Viaggi e incontri


Il mercato delle stelle

Capitolo 5

Viaggi e incontri

Sommario

Una motoretta dal carattere spiccatamente perverso

Dal mio programma di vita missionaria avevo sempre escluso il motore: la bicicletta doveva bastare.

Questo sistema funzionò bene fino al mio arrivo qui a Ruhea; qui, se l'ultimo villaggio a sud della missione è a soli 8 km. dal centro, l'ultimo ad ovest si trova a 34 Km., l'ultimo a est a 40 km., l'ultimo a nord a 66 km. Fra questi quattro punti cardinali giacciono 150 gruppi e gruppetti di cristiani, un vero arcipelago della Melanesia e della Micronesia.

Davanti a questa situazione mi lasciai persuadere a "provare" il boxer, una motoretta che fu mi offerta in libero uso e che, dopo tutto, andava anche . .. .a pedale. Finii motorizzato, nonostante il fatto che di motori­stica fossi così ignorante da non distinguere una bronzina da una balestra. Non potevano mancarmi le sorprese stradali.

Un giorno viaggiavo come il vento, improvvisamente il motore si spense, lasciandomi appiedato nel bel mezzo di chissà dove. Nel silenzio sepolcrale, che lo spegnersi del motore aveva provocato, stavo medi­tando sul gran mistero del motore a scoppio, quando notai un piccolo cappuccio che penzolava giù. Chissà!... Mi chinai e, con tutta delica­tezza, cercai di risistemare detto cappuccio in quello che pareva essere il suo posto. Una pedata all'avviamento, miracolo! Con immenso mio sollievo, il silenzio di quella strada solitaria venne di nuovo dilaniato dal rombo del boxer. In mezzo minuto mi trovai di nuovo a correre a tutta birra, felice, tra l'altro, di aver scoperto uno dei mille segreti della motoristica.

Un altro giorno, eccomi di nuovo appiedato. Diedi un'occhiata al famoso cappuccio: no, è al suo posto! Ahimè! Quale altro accidente...? Ero lì che meditavo sul mistero di cui sopra e, da lontano, presentavo con la mia persona la figura perfetta della disperazione, tanto che un camio­nista decise di rallentare e di vedere cosa diamine fosse successo. Il brav'uomo scese e, col suo occhio clinico, diede una lunga guardata al boxer. Alla fine fece una mossa, alzò il coperchio del serbatoio: era riarso! Sorrise e mi chiese se avevo altra benzina con me. "No!" risposi, come cadendo dalle nuvole. Me ne diede della sua, aggiungen­do un gocciolo di mobil. Poi disse: "Provi adesso!" La bestiaccia partì d'incanto e, quando mi volsi per dir grazie, il buon amico mi offrì un consiglio paterno: "Vede, questi son cavalli che, quando han nulla in pancia, non c'è mezzo di farli trottare!"

Comunque, benzina o no, credo di dover dire che ogni motore ha un suo carattere, come gli esseri umani. Il mio boxer ha un carattere spiccatamente perverso, anzi, mi viene spesso il dubbio che esso sia mosso da qualche anima dannata. Sembra che capisca al volo quando ho fretta, allora non tirerà o risponderà con rumori infernali ed io continuerò a darmi dello scemo per aver messo i miei pastorali doveri alle dipendenze dei ghiribizzi di una stupida motoretta.

Un giorno andavo a benedire un matrimonio, ma il boxer sembrava deciso a non volermi portare; pareva che stesse per svenire da un momento all'altro. La sventura giunse al colmo quando arrivai ad un fiume che, per improvvise piogge a monte era in piena. Che fare? "E' inutile ormai, dissi a me stesso, piangere sul latte versato. Bisogna passare ad ogni costo!" Pregai un pescatore di venire ad aiutarmi. Legammo la moto ad un bambù e, levatala in spalla, entrammo in acqua. Mia speranza era di tenere all'asciutto sia il motorino, sia il cavallo dei pantaloni.

Illusione! Ben presto dovetti annegare non solo il cavallo dei pantaloni, ma anche il colletto della camicia e, purtroppo, anche il boxer! Ci fu un momento in cui la corrente pareva volesse portarci con sé.

Tale fu la crisi che neppure ci accorgemmo di una certa nuvolaccia, la quale, al momento più brutto, pensò di contribuire al la situazione con un'abbondante doccia dall'alto! Risalimmo l'altra sponda che sembra­vamo la costellazione dell'acquario! Comunque, passato il fiume, non era tanto la lavanderia che avevo indosso che mi preoccupava, quanto la motoretta che avevo davanti; "viaggerà ancora?". Con un intenso pensierino a Sant'Antonio, diedi un colpetto all'avviamento, essa rispo­se con un colpetto di tosse. Ripetei, la tosse aumentò. "Forza, Sant'An­tonio caro, che ce la facciamo!" Lo credereste? Quell'infame motoretta, mentre prima non tirava, adesso, fatto il bagno, partì col vento, facendo schizzare a tutte le altezze l'acqua e la fanghiglia delle pozzanghere: si sarebbe detto che stesse facendo la corsa di collaudo.

