PER SAPERE COSA è IL MIF
MIF, 15 giugno 2023
Dalla comunità alla normalità
Un Percorso di cura mediante trattamento musicoterapico in età adolescenziale
Tutto ebbe inizio...
Il mio primo incontro con Emanuele (nome di fantasia in ottemperanza alla legge della privacy) fu nel 2014, nella comunità terapeutica per adolescenti di Camisano, vicino Crema (CR). Il primo approccio non fu per niente facile. Ema (d’ora in poi lo chiamerò così) era un adolescente arrabbiato che aveva accettato suo malgrado di iniziare un percorso in comunità di riabilitazione psichiatrica per adolescenti (ebbi a scoprire più tardi che si era sentito tradito dall’assistente sociale che l’aveva convinto ad accettare di entrare in comunità terapeutica), dopo vari episodi di aggressività in famiglia associati ad assunzione di cannabis e alcol.
La sua diagnosi di ingresso era: “Disturbo di personalità non altrimenti specificato (NAS) con presenza di agiti aggressivi etero lesivi (sulle persone e sugli oggetti)”. Più tardi comparvero i sintomi di allucinazioni uditive, probabilmente indotte dai farmaci.
La comunità di Camisano
La comunità di Camisano presentava diverse lacune e problematiche, sia legate alla struttura, non propriamente nata per tale scopo, sia alla presenza della promiscuità tra ragazzi e ragazze sia, a mio parere, alla cattiva gestione dei responsabili (giovani e soprattutto con poca esperienza nel settore). Negli anni, dopo diverse fughe di ragazzi, era stato deciso di chiudere gli spazi comuni del cortile e delle scale che dal piano terra, dove erano alloggiate le ragazze, portavano al primo piano, dove vi erano i ragazzi, con l’installazione di grandi cancellate. Il risultato fu di aver trasformato la comunità in una specie di carcere, inasprendo ancor di più gli animi degli ospiti, con conseguente aumento dei desideri di fuga e di mancanza di adesione al progetto terapeutico da parte degli stessi.
Durante gli anni trascorsi nella comunità di Camisano, ho cercato di offrire a tutti i ragazzi la possibilità di dar voce alle loro contestazioni e intemperanze tramite la musica, dicendo chiaramente che ognuno era libero di manifestare la propria idea, in assenza di giudizio. Cercavo di portare dall’esterno una aria di libertà che contrastasse quel clima angusto e carcerario che si avvertiva, entrando in quella comunità, e di farli sentire accolti e ascoltati in tutto e per tutto.
Il nostro primo incontro
In comunità, l’attività di musicoterapia di gruppo era una proposta settimanale, della durata di cinquanta minuti, rivolta a tutti gli ospiti, con la libertà di concordare altre attività alternative a secondo del piano personalizzato di cura fatto insieme all’équipe di riferimento. Ema, inizialmente, partecipava all’attività musicoterapica in modo discontinuo e con atteggiamento prepotente e bullesco. La sua partecipazione era più una dimostrazione di forza: cercava di minare il setting e trascinare via con sé gli ospiti più fragili, quasi volesse dimostrare che lui aveva più “potere” di me o degli altri operatori. Più di una volta si presentò in ritardo, cercando di ostacolare l’attività e inasprendo il clima con continue provocazioni verbali, arrivando perfino a dare calci agli strumenti del setting, per poi andare via prima della conclusione cercando di portar via con sé quanti più partecipanti al gruppo.
Il mio atteggiamento, in risposta a ciò, è stato differente, alternando un approccio più morbido e accogliente a momenti in cui ho dovuto rimarcare il mio ruolo, con un atteggiamento più rigido e severo. Fuori dal setting, però, avveniva sempre qualcosa che dava fiducia al nostro rapporto. Preso in disparte per una richiesta di chiarimento, Emanuele finiva sempre per scusarsi, in maniera a volte esplicita e a volte più sottointesa, quando c’erano altri ragazzi nelle vicinanze. Ciò mi convinceva che, nonostante il normale controtransfert, in attività, quando le sue provocazioni toccavano punte estreme, dentro quel ragazzo c’era qualcosa di “buono” e il suo fare aggressivo e violento era, in realtà, un messaggio di aiuto di chi ha bisogno di credere in qualcuno ma non sa di chi potersi fidare. La pazienza e la determinazione ebbero la meglio.
