[giugno 2020]

Architettura di Parole – II edizione, 2020

Concorso di scrittura per l'architettura indetto dall'OAPPC di Arezzo

(con fotografie di Riccardo Piovesana)

[opera finalista]

"Misha è realmente esistita"

[Truman:] “Ma Holly è terribile!”

[Holly:] “Sono perfettamente d’accordo; ma pensavo che tu la desiderassi” […] “Promettimi che non ci metterai mai dentro una creatura viva”. (1)




***




Quando ci arrivammo di fronte, non era per nulla terribile, anzi.

Un’architettura, divisa tra cemento e acciaio, rispettivamente nella parte retrostante ed antistante. In pianta sembrava essere squadrata, ma non perfettamente quadrata, insomma si poneva come un’eccezione non del tutto eccezionale rispetto al resto del grandissimo intervento.

In realtà non sapevamo cosa questa fosse: una piccola cappella tra gli alberi?

O forse una sorta di magazzino, perché no. Ma aveva come il carattere di uno spazio fatto per essere guardato, osservato. Si proponeva. Una grande bocca spalancata. 

Ecco! Sicuramente un piccolo teatro scoperto. Ma certo, doveva essere un teatrino esterno. E queste lunghe panche tutt’intorno lo confermano, disposte a semicerchio. Come poteva non notarsi.

Il palco sotteso da freddi frangisole in metallo, una quinta scenica di fondo costituita di due pareti, sbieghe tra loro. Quello strano incrocio loro, poi, disassato dal centro del piccolo palco, impressionava.

Pareti sulle quali risaltava la trama del calcestruzzo. E com’erano lavorate in rilievo queste pareti! Decisamente attenzioni d’altri tempi. La superficie sembrava essere stata ondulata quel poco che basta a rendere, in verticale, l’impressione rugosa del mare irritato dai venti di fine inverno. E sopra di questa si appoggiavano delicatamente le dritte ombre dei frangisole, senza far rumore, quasi dimenticandosi di essere nate dal metallo. 

Però… a guardarli bene quei frangisole. Erano barre, semplicemente barre. Forse avvicinandomi avrei potuto cogliere la loro vera natura, pensai. Ma niente, erano di per certo nude barre d’acciaio.

Com’è possibile che il genio di Gellner avesse prostituito in tal modo un luogo, oserei quasi dire sacro, come quello di un teatro, utilizzando delle fredde sbarre per rinchiudere la scena? Imprigionando quasi poi, di fatto, quell’ambiente.

Ma queste erano alte, non si richiudevano, riprendendosi, sul fronte, tagliate ad una certa quota. Era difficile osservarle da vicino.

Misi il cuore in pace cercando di immaginare possibili incantevoli incastri o dettagli degni, più di quelle semplici nude sbarre, del genio dell’architetto cresciuto nella stupefacente Vienna di inizio secolo scorso. Perché lì si istruì Gellner, da ragazzo. 

A Borca di Cadore quella mattina non faceva freddo, ma il sole non si degnava minimamente di dare un poco di luce a quelle piante che, nei decenni, avevano addirittura sfondato da sotto le lunghe panche in legno per cercarla. Perché la natura, se vuole, passa oltre le piccole grandi cose degli uomini.

Mi sedetti vicino ad una di queste: quelle sedute erano ancora piuttosto comode, anche se slabbrate dalle intemperie. Che basse però.

O meglio, non proprio così: era il proscenio particolarmente rialzato. E di un buon mezzo metro. Mezzo metro o anche più di calcestruzzo faceva in modo di stac-care dal suolo la scena.

Allora ho immaginato quanto sproporzionati dovessero sembrare gli attori dalle prime file, non mi spiegavo come fosse possibile pretendere uno sguardo così dal basso in un così timido teatro. Le teste sarebbero parse così piccole! Bizzarre forse, a meno di attori tozzi e dalle gambe possenti. Attori davvero possenti, animaleschi quasi.

Ma grasse risate tra il pubblico, di per certo. 

Mi accorsi in poco di aver ragionato troppo poco: semplicemente quelle panche potevano benissimo essere state sostituite. Gellner non avrebbe certo mai commesso un tale errore di prospettiva.

Eppure sembravano così consumate. 

Poi delle finestre, c’erano proprio due piccole finestrelle quadrate che davano sulla scena, ritagliate nel bellissimo calcestruzzo della quinta. “Geniale!”. 

L’unica cosa davvero strana era quella maledetta porta. Non c’entrava, non stava, stonava. Perché mai una porta, anche questa ad aprirsi sul palco. Al centro poi, o quasi. Già mi immaginavo qualche attore entrare in scena bussando! Ma ancora grosse risate tra il pubblico di per certo, quasi quante come al circo.

Che poi sembrava più a difesa della quinta quella porta, aveva quel qualcosa che mi ricordava le celle degli zoo in cui timidi scostumati travestiti da veterinari escono da una porticina per lanciare un brandello di carne più grande di loro ad un possente orso ad esempio, per poi scapparsene velocemente richiudendo la maledetta porta, tornandosene al sicuro, dopo aver fatto divertire un po’ il pubblico di fronte a quella gabbia, comodamente seduto.

Ecco, l’effetto fu un po’ quello, o meglio, la mia immaginazione mi fece credere a ciò. Ovviamente quel teatro era piccolo, sia chiaro, strette come sardine sul palco avrebbero preso posto una cinquantina di persone o poco più. O forse meno… decisamente meno. Era stretto.

Figuriamoci cosa avrebbe potuto patire una fiera lì dentro. 

Sul lato del palco, una targhetta: “MISHA”. Probabilmente avevano dedicato quel teatro ad una ragazza, magari molto talentuosa, chissà. Sì, forse era stato proprio così: che brava attrice doveva essere stata Misha. 

Continuammo il percorso nella ex-colonia per ragazzi.

Sembrava non ci fossero stonature in tutto l’intervento: né architettoniche, né etiche, oserei dire. Il tutto era infatti pensato in funzione di chi l’avrebbe vissuto, dalle famiglie dei lavoratori ENI ai loro figli, grandi o piccini che fossero.

Poco tempo prima avevo letto un interessante articolo sull’impossibilità della perfezione in architettura, ma quelle poche ore sembravano averne annebbiato del tutto la resa.

Quelle parole avevano smesso di farmi presa, pensavo.


Il mattino seguente mi risvegliai col sorriso. Quel sorriso come nato perché qualcuno ti trattiene i lembi delle labbra con due dita. Sorrisi appesi per lato. Ebeti.


Ancora stavo pensando a quanto sarebbe stato buffo un attore che fosse entrato in scena bussando.


Bussando da quella maledetta porta simile a quella delle grandi gabbie negli zoo.


Zoo dove semplici sbarre in acciaio dividono possenti animali dalle enormi teste da esili bambini.


Bambini impauriti anche solo nell’appoggiargli un pezzo di pane su un basamento di calcestruzzo.


Basamento quasi più alto di loro. All’incirca poco piú alto di mezzo metro.

Mezzo metro.


Ma quel giorno l’opera del grande Gellner pareva perfetta.




***




Eravamo vicini al negozio di antiquario che aveva in vetrina la gabbia a forma di palazzo; portai Holly a vederla, e lei ne apprezzò l’idea, la fantasia.

“Ma è pur sempre una gabbia”, disse. (2)




[Citazioni 1 e 2 tratte da Truman Capote, Colazione da Tiffany, 1958]

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In questa pagina:copyright delle elaborazioni grafiche e del testo – Tommaso Antigacopyright della fotografia di fondo – Riccardo Piovesana