Arrivai al matrimonio accolto dagli sguardi inorriditi dei convitati: eviden­temente non vestivo la veste nuziale, comunque mi presero com'ero. Dopo la cerimonia, cercai di tradurre per loro il nostro proverbio: "Sposa bagnata, sposa fortunata!" Il proverbio non calzava, perché stavolta si trattava di prete bagnato; pure essi capirono al volo e dissero: "Abbiamo anche noi qualcosa del genere: benedizione e rugiada, entrambe ci vengono dall'alto". Altro che rugiada, però, la mia!

Nei miei usuali giri pastorali devo raggiungere villaggi raggruppati a grappolo, alcuni isolati, altri vicinissimi, altri ancora lontanissimi. I quattro più lontani, all'angolo estremo nord del Bangladesh, sono ad oltre 60 Km. da Ruhea; l'ultima volta che li visitai, partii alle dieci del mattino e li raggiunsi a notte fatta, anche se ho viaggiato per 30 Km. in corriera e per altrettanti in treno; il treno era due ore in ritardo e la corriera, appena partita andò in panne.

Quando pedaliamo per queste straducole, si incontra chi non ha mai visto un forestiero e chi ha visto missionari andare e venire da 47 anni, da quando cioè i primi nativi della zona si convertirono. C'è chi ci lascia andare per la nostra strada senza minimamente badare a noi e ci sono ragazzotti che ci fanno gli sberleffi; c'è infine che ci saluta e ci invita a sedere e a riposare.

Un giorno sbagliai strada e, grondante sudore, sotto un sole torrido, andai a fermarmi sotto una pianta, vicino ad un caseggiato musulmano. Intravvidi dietro le finestrelle socchiuse le donne che mi sbirciavano. Dopo un po', però, la porta si schiuse e ne uscì la vecchia di casa; venne diretta verso di me portando un immenso bicchiere di acqua zuccherata. Mi disse soltanto: "Bevi!" Mai in vita mia bevetti un bicchiere d'acqua con tanta gratitudine. Dissi: "Grazie!", ma l'incontro era finito: la brava vecchia mamma si riprese il bicchiere vuoto, si voltò e rientrò nell'harem. Spesso sono io a chiedere un bicchiere d'acqua a qualche samaritana al pozzo. Un sudatissimo pomeriggio ne avevo bevuto una mezza caraffa, tanto che i bambini, che stavano là ad osservare le mie mosse, commentarono tra loro: "Ha bevuto come una vacca!" Altri dissero: "E' stanco come un vecchio bufalo!"

Un giorno ci fu un improvviso sciopero delle corriere (in protesta, come spesso avviene, per il pestaggio del guidatore di chissà quale corriera, da parte dei passeggeri). Arrivo trafelato alla fermata a 10 Km. da casa e a 30 Km. dalla mia destinazione, solo per essere informato che di corriere non ce n'erano. Stavo lì a sorbirmi questo contrattempo, quando arrivò una rara jeep-taxi. Un lampo di speranza! Invano! Una ventina di passeggeri in attesa si buttarono all'arrembaggio. lo non feci neppure la mossa. Ma ecco che, dall'interno della jeep, piena come un uovo, c'era chi mi chiamava. Mi avvicinai ed uno dei passeggeri là seduti mi disse: "Salga!" Risposi: "Ma non c'è posto!" Egli cedendomi il suo posto e scendendo, ripeté: "Salga e si accomodi!" Mi accomodai e dissi: "Ma, e lei?" Lo sconosciuto sorrise: "Non pensi a me. Non ho viaggi da fare, sono salito solo per prendere un posto per lei; lei con questa naia, ce l'avrebbe fatta da solo?" Una volta tanto un bighellone del bazar aveva trovato interessante dare una mano ad un prete in difficoltà.

Durante i miei primi anni di missione, usavo visitare un certo villaggio di tribali Santal. Vicino alla cappella c'era una famiglia non cristiana. La vecchia della casa era una gran donna ancora alta, robusta e scura come la notte. Aveva per di più una voce maschile, ma possedeva un gran cuore di mamma. Fin da principio mi prese in simpatia. Al vedermi arrivare stanco e impolverato, in bicicletta, o, durante le piogge, a piedi, ella abbandonava subito le sue faccende (era sua incombenza l'alta sorveglianza del bestiame di famiglia) e correva a prendermi una brocca d'acqua, dopo di che organizzava le sue nipotine perché mi venissero a lavare i piedi, come si usa qui con l'ospite in arrivo. In mezzo a questo suo daffare, continuava a chiamare ad ugola spiegata il catechista e i cristiani, che, al loro sopraggiungere, ella provvedeva a rimproverare per non essere subito venuti a vedere il Padre. Una volta arrivai inzuppato di pioggia e il giorno dopo ebbi vomito e febbre da cavallo. Non potei ripartire e neppure alzarmi. La povera donna era fuori di sé e non mi lasciò un minuto; a me, disteso in quella sperduta capannuccia di paglia, pareva di aver vicino là mamma rediviva.