La svolta: la proposta del “Songwriting”
L’occasione che ha portato all’inizio di un vero percorso musicoterapico stabile e ad un rapporto di consolidata fiducia, si presentò con l’ingresso di un nuovo ospite, motivato a sfruttare quel tempo in comunità, facendo qualcosa che gli piaceva, piuttosto che lasciarsi andare al clima di disfacimento e contestazione generale. Dopo alcuni incontri conoscitivi in cui era emersa la sua passione per il rap/trap, __ un po’ come per la maggior parte di loro con qualche eccezione per gli amanti del genere gothik metal o hardcore __, proposi a lui e agli altri ragazzi del gruppo di provare a comporre testi di canzoni nel loro genere preferito. La proposta fece subito breccia dato che molti di loro si dedicavano, nei loro momenti liberi, a improvvisare dei testi auto prodotti, su basi gratuite disponibili su YouTube: quello che in gergo si chiama “fare freestyle”.
Il materiale, quindi, era già in archivio e cominciammo a provare delle basi scelte da loro e registrare i nostri primi “promo”.
Un cambio di setting
Per questo progetto mi dotai di un’attrezzatura elettronica che la comunità non aveva e che portavo con me ogni volta. In particolare, oltre alla cassa acustica, comprai un registratore digitale Tasckam con una buona definizione. Dato il tempo ridotto e lo spazio angusto ossia una mansarda di una vecchia stalla ristrutturata e priva di riscaldamento, poco attrezzato anche di prese della corrente, proposi di usare il tempo dell’attività per registrare su traccia digitale le loro performance canore, facendo più registrazioni, per poi scegliere quella migliore. Io poi, a casa, avrei elaborato le tracce sul computer sincronizzandole meglio sulla traccia. L’entusiasmo per questa novità contagiò molti di loro che incuriositi decisero di venire ad “affacciarsi alla porta per dare un’occhiata”. Fu così anche per Ema che non voleva essere da meno e, soprattutto, riguardo al nuovo arrivato, che aveva un certo talento naturale nel “rappare”, non voleva che diventasse il più bravo, visto che già cominciava a vantarsi dei suoi primi traguardi raggiunti e si esercitava di fronte agli altri sulle basi scelte insieme in attività.
Fu così che un giorno Ema venne da me, assieme ad un altro ospite che lo seguiva con atteggiamento gregario, e mi disse chiaramente che voleva tornare in attività per fare quello che stava facendo l’altro ragazzo, giurandomi che avrebbe cambiato completamente atteggiamento e avrebbe rispettato anche gli altri. Io gli risposi che le porte per lui e il suo amico erano sempre state aperte e che le regole del setting __ rispetto per gli altri e per le cose e assoluto divieto di fare o farsi del male fisico __ lui già le conosceva e che nulla era cambiato da parte mia.
Quel giorno iniziò il nostro percorso terapeutico.
Chiaramente da principio non furono subito rose e fiori, più di una volta Ema abbandonò il setting imprecando perché non veniva accontentato nelle sue richieste con atteggiamento molto infantile ma poi tornava, sempre. A volte anche solo dopo aver fumato una sigaretta per sbollire un po’ la rabbia che lo pervadeva. I suoi testi erano pieni di rabbia e risentimento con linguaggio volgare che ricalcava i testi di famose canzoni rap. In più si vergognava immensamente per un difetto di pronuncia della consonante “R” e, per tale motivo, cercava di fare dei testi cercando di escludere il più possibile parole con la “r”.
Pian piano cominciammo a lavorare sulle sue emozioni e sulla possibilità di esprimerle in modo più autentico e personale senza ricopiare testi di altri. Siamo partiti dai suoi rapper preferiti per arrivare alla necessità di trovare un proprio stile. La proposta del songwriting piaceva in comunità a tal punto che i ragazzi divennero assidui frequentatori e, nonostante i continui boicottaggi della coordinatrice che organizzava uscite proprio nell’orario della musicoterapia, cercavano di non saltare mai un appuntamento. Avevamo deciso di arrivare a fine anno (giugno 2016) con un numero sufficiente di brani prodotti per fare un CD che poi sarebbe stato fatto ascoltare a tutta la comunità, operatori compresi. Purtroppo, di lì a breve la coordinatrice, approfittando di un momento di tagli economici gestionali, riuscì a convincere il direttore della comunità che l’attività di musicoterapia era sacrificabile perché aveva poca affluenza. Feci presente al direttore del nostro progetto già in essere, che la coordinatrice, a quanto pare, si era guardata bene di menzionare e riuscii ad ottenere che la risoluzione del mio contratto traslasse a fine giugno.
