I fatti parlano chiaro: lo scorso 25 maggio, nella città di Minneapolis, in Minnesota, George Perry Floyd, un uomo afroamericano di soli 46 anni, smette di respirare. La causa del suo decesso è riconducibile ad un’ostruzione del normale flusso sanguigno che dalla zona del collo si muove verso il cervello. Tale evento causato da un ginocchio puntato sul suo collo, nella zona della nuca, porta l’uomo di colore disteso a terra supino a morire per asfissia.
Questa è la storia. Da quest’evento, si dipanano quelle due linee di cui specificato sopra: da un lato l’azione eversiva scompaginatoria dell’attante di fatti e dall’altro la narrazione riflessiva/fondatrice di giudizi. Ma se queste linee binarie si trovassero a con-fondersi l’una con l’altra?
Se la narrazione si trovasse a coincidere con la partecipazione?
Ed è proprio nel 2 giugno appena passato, che questo collasso avviene attraverso la pubblicazione di un’immagine, la cui potenza esplicativa, per l’ennesima volta nel nostro oggi, è soggetto/oggetto di azioni. Proprio in quella data, la timeline del giorno si riempie di quadrati neri con un particolare hashtag: #blackouttuensday. Oltre a sottolineare il carattere di rilevante potere che Instagram gioca all’interno dell’ecosistema dei media, il suddetto quadrato nero ci dice molte cose. L’immagine è frutto di una prima condivisione fatta da due donne di colore che lavorano nel marketing musicale, Jamila Thomas e Brianna Agyemang, sotto l'hashtag #TheShowMustBePaused. La protesta era diretta principalmente all'industria musicale che negli ultimi anni ha tratto profitto principalmente da artisti afroamericani (ad esempio nella classifica degli album di Billboard, gli artisti neri hanno ottenuto il primo posto per 11 delle ultime 13 settimane - e occupano quattro delle prime 5 posizioni di questa settimana); il quadrato nero è stato quindi postato dalle principali major discografiche e società come Spotify, Live Nation, Apple che operano nella musica. A questa iniziativa hanno aderito subito artisti del calibro Rihanna, Quincy Jones, Yoko Ono, Rolling Stones, diffondendosi ben oltre la musica sotto il vessillo #blackouttuensday postando il quadrato nero come se partecipassero a un charity show. L’effetto mediatico di tale gesto è stato molteplice: da una parte un gran numero di persone ha continuato la diffusione dell’immagine per tutto il giorno e per quelli successivi, dall’altra molte di queste, usando l’hashtag #blackslivesmatter ha dato vita ad un movimento di autocensura sulla pagina Instagram delle proteste degli afroamericani, facendo nascere inutili sospetti complottisti sulla possibilità che quest’errore minimo potesse essere stato pilotato dalle lobby bianche contrarie alla causa. Al di là dei risvolti ambigui che sembrava avesse potuto avere tale azione, la cosa più importante è soffermarci sul collasso avuto fra narrazione e partecipazione in questo frangente di storia. Si è usata un’immagine, un’entità narrativa, per partecipare, un linguaggio universale per fare azione. Oltre alla portata di significati che tale meccanismo comporta, la cosa che più ci riguarda del nostro oggi è l’aver usato un’immagine virtuale per aderire alla partecipazione reale di una causa. Ed ecco che oltre a collassare l’agire e il giudizio, per l’ennesima volta, anche reale e virtuale si dimostrano essere la medesima cosa. Ciò che ha risvolto nel mediale è direttamente implicato nella vita. Pubblicare nella mia pagina Instagram un quadrato nero e apporci l’hashtag corretto, fa di me un partecipante attivo alle proteste afroamericane, tanto quanto quelli che si scontravano con la polizia, imbrattavano statue, rompevano le vetrine di negozi. Nel nostro mondo la guerra e la rivoluzione si gioca attraverso l’uso intelligente dell’hashtag. Si aprono quindi parentesi di riflessioni su come ci raccontiamo, su come ci attiviamo nella vita e su come pensiamo. Tutte hanno in comune un uso omnicomprensivo dell’immagine che si fa grado zero, che supera i limiti del linguaggio locale per farsi globale creando un terreno condiviso da tutti che forse dovrebbe superare razzismi e ideologie dell’esclusione. Questo ennesimo quadrato nero si inscrive in una storia che da Malevic ha portato un grado zero di pensiero, donando a questa forma una misticità tale da permeare anche attraverso la medialità dei social media. Un ennesimo quadrato nero che di nuovo racchiude in sé azioni, persone e narrazioni e che anche se non più posizionato nell’angolo di una stanza (anch’essa quadrata) per fargli assumere un valore iconico sovra-aumentato, viene ricondiviso nel nostro nuovo ambiente del sacro, che fa di lui protagonista indiscusso per un breve lasso di tempo. Un ennesimo quadrato nero.. che forse ennesimo non è mai stato.