La composizione anticipata delle controversie giudiziarie: tra “vecchi” e “nuovi” interventi legislativi

Post date: Mar 20, 2010 4:16:30 PM

Il presente contributo prende spunto dalla recente entrata in vigore del Dlgs n. 28/2010 che ha istituito la “mediazione per le controversie civili e commerciali” e cerca di fare una lettura più o meno precisa, sebbene in ordine sparso e non necessariamente cronologico, dei vari interventi che il legislatore, nel corso degli anni, ha effettuato in materia al fine di consentire una definizione anticipata delle controversie giudiziarie civili deflazionando (o almeno tentando di farlo) il carico giudiziario pendente nei Tribunali.

Tale argomento appare forse oggi di ancora maggiore attualità considerate le recenti statistiche in materia di giustizia civile ed i tempi ormai enormemente dilatati per ottenere una pronuncia giudiziale tristemente noti sia ai privati cittadini che agli operatori del diritto.

Va detto però che se tale situazione costituisce la premessa e, dunque, forse la ragione che da sempre ha animato il legislatore nel tentativo di risolvere in maniera anticipata le controversie prima del loro stesso sorgere, ciò non toglie allo strumento della “mediazione” il suo oggettivo valore sia in termini di risparmio di tempo che economici con grandi benefici per tutte le parti in causa.

Il problema sta nel fatto che, sino ad oggi, tutte le esperienze maturate (soprattutto quando previste come obbligatorie per legge) non hanno consentito alla mediazione di svolgere il suo ruolo “benefico” di risposta rapida alle esigenze di giustizia ed anzi hanno forse costituito un ulteriore allungamento dei tempi divenendo nella maggior parte dei casi solo un “male necessario” prima dell’introduzione del giudizio vero e proprio.

Lungi dall’esprimere un giudizio di merito sui risultati della recente introduzione normativa, ci si propone, dunque, unicamente di valutarne l’opportunità all’interno di un contesto più ampio ed alla luce della strada percorsa sino ad oggi in materia.

Nel nostro ordinamento il termine “conciliazione” ha una storia piuttosto antica, essendo stata introdotta la figura onoraria del Giudice Conciliatore sin dall’Ordinamento giudiziario del 1865.

Tale figura il cui ruolo è rimasto quasi del tutto invariato sino alla riforma del 1995 (istitutiva dei Giudici di Pace) che ne ha fatto cessare le funzioni, era investita di due funzioni principali: comporre le controversie quando ne veniva fatta richiesta dalle parti (funzione conciliativa) e giudicare le controversie (funzione giurisdizionale).

Il Giudice conciliatore aveva, dunque, due sfere di azione, quella di prevenire le liti, ma anche quella di giudicare quelle controversie di modesto valore (fino ad un milione di lire).

Nel corso degli anni e, soprattutto a partire dal dopo guerra la funzione giurisdizionale ha, però, di fatto prevalso su quella di conciliazione risultando sempre più rari i casi in cui le parti si rivolgevano al conciliatore al fine di evitare l’insorgere di una controversia.

Sin da tempi ormai remoti, dunque, statisticamente l’istituto della conciliazione in sede non contenziosa, probabilmente anche a causa della mancanza di una cultura della conciliazione, non ha mai avuto grande successo nel nostro Paese.

Ciononostante il legislatore ha inteso creare dopo un lungo e difficile iter legislativo la nuova figura del Giudice di Pace, sempre inteso sia come figura giudicante che conciliativa.

Anche in questo caso le statistiche insegnano però che, sin dalla sua istituzione, il Giudice di Pace è stato ben poche volte utilizzato come organo conciliatore da adire con apposita istanza ex art. 321 c.p.c. al di fuori di un giudizio vero e proprio.

E’ anche vero che nel nostro ordinamento, nell’ambito di ciascun giudizio già introdotto (e quando ciò sia possibile) esiste la possibilità di definire in via anticipata le controversie.

