Il patto di quota lite

mercoledì 25 luglio 2018 di Emilio Curci

Spesso si sente parlare di "patto di quota lite" come forma convenzionale di determinazione del compenso tra avvocato e cliente, ma occorre anche chiedersi se e quando è lecito applicarlo e soprattuto in quali forme è ammesso dalla legge.

Per una corretta soluzione della questione occorre preliminarmente effettuare un seppur breve excursus normativo sulle modalità di determinazione del compenso degli avvocati, dall'origine fino alle più recenti modifiche introdotte dalla legge n. 247/2012, più nota come “riforma della professione forense”.

Il divieto del patto di quota lite trae la sua origine nell’articolo 2233 comma 3 del Codice Civile che così statuiva: “gli avvocati, i procuratori e i patrocinatori non possono, neppure per interposta persona, stipulare con i loro clienti alcun patto relativo ai beni che formano oggetto delle controversie affidate al loro patrocinio, sotto pena di nullità e dei danni”.

Di converso l’art. 45 del Codice deontologico forense richiamava tale concetto affermando che:

È vietata la pattuizione diretta ad ottenere, a titolo di corrispettivo della prestazione professionale, una percentuale del bene controverso ovvero una percentuale rapportata al valore della lite.

È consentita la pattuizione scritta di un supplemento di compenso, in aggiunta a quello previsto, in caso di esito favorevole della lite, purché sia contenuto in limiti ragionevoli e sia giustificato dal risultato conseguito."

La norma civilistica sopra citata (l’art. 2233) viene poi modificata nell’anno 2006 a seguito della c.d. “Riforma Bersani” con il seguente testo: “sono nulli, se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati ed i praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali”.

Con questa nuova formulazione cade, dunque, il divieto assoluto di pattuizioni relative a beni che formano oggetto dell’attività espletata dall’avvocato (tra le quali, ad esempio, il denaro) e viene inserita una previsione generale di ammissibilità dei patti tra avvocati e clienti relativi ai compensi professionali, originariamente non ammessa.

Ad una prima lettura non viene, perciò, espressamente soppresso il divieto del patto di quota lite, ma sono ammesse, in via generale, le pattuizioni relative ai compensi professionali purchè le stesse siano redatte in forma scritta.

La generale modifica della norma originaria, però, con l’eliminazione del divieto esplicito e preciso concernente i patti relativi a beni che formano oggetto della controversia, di fatto consente di far rientrare, tra questi in maniera lecita, anche il patto di quota lite e, dunque, i patti sui compensi parametrati ai risultati da conseguire.

Va però ricordato che, nonostante la modifica dell’art. 2223 comma 3 del Codice Civile operata dal decreto Bersani, è sempre rimasto in vigore il divieto generale di cessione di diritti e crediti litigiosi previsto dall’articolo 1261 Cc, di cui il divieto di patto di quota lite costituiva appunto un’applicazione peculiare.

L’articolo 1261 del Codice Civile è, infatti, quella norma che fa espresso divieto ai magistrati, ai cancellieri, agli ufficiali giudiziari, ai notai ed agli avvocati, patrocinatori o procuratori di “rendersi cessionari di diritti sui quali è sorta contestazione davanti all'autorità giudiziaria (...) nella cui giurisdizione esercitano le loro funzioni, sotto pena di nullità e dei danni”.

Da ciò ne consegue che i patti con cui si cedono diritti giudizialmente contestati all'avvocato sono nulli e rimangono tali anche a seguito dell’entrata in vigore della nuova disciplina di cui all’articolo 2233 comma 3 C.C. e ciò, in ragione di principi di disciplina e di onore nell’esercizio delle funzioni pubbliche da parte dei soggetti sopra descritti.

Proprio a causa della novella normativa sopra citata (l’art. 2223 C.C.), ha subito variazioni anche il Codice deontologico forense ed in particolare l’art. 45 che, come detto sopra, originariamente vietava la possibilità di accordi sul compenso e che, a seguito del Decreto Bersani era stato, invece, modificato consentendo all’avvocato di “pattuire con il cliente compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, fermo il divieto dell’art. 1261 c.c. e sempre che i compensi siano proporzionati all’attività svolta, fermo il principio disposto dall’art. 2233 del Codice Civile”.

Sul punto si è espresso anche il Consiglio Nazionale Forense, con la Circolare 22/2006 del 4 settembre 2006, precisando che "dal punto di vista civilistico, il patto è valido se rispetta l'onere della forma scritta; esso può avere effetti solo tra le parti; non può essere opposto ai terzi, neppure in giudizio, non quindi nei confronti della controparte del cliente, né può essere richiesto al giudice, in caso di liquidazione del compenso e delle spese, che si attenga al patto".

Con riferimento ai rapporti tra avvocato e cliente, il Consiglio Nazionale Forense ha inoltre, precisato che: “l'avvocato può chiedere al giudice di liquidare il proprio compenso secondo quanto stabilito nel patto (che, civilisticamente parlando, è valido), ma come sopra si è detto il suo comportamento può essere segnalato all' Ordine di riferimento perché ne controlli la correttezza deontologica con riguardo alla proporzionalità del compenso rispetto all'attività prestata”.

In relazione al patto di quota lite il Consiglio Nazionale Forense, con la citata Circolare, ha rilevato, infatti, che "la disposizione in esame è stata intesa anche come tale da legittimare il patto di quota lite, dal momento che essa ha sostituito il testo dell'articolo 2233 previgente del c.c. L'abrogazione non è effettuata nel senso di sopprimere direttamente ed espressamente il divieto del patto di quota lite; la disposizione si riferisce infatti in generale ai patti sui compensi.