Avevo poi un certo villaggio con due sole famiglie cristiane. Quando visitavo la zona, questo angoluccio era sempre la mia ultima tappa. Ma ecco il perché: la moglie del catechista era una di quelle donne che si direbbero inquadrate con la mannaia. Dava sempre l'impressione di aver indossato i suoi abiti alla rovescia. Era lei che teneva il peculio della famiglia, però in matematica era così debole che non sapeva neanche contare. Quello comunque che complicava le cose era che le sue nozioni di pulito e di sporco erano pure del tutto approssimative, col risultato che, far onore alla sua cucina, per me aveva sempre voluto dire buscarmi una forte dissenteria. Fu così che a mie spese ho imparato a visitare prima di tutto il circondano ed a tenere per ultimo questo posticino, da dove mi era facile "volare" a casa.

Un altro problema dei nostri giri pastorali è il pisolo del pomeriggio, che precede il passaggio ad un altro villaggio. Se ti metti a pisolare in cappella, avrai alle finestre i bambini che staranno a commentare la bianchezza dei tuoi stinchi o quanto grosso è il ditone dei tuoi piedi. Se poi di cappella non ce n'è e ti tocca fare il tuo pisolo in qualche abitazione, allora là ci sarà l'infante che piange, i grandini che bisticcia­no, la mamma che sgrida, il vecchio asmatico che geme, la capra che bela e la gallina che fa coccodè.

Il pisolo del pomeriggio invece che un lusso finisce col diventare una lunga serie di atti di pazienza, se poi non riesce a riempirti di nervoso. Tante volte, tra le rimostranze dei miei ospiti, ripresi il viaggio con il sole ancora a perpendicolo; il mio proposito era di riposarmi in qualche bella ombra appartata, adocchiata in precedenza. Senonché ,al mio arrivo, trovavo che l'ombra solitaria era già occupata da una mandria di bestiame, con relativi pastorelli, oppure mi accorgevo che essa era una zona turistica riservata a certe dannate formichette rosse....

"No grazie, sono a digiuno"

La prima cosa che salta agli occhi del nuovo venuto in Bangladesh è l'islam. L'Islam è cospicuo non solo perché è la religione dell' 87% della popolazione del Bangladesh o perché ci sono moschee grandi e piccole un po' dappertutto, ma specialmente perché anche qui, come altrove nel mondo, i musulmani prendono la religione sul serio. Non c'è rispetto umano nel praticarla, se mai il rispetto umano viaggia nel senso opposto. Per esempio, se uno non osserva il digiuno del Ramadan, avrà cura di tenere la cosa nascosta e, se sbadatamente, tu gli offri una sigaretta, lo costringerete a dire: "Prego, sono in digiuno!" (il digiuno del Ramadan è completo: neppure si fuma e non si deglutisce neanche la saliva; se necessario, la si sputa).

Ebbene, come viene accolto il prete cristiano in questo ambiente?

C'è chi guarda a noi come a bestie rare; ci sono altri (a dire il vero, molto pochi) che ci considerano dei Kafir (cani infedeli) e c'è chi rispetta cordialmente.

Sulla piattaforma di una stazione, un giorno, un vecchio marabutto (qui si chiamano mulvi) mi osservava intensamente; con la mia barba e con la mia veste bianca, molto simile alla sua lunga tunica, forse non sfiguravo come marabutto io stesso. Ma che razza di marabutto potevo essere? Alla fine si avvicinò e mi chiese tu chi sei?" Risposi: "Sono un prete cristiano!" Mi trafisse con due occhi torbidi di zelo. "Come - disse - cristiano! Non hai ancora capito di farti musulmano?" "No, fratello maggiore!" dissi con garbatezza. Ma il titolo d'onore datogli non l'intenerì per nulla e dovetti passeggiare alla larga per salvarmi dalla requisitoria. Invece un altro marabutto, dopo avermi fatto visita, nel congedarsi, mi si inchinò davanti dicendomi: "Benedicimi!" Vedendomi impacciato, mi prese la mano destra, me la fece posare sul suo capo e mi ripeté: "Dì, adesso la tua invocazione!" Lo benedissi.

I musulmani non digeriscono il nostro celibato.

