[30 ottobre 2022]
Articolo su Rivista
Articolo all'interno della rubrica online "L'Ospite", in "La Chiave di Sophia, Nodo Edizioni, Treviso, 2022. ISSN: 2531-954X
[pubblicazione]
"Nuovi Eden, o di una estetica dell'attesa"
"GETTARE AVANTI"
Da studenti di architettura una delle questioni che più si sente ripetere è quella del significato più proprio del progettare: l’architetto non è colui che costruisce ma è colui che indica come farlo. Per questo “progetta”, ovvero pro-iecta cose future (dal latino: pro-iectum, “gettare avanti”).
A parer mio l’implicazione più importante del significato etimologico del pro-iectum è che l’architetto è colui il quale, innanzitutto, sa pazientare. In primo luogo, pro-gettare significa attendere, e la variabile di cui troppo spesso ci si dimentica è il tempo. Difatti, se lancio qualcosa di fronte a me devo come minimo poi darmi il tempo di percorrere lo spazio che ora mi distanzia da essa. La vera implicazione del latinismo in questione è che il progetto è una questione temporale. Il progetto è tempo dell’attesa.
UNA NUOVA TENDENZA
Una delle riflessioni recenti più interessanti a riguardo la fa Byung-Chul Han che, parlando di giardini, afferma: “Rifletto sulla mano del giardiniere. [...] È una mano che [...] attende, una mano paziente. [...] Guarda in lontananza” (Han B.-C. [2018], Elogio della terra. Un viaggio in giardino, Nottetempo, Milano, 2022, p. 82).
La mano del giardiniere non ci sembra quindi molto diversa da quella dell’architetto: entrambe sono mani che “guardano in lontananza” e, nel farlo, pazientano. O così dovrebbero.
Invece, spesso al giorno d’oggi si guarda al progetto solamente con gli occhi del presente. Il “gettato avanti” del pro-iectum diventa così qualcosa che ci cade sui piedi. Il “tutto-e-subito” è un mantra all’interno dell’odierna società della prestazione, che Han definisce stanca (Han B.-C., La società della stanchezza, 2010). Siamo troppo stanchi per “gettare avanti”.
Una nuova tendenza si sta però delineando. Date le premesse del riscaldamento globale e dell’avvenuto salto qualitativo nelle sensibilità ambientale ed ecosistemica, l’architettura odierna cerca salvezza. Basti pensare ai progetti per il Porto Vecchio di Trieste [01] di Alfonso Femia (2022), a quello di ingente piantumazione lungo il Boulevard Périphérique [02] di Parigi (2022), alla Liuzhou Forest City di Stefano Boeri (2017) [03]. Qui ed ora, nuovi Eden vanno cercandosi - e costruendosi.
VERSO IL "GIARDINO PLANETARIO"
Una delle profetiche voci di questa generale riforestazione è quella di Gilles Clément. Agronomo e paesaggista, si autodefinisce “giardiniere” ed è diventato famoso con il suo Manifesto del Terzo paesaggio (2004), oltre che con progetti come il Parc André Citroën di Parigi (1985) [04].
Più che questo primo testo però, ne ritorna qui utile un altro, il suo Giardini, paesaggio e genio naturale (2012), nel quale ci rende consci dell’importante variazione di paradigma estetico che stiamo attraversando: “Dobbiamo [...] liberarci dell’assurdo contratto [...] per cui il paesaggista (o il giardiniere) sarebbe garante d’un paesaggio definitivo [...]. Alla consegna del suo lavoro, il paesaggista sa che il giardino comincia”. Infine, si chiede: “Nel corso del tempo, cosa diventa la sua forma?” (Clément G. [2012], Giardini, paesaggio e genio naturale, Quodlibet, Macerata, 2013, pp. 33-34 – compresa anche la citazione appena precedente).
La domanda che si pone Clément è significativa: nell’odierna inversione gerarchica tra natura e costruito è in corso anche un cambiamento di tipo estetico. Il palcoscenico ruota, e con il litico che passa in secondo piano si prende ora la scena il naturale: viene cioè in primo piano il cangiante, il vivente. Ma che forma possiede questo vivente? Per l’architetto, ciò significa accettare la “natura quale coautrice della sua opera” (Clément G. [2012], Giardini, paesaggio e genio naturale, Quodlibet, Macerata, 2013, p. 41). Attenderla, ed accettare la sua non-staticità ed il suo costante variare.
Clément battezza poi il concetto di “giardino planetario”, un giardino che ha allargato i suoi confini fino a farli coincidere con la superficie del pianeta: ognuno di noi diventa, in questa visione, “giardiniere planetario”, (più) responsabile della nostra comune casa. Architetti inclusi.
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La mano dell’architetto-a-venire è quindi, molte più volte di quanto non lo sia ora, ferma.
Non è un rifiuto del progettare. Invece, è un nuovo approccio al progetto, un nuovo approccio estetico che, più che disciplinare, accetta.
L’architetto-artista del Novecento, che si pone come scaturigine unica del progetto, cede il pennello al nuovo architetto-giardiniere, che lo prende, lo posa, e indugia.
Fermo, attende e contempla - il gioco sapiente, a suo modo rigoroso e magnifico della natura nella luce (si vuole fare qui il verso alla famosa frase di Le Corbusier nel suo Verso una Architettura (1923): “L’architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi nella luce”, tratto da Le Corbusier [1923], Verso una Architettura, Longanesi, Milano, 2015, p. 178).