Si pensi al tentativo di conciliazione dinanzi al giudice civile di merito, al giudice della separazione tra coniugi ed a quello dinanzi al giudice di Pace in funzione contenziosa, ma anche in tal caso le possibilità di successo della mediazione non sono mai state certamente incoraggianti anche perché spesso in molti casi neppure sperimentate o proposte, nè dagli organi giudicanti, né tantomeno dalle parti.

Ciò premesso risulta, dunque, evidente che non vi è mai stata particolare predisposizione, nell’ambito del nostro Paese ad un tentativo di conciliazione “facoltativo” prima dell’insorgere delle controversie, né tantomeno questo è stato incentivato o promosso (sebbene previsto per legge) a giudizio ormai avviato.

Fatta tale considerazione meritano, dunque, attenzione alcuni interventi legislativi volti, invece, a condizionare la proposizione dell’azione giudiziaria all’esperimento o di tentativi di conciliazione o, comunque, all’avvio di specifiche procedure.

Si pensi tra tutte, in ordine cronologico, alla previgente disciplina in materia di risarcimento del danno derivante dalla circolazione dei veicoli di cui all’art. 22 della legge n.990/69 la quale prevedeva che poteva essere promossa azione legale contro l’assicuratore soltanto dopo che fossero decorsi sessanta giorni dalla richiesta formulata a mezzo di raccomandata a.r.

Tale normativa ora modificata dall’entrata in vigore del Codice delle Assicurazioni Private (istitutivo tra l’altro della procedura di risarcimento diretto per i soli casi previsti dalla legge) aveva, dunque, la funzione principale di limitare le controversie giudiziarie in materia di sinistri stradali, concedendo alle parti (danneggiato e assicuratore) un lasso di tempo (60 giorni) al fine di intavolare trattative per la quantificazione del risarcimento dei danni subiti.

L’attuale sistema di cui al Dlgs. 209/2005 (Codice delle Assicurazioni Private) ha reso la procedura particolarmente più complessa distinguendo varie ipotesi e, comunque, in caso di danno alla persona allungando il termine da 60 a 90 giorni.

In entrambi i casi la richiesta di risarcimento (e secondo la disciplina in vigore anche la correttezza formale e sostanziale della stessa) costituiscono condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

E’ questo, dunque, il primo caso in cui il legislatore italiano ha provato ad istituzionalizzare una articolata procedura (sebbene non tecnicamente qualificabile come tentativo di conciliazione) come obbligo necessario prima dell’introduzione di un giudizio di risarcimento danni.

La pratica dimostra però che, sia con la vigenza del vecchio che del nuovo sistema le cause di risarcimento danni per sinistri stradali sono aumentate in maniera esponenziale tanto da giustificare una competenza più elevata per valore (limitata solo a queste ipotesi di azioni) al Giudice di Pace (recentemente ulteriormente aumentata) e deflazionare così il carico dei Tribunali, già oberati da altre controversie giudiziarie.

In tempi successivi il legislatore si è spinto oltre parlando di vero e proprio tentativo obbligatorio di conciliazione nell’ambito del processo del lavoro.

Con la riforma del 1998, infatti, prima di introdurre un giudizio in materia di rapporti di lavoro è diventato necessario esperire un tentativo di conciliazione presso la commissione provinciale competente a pena di improponibilità della domanda.

Sebbene tale istituto abbia in minima parte deflazionato i ruoli delle sezioni lavoro dei Tribunali italiani, il contenzioso in tale materia rimane ancora molto elevato e, di fatto, l’esperienza del tentativo di conciliazione non si può certo dire che sia stato un rimedio particolarmente efficace soprattutto in quei casi in cui il datore di lavoro non intenda nemmeno presentarsi dinanzi alla Commissione conciliativa.

Non solo, ma anche la stessa procedura conciliativa non è mai stata particolarmente efficace ed incisiva anche a causa dei tempi piuttosto lunghi per la sua effettuazione e, comunque, superiori a quelli previsti dalla legge (dieci giorni dalla richiesta) e, dunque, per il lavoratore, decorsi 60 giorni dall’istanza anche senza che il tentativo sia esperito, il rimedio giudiziario diventa l’unica alternativa possibile.