Un giorno salì sul treno un grosso poliziotto equivalente in Italia, al maresciallo dei carabinieri. Dopo vari scatarramenti e sputacchiamenti e spostamenti di passeggeri per potersi accomodare vicino al finestrino, finalmente si accorse di me, che gli stavo seduto di fronte e, a voce alta e senza preamboli, cominciò a redarguirmi: "Ma perché voi preti cristiani non vi sposate?" Risposi: "Ma si che ci sposiamo!" Al che sgranò gli occhi e fece: "Oh, oh! (come per dire: "Questa mi è nuova del tutto!"). "Come! Come! Quando?" Risposi: "Quando i marescialli dei carabinieri impareranno la buona creanza; in quel giorno anche i preti si sposeran­no".

Un giorno ci fu l'ispettore in visita alla nostra scuola. Quando il brav'uo­mo, prendendo il tè, prima di partire, vide le suorine bengalesi addette alla scuola sedute davanti a lui, parve che altre cose, non scolastiche, lo interessassero e disse: "Perché non vi sposate? Nel nostro Corano... Lo interruppi: "Prego, faccia la sua ispezione e lasci stare gli affari personali delle suore. Quanto a quello che c'è scritto nel Corano, è inutile che ce lo spieghi: lei sa bene che noi cristiani non accettiamo il Corano". A quest'ultima mia uscita il suo assistente mi guardò esterre­fatto, come se gli avessi mostrato un cadavere nascosto nel comò. "Come, balbettò, voi non...? Gli dissi: "Vede, uno diventa musulmano quando accetta il Corano. Se noi non siamo ancora diventati musulmani vuoi dire che...: non le pare?

L'unico argomento per loro ragionevole, in fatto di celibato, è che noi siamo discepoli di Gesù, il quale era celibe. Per il grande rispetto che hanno per lui, a questo argomento non ribattono.

Nell'ambiente popolare islamico del Bangladesh vige un puritanesimo che sembra ereditato, chissà come, dagli antichi scribi e farisei. Una delle cose che conturba i farisei locali è la donna in bicicletta, sia ella donna straniera e sia pure suora. Un giorno una suora italiana pedalava vigorosamente lungo una strada impervia. Disgrazia volle che le capitasse di fare un improvviso capitombolo; non solo il biciclo andò con le ruote all'aria, ma la ciclista stessa eseguì un perfetto salto mortale, nel processo del quale ella diede esibizione abbastanza generosa (anche se in volontaria) delle reverende gambe. Ma il colmo della disgrazia fu che il testimone del piccolo disastro non fosse altro che uno dei farisei del luogo che, con teatrale costernazione, alzò le mani al cielo e si diede a deprecare: "Rovina della religione! Rovina della religione!" Più che il rossore, potete immaginarvi lo sprint di quella monaca nel tirarsi su e battersela.

Ho tentato di confortare un sacerdote indù

Gli induisti del Bangladesh sono solo il 12% della popolazione. Il loro gruppo presenta tutto il complicato castello di caste e di sottocaste dell'induismo. Ma l'impressione immediata che gli induisti danno è quella di essere un gruppo estremamente mortificato dagli avvenimenti degli ultimi decenni. Dopo la divisione dell'India, nel 1947, essi si trovarono ad essere una piccola minoranza in un paese dominato dai loro secolari antagonisti, i musulmani, e questo fatto spinse i loro esponenti (i ricchi e gli istruiti) ad emigrare in India. Infine nelle sanguinose repressioni del 1971 essi furono le vittime che soffrirono di più.

Il mio primo amico induista fu un giovane dottore, ateo così convinto che cercava di convincere all'ateismo pure me, missionario fervente appena arrivato dall'Italia.

Un giorno mi capitò di accalappiare un topo di sacrestia: la grande chiesa di Bonpara ha sempre tanti visitatori, ma quel ragazzotto, che vidi un giorno uscire dalla porta grande, portava anche una valigia di vimini e camminava in gran fretta. Lo feci fermare e vuotare il contenuto della valigia sulla gradinata del la chiesa; fra le varie cose che egli aveva arraffato in sacrestia, venne fuori anche un bell'idoletto di ottone e varie altre cosette di origine induista. Era evidente che il ladruncolo batteva di preferenza i templi indù e, solo come diversivo, aveva tentato la sua fortuna in una chiesa cristiana.

Fu affidato ai cosiddetti 'cinque uomini del villaggio', che provvidero a sistemarlo secondo le regole e da lui vennero a sapere la provenienza dell'idoletto di ottone. Scrivemmo e, a giro di posta, ecco arrivare il pujari (bramino addetto al culto di una divinità) in persona. Il pover'uomo ansimava per il lungo viaggio ed era giulivo nella speranza di riavere la sua veneratissima dèbota (statua di divinità). Quando gli misi davanti la valigia di vimini sorrise riconoscendola, ma, apertala e vista la dèbota di ottone, si oscurò tutto in viso ed esclamò: "Ma non è questa! Dov'è la mia dèbota di pietra, con gli occhi di perla?" Nel vedermi allargare le braccia e nel sentirmi dire: "Mai vista!" egli scoppiò a piangere e si mise ad invocarla, come se fosse la sua bambina perduta. Nel suo smarrimento annaspava con le mani ed alla fine, aggrappatosi a me, pose la sua fronte sulla mia spalla, scuotendo anche me con i suoi singulti. Non avrei mai immaginato, quando ero partito per la missione, che un giorno avrei accolto fra le mie braccia e avrei tentato di confortare un sacerdote degli idoli. Anzi, nel vederlo andarsene curvo di dolore, Dio sa quanto ho desiderato in cuor mio che la sua dèbota gli venisse restituita.

