, procurare la traduzione dei libri sacri e liturgici, e vigilare che si stia nella più stretta ortodossia.

Riformata e semplificata così la preparazione del clero indigeno, il suo reclutamento sarebbe di molto facilitato: non si sarebbe più limitati a prendere dei ragazzi per europeizzarli e farli preti alla nostra maniera, ma al sacerdozio potrebbero aspirare tanti altri più adulti dall'anima eletta e fervente. La propagazione della fede avrebbe allora un impulso tutto nuovo, più naturale, e meglio rispondente agli ambienti ed alle popolazioni.

Sarebbe rimettere la propagazione della fede sulla via maestra, sulla quale la misero i primi evangelizzatori dei nostri paesi.

Liturgia in volgare

Quanto si è detto delle ragioni che consigliano di spogliare la nostra santa religione di tutto quel che sa troppo specificamente di occidentale, perché sia resa più accettabile e si propaghi più facilmente tra i popoli di grandi ed antiche civiltà, e perché in nessuna terra il Vangelo abbia ad apparire straniero; quanto è stato detto sull'opportunità di abolire la lingua latina nella formazione del clero indigeno rende chiara la mia risposta circa la convenienza di adottare per i grandi paesi di antica cultura e civiltà la liturgia in volgare. Non sembra infatti logico né giusto imporre la liturgia in lingua latina "indistintamente" a tutti i popoli soggetti a Propaganda, per il fatto che i suoi missionari sono latini ed inviati da Roma, o perché in Occidente la Chiesa prega in latino. In principio non fu così, quando cioè per il culto venivano adottate, senza la più piccola esitazione, le lingue dei paesi che accettavano la fede, e così furono adoperate per la liturgia il greco, il siriaco, l'armeno, lo slavo, ecc., che non erano lingue sacre.

La liturgia della Chiesa romana fu sostanzialmente orientale e la prima lingua adoperata nella sua preghiera pubblica ed ufficiale fu la greca, e ciò per ben tre secoli: non solo perché il greco allora era diffuso e adoprato come lingua diplomatica: in tutto il mondo romano; ma anche perché i cristiani venivano soprattutto dall'Asia, dalla Grecia, dall'Egitto.

Per quello che riguarda la Cina in modo particolare, popolo immenso di una sola antichissima lingua, non ci sarebbe affatto da esitare a concedere la liturgia in volgare. Se gli apostoli avessero potuto evangelizzare questo immenso popolo, non si sarebbero neppur sognato di imporre ad esso una lingua occidentale per uso ecclesiastico e liturgico.

Per otto o dieci milioni di cattolici orientali sono concessi ben cinque riti diversi: l' "alessandrino", l’"antiocheno", l' "armeno", il "bizantino" ed il "caldeo". Non si potrà concedere la liturgia in volgare ad un popolo come il cinese, che, venuto alla fede, raddoppierebbe il numero di tutti i cattolici del mondo?

Tale riforma, attuata con senno e buona volontà, costituirebbe un enorme passo avanti verso la cristianizzazione del mondo infedele, per i benefici effetti che ne risulterebbero: sia per il valore intrinseco della riforma stessa, rendendosi così il culto più intelligibile dal popolo fedele la cui vita cristiana verrebbe immensamente meglio nutrita, sia per togliere alla nostra santa religione in Cina la fisionomia di straniera.

Prova di cattolicità

Da questa riforma verrebbe poi di riflesso un altro grande e benefico effetto: si dimostrerebbe al mondo dissidente orientale che la Chiesa di Roma non è essenzialmente ed unicamente latina, ma realmente cattolica, l'unica vera Chiesa di Gesù Cristo.

Oggi come oggi, nonostante possiamo mostrare quei pochi milioni di orientali uniti, che scompariscono davanti alla massa di 175 milioni di ortodossi dissidenti, è un fatto che la Chiesa cattolica è tutta e solo latina e tale va propagandosi nel mondo, anche se vi riesce poco e a disagio. Questa che tocco, sembrami ragione di grande rilievo, degna di essere seriamente considerata, se dobbiamo sperare di vedere un giorno riuniti in un unico ovile i dissidenti di tutta la cristianità.

Difficoltà pratiche

Fra quante difficoltà si potran fare contro la tesi esposta in queste pagine, la maggiore è di ordine pratico: come cambiar strada, quando l'apostolato in tanti paesi è in corso da secoli e tutto ha già un avviamento ed un metodo? La risposta però è semplicissima. Quando ci si avvede che, per arrivare ad una determinata meta, la strada intrapresa non è la più adatta, la si cambia, anche se bisogna andare qualche passo indietro. Nel nostro caso tutto sta a studiar bene la riforma ed attuarla con senno; allora anche se vi sarà una breve stasi, effetto del cambiamento, si può e si deve accettarla perché, alla fine, si risolverà in un acceleramento nel raggiungere la meta a cui tutti aspiriamo.

Conclusione

Le missioni, come sono oggi condotte, il clero indigeno, così come viene oggi formato, non assicurano l'entrata rapida di tanti popoli nel grembo della Santa Chiesa. Bisognerà forse rivedere i nostri metodi.

Molti penseranno che il cambiar strada può rappresentare un rischio: ma io dico che se un rischio c'è bisogna affrontarlo. E più facile che ci sbagliamo appoggiandoci, come facciamo ora, alle grucce del nostro occidentalismo nelle sue varie forme, che seguendo le vie maestre tracciateci dal Vangelo, alle quali gli Apostoli fedelmente si conformarono.

Quante e quante anime di più godrebbero oggi i lumi della fede e la grazia dei santi sacramenti se nelle missioni i preti fossero stati in maggior numero, e per averli fosse stata meno difficile la loro formazione.

Quanto più diffuso sarebbe il Santo Vangelo nel mondo se lo avessimo presentato meno vestito all'europea e meno dall'Europa sovvenuto e protetto!

Quanto meglio fondata sarebbe oggi la Chiesa in tante regioni del mondo, se fosse stata meno impacciata dall'occidentalismo, meccanismo che solo i missionari esteri sanno maneggiare, per cui si sono fatti e si fanno così indispensabili, e intanto la Chiesa indigena stenta a naturalizzarsi ed a svilupparsi.

"Salus animarum suprema lex" è il canone che ci deve aiutare nella soluzione di questo problema e di tutte le difficoltà che essa comporta.