Tuttavia, la sostituzione implica che viene meno il divieto esplicito e preciso concernente i patti "relativi a beni che formano oggetto della controversia".

Pertanto, ove dovesse maturare una interpretazione permissiva, occorre segnalare che la nuova disciplina non ha abrogato un'altra disposizione del Codice Civile, l'articolo 1261 che fa divieto ( tra gli altri soggetti, anche ) ad avvocati e patrocinatori di «rendersi cessionari di diritti sui quali à sorta contestazione davanti all'autorità giudiziaria (...) nella cui giurisdizione esercitano le loro funzioni,sotto pena di nullità e dei danni».

I patti con cui si cedono diritti dal cliente all'avvocato suo difensore sono dunque nulli e rimangono tali anche a seguito della entrata in vigore della nuova disciplina.

Per verificare – civilisticamente – la validità di un patto concluso tra avvocato e cliente il cui oggetto sia il compenso professionale sotto forma di patto di quota lite, occorre distinguere caso da caso.

Ed ancora il Consiglio Nazionale Forense ha affermato che si possono infatti distinguere:

1) il patto di quota lite nella configurazione frutto di una lettura estensiva dell' articolo 2233, comma 3, c.c e cioè come patto col quale si stabilisce un compenso correlato al risultato pratico dell'attività svolta e comunque in ragione di una percentuale sul valore dei beni o degli interessi litigiosi; un patto di tal natura deve ritenersi ora civilisticamente legittimo giusta la previsione del comma 1, lettera a) dell'articolo 2 della legge di conversione;

2) il patto di quota lite nella configurazione definibile come classica cioè quella anche semanticamente coerente con il divieto ex articolo 2233, comma 3, c.c, nel testo previgente: questo tipo di patto deve ritenersi tuttora civilisticamente vietato e nullo ex articolo 1418 c.c nella misura in cui il suo assetto concreto replica la previsione dell'articolo 1261 c.c e cioè quante volte esso realizzi, in via diretta o indiretta, la cessione del credito o del bene litigioso;

Sul piano deontologico, tuttavia per effetto di quanto si è detto sub (i) la norma dell'articolo 45 del codice deontologico forense va adeguata – ex articolo 2, comma 3, legge cit. – limitatamente a quella sua parte in cui si vieta la pattuizione di un compenso in percentuale rapportata al valore della lite;

- per effetto di quanto detto sub (ii) la norma dell'articolo 45 del codice deontologico forense non va adeguata non essendo in questo caso la configurazione del patto di quota lite ricompresa nel novero di quelle rese lecite dal comma 1 dell'articolo 2 legge cit.; essa andrà semmai specificata nel senso che l'illiceità deontologica del patto sussiste a misura che esso realizzi, direttamente o indirettamente, la cessione di un credito o un bene litigioso".

Dunque, anche il Consiglio Nazionale Forense nella vigenza delle norme introdotte dal Decreto Bersani, ha affermato la validità del patto di quota lite, pur stando attento a sottolineare che la sua liceità va valutata caso per caso con riferimento all’eventuale violazione dell’art. 1261 C.C. ed al criterio della proporzionalità delle richieste rispetto all’opera prestata.

In tale contesto, di fatto in vigore fino al mese di febbraio 2013, è successivamente intervenuta la legge di riforma forense che ora, all’art. 4, espressamente vieta i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa.

In particolare i commi dell’art. 4 della legge 247/2012 che si occupano del problema recitano come segue:

3. La pattuizione dei compensi è libera: è ammessa la pattuizione a tempo, in misura forfetaria, per convenzione avente ad oggetto uno o più affari, in base all'assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per l'intera attività, a percentuale sul valore dell'affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione.

4. Sono vietati i patti con i quali l'Avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa.

Il comma 4 si preoccupa, dunque, di limitare il contenuto delle pattuizioni tra avvocato e cliente, vietando appunto i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa.

Se è vero che il patto di quota lite è la pattuizione con cui avvocato e cliente convengono che, quale compenso per l’opera prestata, venga riconosciuta dal cliente all’avvocato una percentuale del bene controverso o del valore dello stesso e, posto che il comma 3 articolo 13 della novella ammette espressamente la pattuizione a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene il destinatario della prestazione, il patto vietato dal comma considerazione deve intendersi come un patto che determini il compenso pro quota con specifico riferimento al bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa.

In altri termini, rimangono validi i patti sui compensi parametrati ai risultati conseguiti, aventi ad oggetto, non una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa, ma una percentuale del valore del bene controverso o del bene stesso.

Ciò risulta, peraltro, espressamente confermato dal comma 3, articolo 13 che tra i possibili contenuti della pattuizione tra cliente e avvocato fa rientrare anche la percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene il destinatario della prestazione.

In conclusione dunque, nella vigenza delle modifiche normative all’art. 2233 così come effettuate dal Decreto Bersani (fino a febbraio 2013) risultava, di fatto, possibile utilizzare il patto di quota lite inteso come modalità di determinazione del compenso in percentuale su quanto effettivamente ricavato (pur nei limiti tracciati dall’art. 1261 C.C.), mentre allo stato attuale, è possibile sì utilizzare tale patto in misura percentuale, ma non più in ragione della somma effettivamente incassata dal cliente, bensì a priori, in base al valore degli interessi in gioco o, comunque su quanto si ipotizza possa giovarsene (non soltanto in misura economica la parte).

In ogni caso si aggiunga che, indipendentemente dall’utilizzo di qualsiasi criterio per la determinazione del compenso, quest’ultimo a norma dell’art. 45 del Codice Deontologico e dell’art. 2233 C.C. doveva e deve tuttora essere sempre proporzionato all’attività svolta.