Ultimamente mi toccò di incoraggiare un bramino in crisi.

Egli era in carica presso un tempietto famoso e che rendeva molti soldi. Senonché, tempo fa, cominciò a spargersi una certa voce assai infa­mante nei riguardi della moglie. Non si può dire quanto umiliati fossero gli induisti della zona per questa diceria: volevano che il bramino se ne andasse. Il poveretto era sconvolto per l'enormità della calunnia, ma più ancora per la non solidarietà e il rigetto dei suoi fedeli. Venne da me deciso a farsi cristiano per 'punirli' con la sua conversione. Gli feci capire che una conversione 'contro' qualcuno non era conversione, ma vendetta; tornasse piuttosto al suo tempio con fiducia. Dopo vari incontri, riprese le sue funzioni e il peggio della burrasca sembra sia passato.

Anni fa vidi capitare un giovanotto francese.... chi mai si aspetta visite dalla Francia? Mi narrò la sua storia: finiti gli studi egli era entrato nel noviziato dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Lì però gli capitò di perdere non solo la vocazione, ma anche la fede; poi finì nella droga e nel teppismo. Nella nostalgia del suo passato di fede e nel desiderio di redimersi, fece come tanti giovani d'Occidente fanno oggi: venne in India in cerca di un guru, alla cui scuola mettersi. A nord di Calcutta ne trovò uno a cui disse tutto di se stesso. lì grand'uomo lo ascoltò per un poco, poi lo interruppe: "Non mi venire a dire che hai rigettato Gesù e che non accetti i suoi insegnamenti. Presso di me non riceveresti insegnamenti migliori dei suoi. Se proprio vuoi restare con me, resta; ti insegnerò a conoscere meglio Gesù". Il giovanotto concludeva: "Ho riletto il Vangelo in compagnia di quel guru e, col suo aiuto, ho riscoperto Gesù e sono ridiventato suo discepolo."

Nonno stregone e nipote seminarista

Oltre che musulmani e indù in Bangladesh ci sono altre piccole mino­ranze tribali aventi ognuna origini, costumi ed osservanze religiose diverse. Caratteristica fra tutte è la tribù dei Santal, la quale, tra l'altro, ha dato migliaia di convertiti al cristianesimo.

Quando mi trovavo nella missione di Andharkota, spesso visitavo un gruppetto di cristiani Santal, nel cui villaggio abitava anche lo stregone più famoso del circondario. Egli era un vecchietto lindo, liscio e gras­sotto. Era un tipo estremamente simpatico; non aveva un dente in bocca, ma ciò non gli impediva di fare le risate più grasse di questo mondo. Era famoso per i suoi sortilegi, scongiuri ed impiastri empirici. Ricorrevano a lui non solo i Santal, ma anche hindù e musulmani (e, ci scommetto, anche vari cristiani). Fummo presto amici e non mancava di venire a farmi visita appena sapeva del mio arrivo in villaggio. Parlavamo di tutto con estrema confidenza, tanto che un giorno gli dissi: "Possibile che tu creda proprio che la religione giusta sia quella degli spiriti e non quella di Dio Creatore!" Scoppiò in una risata che non finiva più. Poi, riprendendosi: "Ma sì, disse, ma sì! È Dio solo che bisogna onorare. Gli spiriti? Cosa sono gli spiriti? e scandì: sono un bel niente!" Allora, con tutto il mio zelo, cominciai a dirgli: "Perché allora tu continui a promuoverne la fede?" Un'altra grande risata, poi disse: "lo non promuovo nulla!" e, come se stesse rivelandomi un segreto, sussurrò: "lo promuovo solo il bel guadagno che questo mestiere mi dà!" Replicai che non era necessario rinunciare al guadagno: si facesse pagare pure per i suoi impiastri di erbe e radici, ma lasciasse stare sortilegi e scongiuri. Scosse la testa: "Se non fingo di leggere l'occulto sulla foglia spalmata d'olio, se non faccio segni e se non pronuncio nomi strani, gli ignorantoni che mi consultano non mi pagherebbero solo per i miei impiastri!" E così egli continuò a percepire la sua bella 'entrata' che gli permise di pagare la retta per l'educazione di due dei suoi tre figli in un convitto cattolico (il maggiore se lo tenne in casa, per passargli i segreti del mestiere). Questi due figli si fecero ben presto battezzare, con il suo beneplacito e, di essi, uno oggi è catechista di una importante missione; l'altro ha un figlio in seminario.