Di recente (con disegno di legge del Senato del 3.03.2010), ed in maniera probabilmente, non coordinata con le altre riforme recentemente approvate, il legislatore ha inteso eliminare l’obbligatorietà di tale istituto avendola resa meramente facoltativa ed aprendo così la possibile strada ad un ulteriore aumento del contenzioso già in atto.

Tra gli altri interventi normativi in materia di conciliazione va segnalata anche la legge n. 249/97 (aggiornata poi da diversi regolamenti attuativi) che ha istituito il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie con le compagnie telefoniche.

Tale disciplina, rimasta per anni, di fatto, non attuata ha cominciato ad ottenere una maggiore visibilità con l’istituzione a livello regionale dei Corecom (comitati regionali per le comunicazioni) e con il diffondersi delle associazioni dei consumatori.

Anche in tal caso la procedura di conciliazione ha comportato non pochi problemi e difficoltà, causati tra gli altri dalla dislocazione dei comitati (solo nei capoluoghi), dalla durata della procedura (ben oltre i trenta giorni previsti dalla legge) e dalla poca chiarezza normativa (regolamento in vigore) ove si legge che “sono rimesse alla competenza dell’Autorità le controversie in materia di comunicazioni elettroniche tra utenti finali ed operatori, inerenti al mancato rispetto delle disposizioni relative al servizio universale ed ai diritti degli utenti finali stabilite dalle norme legislative, dalle delibere dell’Autorità, dalle condizioni contrattuali e dalle carte dei servizi”.

Una simile dizione rende, dunque, estremamente ampia la casistica delle controversie, incidendo così sul numero e sui tempi per l’effettuazione dei tentativi di conciliazione.

Se si aggiunge l’atteggiamento spesso non conciliativo degli operatori telefonici e la possibilità che gli stessi nemmeno si presentino alle sedute conciliative, decorsi i termini previsti dalla legge (trenta giorni decorrenti dalla data di proposizione dell’istanza) la via giudiziaria spesso rimane per l’utente l’unica possibilità di tutela.

In queste condizioni, dunque, il tentativo di conciliazione non costituisce più una forma di tutela per la parte debole e perde la sua funzione essenziale di celerità nella risoluzione delle insorgende controversie.

A parere di chi scrive, tra i timidi tentativi di fornire ulteriori strumenti ad una risoluzione anticipata delle controversie va segnalato anche l’art. 696 bis c.p.c. introdotto con la “mini riforma” del 1996 del codice di procedura civile.

L’articolo citato ha, infatti, inserito la nuova figura della consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite che, a differenza del vecchio (ma ancora in vigore) accertamento tecnico preventivo, consente al consulente nominato dall’autorità giudiziaria non solo di “accertare lo stato dei luoghi o la qualità delle cose” ma anche di entrare nel merito delle cause poste alla base di eventuali rivendicazioni giuridiche della parte proponente, aiutando così le parti nell’ambito di un procedimento non contenzioso a trovare eventuali soluzioni transattive.

Sebbene chi scrive non sia a conoscenza di dati statistici relativi alla funzionalità di tale istituto, nell’esperienza professionale, può affermare che si è spesso rivelato uno strumento utile a far incontrare le parti e ad accertare in maniera non contenziosa aspetti controversi (soprattutto in ambito tecnico) facendo risparmiare (anche nelle ipotesi di mancato raggiungimento di un accordo) tempo su successive indagini istruttorie di un giudizio di merito.

Nonostante quanto sino ad ora detto costituisca un quadro non certamente positivo (e certamente non esaustivo) dell’esperienza della conciliazione anticipata rispetto all’insorgenda controversia giudiziaria, con dlgs n. 28/2010, come detto in premessa, il legislatore ha provato probabilmente ad imprimere una vera e propria svolta in materia.

