Udine, 2019: quattro isole che lavorano singolarmente e non sinergicamente sono l’oggetto della questione. Quanto avrà senso di esistere, anche solo tra qualche lustro, un blocco commerciale come quello del Città-Fiera, costruito e pensato alla maniera dei “mall” americani, che sono già al giorno d’oggi in grande crisi? Come ripensare e riattivare l’ente fieristico, che da anni versa in condizioni poco fortunate? Come rendere tra di loro solidali e cooperativi i due siti dello stadio e dell’università, volani locali dell’economia e della cultura in senso ampio? Quello di Udine è un problema annoso per la città contemporanea, la cui unica soluzione è forse il continuo tentativo di ricerca di una maggiore commistione tra le varie parti operanti al posto di una, maggiormente presente, frammentazione.
Commistióne: sostantivo femminile (dal latino tardo commixtio/-onis, derivato di commixtus). Letteralmente: unione, fusione, mescolanza di due o più cose o elementi; si dice più spesso di cose non materiali: c. di popoli, c. di razze animali; una c. di argomenti eterogenei (Treccani).
Una volontà, quindi, di commistione per superare un’oggettiva e presente, anche se molte volte malfunzionante, frammentazione. Lo spiega bene Bernardo Secchi (1934-2014) nella sua Prima lezione di urbanistica, in particolar modo nel capitolo V. Città moderna e città contemporanea: a seguire si riportano parti del testo in questione.
“Il mondo contemporaneo, benché più libero, appare invece a molti confuso, dominato dal caos, privo di forme, incomprensibile e imprevedibile; causa perciò di un nuovo e diffuso malessere individuale collettivo […]” (tratto da Prima lezione di urbanistica, B. Secchi, op. cit., p. 75).
“Nelle descrizioni di urbanisti, sociologi, antropologi, etnologi ed economisti ci si affida generalmente a termini dotati di una grande latitudine semantica come frammento, eterogeneità, discontinuità, disordine, caos […]. Grazie al potere evocativo e costruttivo di questi termini, la città contemporanea appare ai più come un confuso amalgama di frammenti eterogenei, nel quale non è possibile riconoscere alcuna regola d’ordine, alcun principio di razionalità che la renda intelligibile. Henry Miller disse però una volta che “confusione” è parola inventata per indicare un ordine che non si capisce” (ibidem, p. 77).
“Interpretata spesso come dispersione caotica di cose e soggetti, di pratiche e di economie, la città contemporanea, alle diverse scale dello spazio fisico, sociale, economico, istituzionale, politico e culturale, appare connotata da un medesimo grado di frammentarietà, esito di razionalità molteplici e legittime, ma spesso semplicemente accostate le une alle altre, percorsa da confini tanto invisibili quanto difficili da valicare. I diversi tasselli della città contemporanea, le loro dimensioni, la distanza reciproca, l’epoca di costruzione, i loro abitanti ci mostrano una città fatta a pezzi che, alle diverse scale, affida la propria organizzazione, la riconoscibilità e leggibilità della propria forma a un variegato insieme di strutture che, in una sorta di sincretismo popolare, fanno riferimento a principi e prototipi diversi. (…) Le attrezzature collettive divengono così isole separate dal contesto urbano (…) le nuove attrezzature si sono disperse in un territorio sempre più immaginato come un grande campus, un parco di oggetti e frammenti di città isolati e liberamente disposti nel verde. Nella città contemporanea tutto è diventato parco: parco tecnologico, parco dei divertimenti, parco degli uffici, parco tematico” (ibidem, pp. 79, 89, 93).
“Può darsi che gli uomini” - così come la loro opera collettiva, ovvero la città - “siano divenuti come i porcospini di Schopenhauer: quando l’inverno è freddo i porcospini cercano un po’ di calore stringendosi tra loro, ma gli aculei dell’uno si conficcano nella carne dell’altro. I porcospini allora si allontanano e sono ripresi dal freddo. Avvicinandosi e distaccandosi, distaccandosi e avvicinandosi, per successivi tentativi, essi trovano alla fine una giusta distanza alla quale non provano né troppo freddo, né troppo dolore. La città contemporanea, città ancora instabile, è forse alla ricerca della giusta distanza” (ibidem, pp. 84-85).