L'ultima notizia che ebbi è che il mio amico stregone, dopo aver trasmesso il mestiere al figlio maggiore, si è fatto lui stesso battezzare ed è morto in maniera.... simpatica, come era vissuto. Vien da dire che il furbone, davanti alle due scelte, cristiana e pagana, aveva trovato il modo di prendersi il meglio di tutt'e due.

Un centopiedi pronto a caderti addosso

Molti di voi desidereranno conoscere i nostri metodi di approccio, specialmente quando visitiamo gli ambienti più depressi.

Primo, c'è il metodo di Babbo Natale. Qualche raro missionario possiede, non la slitta da renne, ma la jeep, che periodicamente carica di cibarie e di indumenti, destinati ai villaggi anche più lontani. Il suo arrivo è un trionfo: i fedeli riempiono la cappella, vanno tutti ai sacra­menti, cantano e pregano a tutto spiano. I non cristiani, dal canto loro, incominciano a pensare se non valga la pena di convertirsi. Tutti guardano a questo prete con occhio di adorazione; forse neppure saluteranno gli altri preti per la strada, questo qui però guai a chi glielo tocca! Per loro egli conduce una vita movimentata: è lui che li porta dal dottore, è lui che li assiste in corte, li aiuta in tutto; è difficile trasferirlo e far accettare, al suo posto, un successore. Nei suoi riguardi i fedeli restano come infanti e dipendenti familiari. Per loro il cristianesimo finisce per diventare un diritto a molte e svariate gratificazioni e questo prete incarna ai loro occhi il cristianesimo.

C'è poi il sistema dell' Europeo ricco e civile. Alcuni missionari di questo stile si portano addietro il proprio cibo, per lo più rinchiuso in scatolame arrivato dai supermercati d'Occidente. Le ragioni di ciò sono che il proprio stomaco non sopporta il cibo nativo o che i nativi sono troppo poveri per mantenere il prete. Succede pertanto che il prete mangia sempre appartato e del suo: certo che gli tornerà difficile spiegare il santo 'mangiare insieme' dell'Eucarestia.

C'è, infine, il sistema di mangiare e di alloggiare presso la gente del posto. Questo sistema ha vari inconvenienti: la lettiera di corda che ti si offre sarà piena di cimici e l'angolino che ti si destina sarà scuro, disturbato e non ventilato. Un giorno, in un certo villaggio, non si trovò un solo chicco di riso, non dico per loro (che saltano spesso i pasti), ma per me; non mi si disse nulla, mandarono invece una vecchia ad elemosinare presso i musulmani e così quella sera ebbi la mia cena. Un'altra volta, venuta la sera, si scoperse che in nessuna casa c'era un goccio di petrolio per accendermi la lucerna; restammo tutti (questa volta anch'io) al buio. (Vi dirò che il fatto di trovarsi in un'oscurità aumenta la fantasia; immaginate che sul pavimento striscino chissà quali serpenti e che ad ogni fuscello di strame che pende dal soffitto ci stia aggrappato un centopiedi o uno scorpione o chissà quale insetto pronto a cadervi addosso).

Quest'ultimo sistema ha questo di buono: da te i poveri si aspettano di meno e ascoltano di più, specialmente quando tu dici loro: "Istruitevi!" "Lavorate di più!" "Siate più previdenti!" "Non ubriacatevi!" "Non mettete a pegno i terreni per insulse spese di matrimoni e funerali!"

Questi giri pastorali costano più fatica e meno denaro, comunque rendono assai più in utilità pastorale.

Un santone condannato all'inferno

Nei miei incontri con i non cristiani di proposito non prendo mai l'inizia­tiva di parlare di religione, aspetto da loro la prima mossa. "Quando ti dicono 'parlaci di Gesù', tu com'è che rispondi? Desidero saperlo!".

Ma arrivato il momento in cui ti dicono "Parlaci di Gesù", attendo che si faccia perfetto silenzio e, prendendo quasi un tono di lettura, senza altri preamboli, dico: "Disse Gesù 'Uscì il seminatore a seminare il suo seme... Un padre aveva due figli...' 'Dieci vergini andarono alla festa di nozze...' 'Un uomo viaggiava da Gerusalemme a Gerico...' 'Un fattore dilapida va i beni del suo padrone...' 'Scendi, Zaccheo, che oggi resto a casa tua...' 'Si, figlia, resta libera dal tuo male...' e così via.