Il decreto appena richiamato (pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 53 del 5 marzo 2010), ed entrato in vigore in data odierna ha introdotto il procedimento di mediazione per la conciliazione nelle controversie civili e commerciali, fissando, peraltro, anche in capo agli avvocati una serie di obblighi.

All'atto del conferimento dell'incarico, l'avvocato ha, infatti, l'obbligo di informare il proprio assistito:

1) dell'esistenza del procedimento di mediazione disciplinato dal D.Lgs. n. 28/2010 e delle relative agevolazioni fiscali previste dagli articoli 17 e 20 D.Lgs. cit. (esenzione da bolli, tasse, imposta di registro, ecc.);

2) che l'esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale nelle materie di cui all'art. 5, co. 1, D.Lgs. cit. (a titolo meramente esemplificativo: condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica).

Va precisato però che l’improcedibilità, ai sensi dell’art. 24 sarà in vigore il 20 marzo del 2011, mentre l’obbligo relativo all’informazione sulla mediazione facoltativa è entrato in vigore unitamente al provvedimento legislativo.

Sebbene sia troppo presto per effettuare delle valutazioni sull’efficacia di tale istituto, anche in virtù di quanto sopra esposto è però possibile individuare alcune aree di criticità del provvedimento.

In primo luogo va detto che in un contesto nazionale dove non appare certamente dominante la “cultura” della mediazione, imporre la conciliazione non è certamente la modalità più educativa al fine di far comprendere ai cittadini le potenzialità di tale istituto.

Sempre in tale contesto l’obbligo del tentativo prima di introdurre la domanda, in assenza di una adeguata formazione degli operatori e dei cittadini così come già avvenuto per le cause di lavoro e per le controversie in materia di telecomunicazione, piuttosto che favorire l’incontro delle parti rischia di diventare un inutile passaggio volto ad allungare ulteriormente i tempi già drammaticamente dilatati della giustizia civile.

Prima di introdurre tale disciplina sarebbe stato anche opportuno meglio chiarire quali siano gli organismi deputati alla conciliazione e stabilire un rigido criterio di selezione e di scelta al fine di evitare che chiunque previa frequenza di appositi corsi di formazione possa qualificarsi come mediatore.

Non appare, infatti, sufficiente che il decreto richieda per gli organismi i generici criteri di “garanzia” e “serietà”, rimettendo al Ministero una vigilanza sul registro dei mediatori che, come per altre categorie, rischia di essere semplicemente formale.

Né di poco rilievo appare la questione dei costi che teoricamente potrebbero variare a seconda dell’organismo di conciliazione adito causando ciò evidenti discriminazioni tra gli utenti.

Allo stesso modo insufficiente appare la tutela economica delle parti riconosciuta come credito di imposta soltanto in caso di successo della mediazione e con utilizzo del “Fondo unico Giustizia”, fondo che, proprio per la sua “unicità” appare di scarsa funzionalità con il rischio di divenire anche incapiente.

Non solo, ma di fatto, potendo sempre una delle parti rifiutare la conciliazione risulta evidente che si potrebbe, comunque, arrivare al giudizio civile senza che il tentativo non si sia neppure esperito.

Va detto, dunque, in conclusione che sebbene l’idea della risoluzione anticipata delle controversie appaia certamente condivisibile al fine di garantire all’utente finale, sia un risparmio di tempo che di denaro nelle modalità in cui viene oggi proposta sembra avere ancora alcune aree di criticità che, nel contesto attuale, non appaiono di facile risoluzione.

Il tempo e l’esperienza forniranno ulteriori elementi senza che ciò possa però esimere chi opera nel campo del diritto da un continuo e costante impegno formativo, al di là delle soluzioni normative proposte, volto, comunque, a favorire soluzioni rapide ed efficaci delle potenziali liti tra le parti.

In mancanza di tale impegno, vista l’attuale situazione in cui versano gli uffici giudiziari ed in assenza di organiche riforme di sistema, sarà sempre più difficile soddisfare in maniera efficace la domanda di giustizia dei cittadini con il semplice ricorso alle forme tradizionali di contenzioso.