“La dismissione appartiene alla storia della città; sia come fenomeno continuo di sostituzione, sia come abbandono repentino che d’improvviso cambia la geografia urbana” (ibidem, p. 95).
Sud America, alba di mercoledì 23 ottobre, 1929. Le Corbusier sale sul nuovissimo dieci posti della Compagnia Sudamericana di Navigazione Aerea, pilotato dall’”imperturbabile, sorridente” Capitano Almonacid, il direttore stesso della compagnia. L’aereo decolla da Buenos Aires e s’innalza su un Paese immenso, “dimensionato per l’aereo”; passa sul delta del Paranà, formicolante di canali e affollato di pioppi disposti a formare piccolissimi recinti che, visti dall’alto, ricordano le incisioni italiane o francesi del Rinascimento nei trattati sull’arte dei giardini; poi risale ora il corso dell’Uruguay, sorvola il Paraguay alla confluenza col Paranà [...]. Durante il viaggio l’architetto, completamente assorbito dallo spettacolo che si svolge sotto i suoi occhi, non ha tracciato uno schizzo né abbozzato una nota. [...] Le Corbusier sa che ben presto assisterà nuovamente al medesimo spettacolo. Infatti, dopo un soggiorno di un giorno e mezzo in città [Asunciòn] - del quale restano alcuni schizzi di donne con i loro costumi tipici [...] - l’aereo decolla nuovamente alla volta di Buenos Aires; adesso il maestro ha in mano matita e taccuino e per prima cosa disegna ciò che lo aveva maggiormente impressionato durante il viaggio precedente: il corso dei fiumi. [...] Un corso d’acqua scorre sul terreno piatto in linea retta, seguendo la linea di maggior pendenza; il suo “scopo” è, partendo dalla sorgente, raggiungere il mare. Poi, a un tratto, un ostacolo ne impedisce la discesa; per aggirarlo il corso d’acqua devia a destra o a sinistra; per reazione, alla prima deviazione ne segue una seconda, nella direzione opposta e così via, finché il corso prende una forma di “esse”: comincia il gioco dei meandri; la corrente scava la riva esterna della curva e lascia accumulare i depositi alluvionali su quella opposta, creando un sempre maggiore approfondimento delle anse. Il fiume segue ora un corso terribilmente intricato, irragionevole. Ma quando la complicazione, l’irragionevolezza hanno raggiunto il massimo grado, sopravviene il “miracolo”: le stremità delle anse si toccano e il fiume riprende a scorrere in linea retta, lasciando ai lati del nuovo percorso i tronconi morti degli antichi meandri. Sorge immediata, nella mente del maestro, l’idea dell’analogia col pensiero e con le azioni degli uomini, che, come il fiume, seguono un percorso per arrivare a un fine; questo percorso può essere o divenire complesso, intricato, lunghissimo, fino all’assurdo. Ma la soluzione ragionevole può intervenire, raddrizzando il percorso, rendendolo breve, diretto: è il “teorema del meandro” (tratto da Le Corbusier: scritti e pensieri, a cura di V. Casali, Mancosu, Roma, 2014).
Ogni operazione di progetto, e quindi anche la nostra, vuole nascere e configurarsi come tentativo di, metaforicamente, “raddrizzare parte del corso del fiume” sul quale opera, migliorando così la condizione attuale, senza per questo avere la presunzione di “rettificare” l’intero flusso, ché questo è l’intera storia, di cui non conosceremo mai tutte le anse.
1 / La Varra Giovanni, "Arcipelago udinese. Una città di recinti introversi", in La Varra Giovanni, Cervesato Alberto, Ricerche friulane. Progetti di architettura e paesaggio, Anteferma, Conegliano (TV), 2024, pp. 18-33 (nella fattispecie alle pp. 23, 24-25). ISBN: 979-1259530776.