Chiaramente la notizia destò molto malcontento tra i ragazzi del gruppo perché dicevano che oltre alle partite a pallone, la musica era l’unica attività che gli permetteva di rendere tollerante quel posto in cui erano finiti. Molti di loro, i più prossimi alla maggiore età, mi dissero che al compimento del diciottesimo anno di età avrebbero firmato per uscire da lì e mi avrebbero contattato per poter continuare in privato quello che avevano iniziato in comunità. Tra questi c’era anche Ema. Io, al momento, non detti molto credito alle loro parole anche se apprezzai e incassai il loro appoggio e lo considerai alla stregua di un premio di liquidazione. A distanza di qualche mese dal mio ultimo incontro in comunità, Ema mi contattò e mi ricordò quello che mi aveva promesso. Era riuscito a procurarsi il mio numero tramite un operatore che si era licenziato per divergenze di vedute. Inizialmente, fui sorpreso e presi tempo per riflettere e per vedere se il suo desiderio era fondato. Lui non si scoraggiò; insistette per iniziare un percorso privato e continuare il nostro lavoro iniziato in comunità. A quel punto, chiesi e ottenni di parlare, comunque, prima con i suoi genitori, dato che non potevo fare un contratto direttamente con lui, sebbene maggiorenne, come mi chiedeva, in quanto privo di disponibilità economiche e ancora sotto la tutela dei genitori.
Dopo un colloquio con sua madre, è sempre stata lei a seguirlo più da vicino e a fare da tramite con suo padre, dissi che gli avrei fatto avere un progetto che spiegava in breve cos’era la musicoterapia e quali i possibili obiettivi da raggiungere con Emanuele. Così nell’ottobre del 2017 ebbe inizio un nuovo percorso musicoterapico con Emanuele, questa volta fortemente richiesto da lui, senza invianti intermediari.
Un nuovo inizio
I nostri primi incontri (per i primi due anni) si sono tenuti in uno spazio presso uno studio privato a Mariano Comense. Il setting previsto era formato unicamente da attrezzatura elettronica: computer scheda audio esterna, microfono con asta di sostegno, tastiera midi e cassa amplificata. L’attività aveva una cadenza settimanale della durata di un ora circa. Ema veniva in attività già con il titolo di alcune basi scelte dalla rete e con una idea di testo. Così, dopo aver scaricato la base con apposito software registravamo la traccia vocale in più riprese, correggendo gli errori di intonazione e di metrica fino ad avere una registrazione abbastanza soddisfacente. Solitamente il brano veniva composto in un paio di incontri o, eccezionalmente, in tre o quattro. Sin dai nostri primi incontri Ema manifestò agitazione e uno stato ansioso. I contenuti dei suoi testi erano ancora pieni di rabbia con parole di risentimento riguardo gli anni passati in comunità e le persone che lo avevano accompagnato in quel periodo. Più che cercare un buon confezionamento e rifinizione del brano, emergeva il suo bisogno di espellere il malessere, guidato dal desiderio di indipendenza libertà e voglia di riscatto; come a voler dimostrare che lui aveva dentro molto di più di ciò che gli altri avevano visto ossia il suo universo sommerso. Presto però cominciava a trasparire anche la sua paura di non farcela e il suo timore di essere simile a suo zio, un uomo di cinquant’anni anni schizofrenico cronico, in cura ai servizi della Ast di Desio - Vimercate.
Ema e le sette sataniche
Nel periodo della comunità Ema fece amicizia con un altro ospite che era dedito al satanismo. Ben presto l’influenza di quest’ultimo portò Ema a farsi suggestionare ed emulare i suoi atteggiamenti adottando le sue idee. Cominciò a farsi tatuaggi con simboli satanici sulle braccia e ad avere atteggiamenti e linguaggio dissacratorio. Io ebbi subito l’impressione che nulla di tutto ciò era frutto di una vera convinzione e che il suo era l’ennesimo modo di mettersi in mostra.