La situazione mi dà il senso di trovarmi accoccolato a recitare la parte di Gesù fra gli stessi umili uditori che aveva Lui. I miei uditori non riescono a trattenere le loro espressioni di sorpresa, seguono attenta­mente lo snodarsi delle piccole vicende e partecipano alla ricerca dei significati. Più che presentare l'impalcatura delle nostre verità e dei nostri misteri, io cerco di presentare la persona di Gesù Maestro. Fui spinto a questo sistema di approccio fin dalle mie prime esperienze con i non cristiani.

Ero da poco in missione e mi trovavo a Bonpara, coadiutore e discepolo del Padre Mino Carnevale. A Bonpara, purtroppo, di conversioni non ce n'erano. A dir il vero, a breve distanza dalla missione, c'era un piccolo villaggio di aborigeni Pahari e, dato che erano stati i Pahari a dare le prime conversioni della zona, avremmo potuto guardare a questo villaggio con una certa speranza. Gli abitanti però avevano fama di essere ladruncoli matricolati e, per di più, incontrando i preti per la strada, avevano sempre la tendenza di trovare qualcosa di interessante da osservare giù in fondo al fosso, dall'altra parte della strada.

Ma ecco che, inaspettatamente, il capo del villaggio mandò a dire che lui stava poco bene e che desiderava convertirsi. Sperando che il grande momento fosse giunto, vi andammo tutt'e due. Il malato soffriva di ulcera allo stomaco e lo trovammo steso bocconi su di una lettiera di corde. Era circondato da un bel gruppo della sua gente; si sarebbe detto che erano in ansiosa attesa del nostro arrivo. 'Come stai?" chiese Padre Carnevale. "Non bene - disse lui - ti volevo appunto perché tu mi guarissi dai miei dolori". Padre Carnevale, un uomo imponente per fisico, barba e voce, non sapeva fare complimenti e ribatté: "lo non faccio il dottore, però, se vuoi, ti posso insegnare la vera religione!" "Buona anche quella!" disse il malato, il quale, evidentemente, non trovò il coraggio di aggiungere: "...in mancanza d'altro!". Allora il Padre, puntando il dito verso un bel pò pò di donna che stava là appoggiata alla porta, disse: "Intanto, se ti preme la vera religione, quella là non ti è lecito tenertela in casa con te!" "Cosa faccio - disse l'altro con sofferenza - me l'ha data il Buon Dio!" Noi, in Occidente, con il nostro parlare accuratamente areligioso, non avremmo certamente tirato in ballo il Buon Dio, avremmo menzionato, caso mai, 'un complesso di circostanze', ma il capo era un asiatico e parlò da asiatico. Comunque sia, questo suo implicare il Buon Dio in caso di concubinato era, a dir poco, cosa blasfema per Padre Carnevale, il quale si accalorò: "Sem­mai il Buon Dio te ne darà una di donna, mai due!" Il malato mostrò di aver avuto una fitta allo stomaco e, senza ribattere, abbassò il viso sul cuscino lucido di untume. Gli astanti erano attoniti all'inaspettato dibat­tito.

Grazie a Dio, Padre Carnevale proseguì: "Beh, incominciamo allora con le verità della fede!" e, così dicendo, si fece un gran segno di croce, dopo di che si sobbarcò la presentazione del Mistero della Santissima Trinità. lo mi trovavo in un disagio indicibile e mi sentivo tutto bagnato di sudore. Com'era da aspettarsi, ben presto tutto l'uditorio, incomin­ciando dalla donna incriminata, si dileguò. Alla fine con noi rimase solo il capo, il quale, povero diavolo, essendo malato, non poteva alzarsi e piantarci in asso lui pure. Padre Carnevale, voltatosi verso di me, disse in italiano: "Hai visto? Sono induriti dal male. Non vogliono neppure sentire!" "Andiamo a casa!" dissi io e c'incamminammo. Lasciai che si sfogasse e poi tentai: "Non si sarebbe potuto iniziare il discorso con qualche altro argomento?" Il Padre protestò che no, la Trinità era troppo importante per diventare numero due dopo altri argomenti. Dentro di me però promettevo a me stesso che quando sarebbe venuta la mia volta, avrei tentato col sistema di Gesù, il sistema delle parabole.

Il parlare in parabole non è una novità per questi popoli, anzi sono le parabole il loro mezzo preferito per esprimere le loro idee. Per quanto poi riguarda i misteri ed i miracoli, essi li accettano senza difficoltà: una religione che si rispetti non può essere priva di questi ingredienti.

E qui vi voglio offrire un piccolo saggio da parabole bengalesi. La prima viene dal mondo induista: in essa voi sentirete come fu che un sannyas­si (santone hindù) andò a finire irrimediabilmente all'inferno.

Il brav'uomo non era un santone falso (si dice che in India i santoni siano 8 milioni; fra tanti, si sa, non possono mancare i gabbamondo). Egli genuinamente si sforzava di tenersi libero da ogni macchia di peccato e a questo scopo viveva solitario in meditazione e in severo ascetismo ai bordi di una foresta. Ecco però che anche per lui arrivò il giorno della prova.

Era immerso in meditazione accoccolato davanti alla sua capannuccia, quando, improvvisamente, la pace immensa che lo circondava venne interrotta da uno scalpiccio precipitoso. Si voltò e vide un uomo che correva affannosamente verso di lui; il poveretto, che era inseguito da una masnada di ladroni, cercava un nascondiglio e, vista la capanna del santone, vi sgattaiolò dentro. Ma ecco i ladroni: "Dov'è l'uomo?" intimarono. Il santone pensò: "Se dico la verità, il poveretto è morto. Se dico che è fuggito nella foresta, sono io che mi macchio di bugia". Decise di mostrare di essere un santone muni (silenzioso) e non accennò alla minima risposta. I ladroni però non mancarono di dare un'occhiata all'interno della capanna; videro il malcapitato, lo acciuffarono e, deru­batolo di tutto, lo scannarono. A suo tempo anche il santone venne a morire e fu condannato all'inferno, colpevole di omicidio. Come mai... lui? Sì, non c'è che dire, nel mondo di là i conti si fanno in modo diverso che in quello di qui; di là si trovò che il suo ascetismo era egoista; egli aveva amato di più la propria perfezione personale che la vita stessa del prossimo.

Ho trovato questa parabola nel testo scolastico per l'istruzione religiosa indù e mi piacque molto perché ho sempre avuto l'impressione che l'ascetismo induista appunto non addossi impegni sociali a chi lo pratica.

Non vi dispiacerà ora sentire anche una parabola islamica.

Un fachiro (santone musulmano), nel suo continuo peregrinare da un santuario all'altro, usava spesso ottenere ospitalità presso una famiglia di brava gente. In modo speciale era la donna di casa che lo trattava con estrema venerazione e si raccomandava alle sue preghiere e benedizioni: il fatto era che la poverina si struggeva dal dolore per la sua sterilità. Il fachiro ogni volta le dava un mondo di benedizioni e assicurazioni che, vedrai, entro l'anno... L'anno passava e il fachiro ripassava solo per ritrovare la donna sempre più triste e sterile che mai. Alla fine egli si sentì così umiliato per l'inutilità delle sue benedizioni che per vari anni, nel fare i suoi pellegrinaggi, evitò di fermarsi alla casa della donna sterile. Un giorno comunque, quasi senza pensarci, vi si presentò e cosa non vede? La donna sta cullando un bellissimo bambino. Magnifico, però.. .come mai? Non tardò a saperlo.

L'anno prima un vagabondo era passato di lì e la donna lo aveva sfamato. Nel ripartirsene, quello le aveva detto: "Sii felice!" "Come posso esser felice, gemette lei, se non ho bambini?" "Li avrai" , la rassicurò il vagabondo riprendendo la strada e, sissignori, il primo bambino non aveva tardato ad arrivare.

A sentire la cosa il fachiro si rabbuiò tutto in viso e non vedeva l'ora di ritrovarsi da solo in preghiera per esprimere ad Allah il proprio risenti­mento: quanto e quanto egli aveva pregato per la felicità di quella donna, ma nulla era mai successo! Adesso, invece, un rozzo vaga­bondo apre la bocca, dice una parola e la donna ottiene la grazia! Rispose Allah: "Un giorno, dal ciglio della strada, un povero paralitico ti aveva chiesto l'elemosina. Tu gli rispondesti: 'Non vedi che non ho nulla? Vuoi forse il sangue delle mie vene?' Poco dopo passò davanti allo stesso paralitico anche colui che tu chiami un rozzo vagabondo. Anche a lui il paralitico stese la mano; ebbene, il vagabondo, fermatosi, rispose: 'Vedi, non ho nulla, ma, se potessi, ti darei il sangue che ho nelle vene'. Caro fachiro mio, il parlare di quel vagabondo mi piace assai e appena egli apre bocca io non posso trattenermi dal prestargli attenzione!"

Per chiarire un po' la cosa, aggiungerò che i sannyassi e i fachiri, oltre che essere persone di vita ascetica, di solito sono anche ferrati nelle rispettive scritture e nella saggezza delle rispettive culture. Invece la classica immagine di un vagabondo di questi paesi è quella del pove­r'uomo che ha un po' dello sbandato, del mendicante, del fannullone e dell'eterno convalescente: non ha casa, mangia e vive come può. In questi ultimi anni il numero dei vagabondi quaggiù è stato in aumento per un'aggiunta curiosa di nuovi venuti; dicono i giornali che uno stuolo di circa 18 mila giovani e non più giovani occidentali, maschi e femmine, vivono sulle gradinate degli edifici pubblici delle grandi metropoli del­l'India. Questi vagabondi di lusso erano venuti quaggiù perché disgu­stati delle magagne dell'Occidente; di fatto sono venuti ad aumentare quelle dell'Oriente.