Quando iniziammo il nostro percorso, fuori dalla comunità, le tematiche del satanismo erano costantemente al centro dei nostri discorsi. Ema voleva un mio parere in merito, pur sapendo che io la pensavo in maniera del tutto opposta. Cominciò a portarmi dei testi satanici che aveva letto, a suo dire, chiedendomi di leggerli per poi poterne discutere. Più che un’opera di proselitismo, il suo era un bisogno di avere conferme o viceversa riguardo alle sue idee. In quel periodo si era fidanzato con una ragazza conosciuta in chat, anche lei con le stesse credenze.
Negli anni in cui avevo conosciuto Ema, avevo compreso che ciò che lui detestava era quello di essere contestato, avendo l’impressione che così facendo si sminuisse o ridicolizzasse le sue scelte. Ciò che lo faceva davvero arrabbiare era sentirsi dire che era stato plagiato, preso in giro, perché questo significava, ai suoi occhi, che non era molto intelligente e capace di pensare con la sua testa. Capii, così, che per arrivare a lui avrei dovuto trovare un terreno comune e dargli modo di arrivare da solo a comprendere l’assurdità di alcune scelte. Fu un lungo periodo complicato per me perché mi trovai a leggere libri di argomenti ostici ma sapevo che ciò era necessario. Mi spaventava, in particolar modo, l’idea che altri personaggi ambigui lo stessero plagiando, sapendo bene che se non avessi contrastato queste cattive influenze, sarebbe arrivato ad affiliarsi a una setta e non l’avrei più visto. Prima che si scompensasse, per l’interruzione volontaria dei farmaci, Ema si fermava a parlare con me dopo l’attività per lungo tempo, argomentando le frasi dei testi suddetti e ciò che, la sua ragazza e i suoi “nuovi amici”, gli dicevano in chat. Con pazienza ascoltai tutti i suoi discorsi e, forte anche dei miei studi filosofici e teologici fatti in passato, cercai di trovare il modo di creare una breccia per instillare un “ragionevole dubbio “nella sua mente, senza, in alcun modo, contrastare completamente le sue idee ma lasciandogli la sensazione di sentirsi libero di credere in ciò che voleva senza che io per questo cambiassi il mio modo di relazionarmi con lui. Questa fu la scelta vincente.
Progressivamente, Emanuele si rendeva conto delle incongruenze e, lui stesso, cominciava a scartare delle argomentazioni, aderendo solo in parte a certe idee. Pian piano Ema iniziò a capire che queste sue conoscenze in chat lo volevano coinvolgere in qualcosa che non gli apparteneva. Mi chiedeva consigli sul fatto di partecipare o meno a dei rituali, dicendomi che gli avevano assicurato che poteva fare solo lo spettatore. Per fortuna si convinse che il rischio di essere coinvolto in qualcosa di spiacevole, una volta aver deciso di partecipare, era molto elevato. Ema mi dette ascolto e cominciò a tagliare i contatti sulla rete. Scelse da solo di lasciare andare la sua nuova ragazza, rendendosi conto che aveva più problemi di lui e che non avevano molto in comune. Fu l’inizio di un vero cambiamento: una seconda rinascita.
Purtroppo, la voglia di cancellare in fretta gli anni della comunità e il suo ardente desiderio di “normalità” portarono Ema a fare qualcosa che presto si rivelò un grosso errore da non ripetere. Decise di interrompere in autonomia l’assunzione della terapia farmacologica antipsicotica che gli veniva data dal centro psicosociale. Ciò causò uno scompenso e un accentuarsi dei sintomi ansiosi con riemergere, in maniera preponderante, delle allucinazioni uditive associate ad un quadro di tipo autosvalutativo e persecutorio. Ben presto, tutto ciò, impedì a Ema di scrivere i suoi testi e perfino di pensare o fare altro. I nostri incontri, nonostante questo, non si sono mai interrotti.
In quei momenti molto gravosi, Ema aveva bisogno di parlarmi di ciò che le sue voci gli suggerivano o ordinavano di fare. La relazione di profonda fiducia, che progressivamente ero riuscito a costruire con lui, era la sola sua ancora di salvezza. Lui si fidava solo di me. Sua madre non riusciva a comunicare con lui e aveva paura dei suoi agiti aggressivi che erano tornati presenti in famiglia. Mi chiedeva aiuto nel fare da intermediario per poterlo fare ragionare, riconoscendo che Ema vedeva in me una figura di riferimento, in quel momento, forse l’unica.
Mi trovai in una situazione molto difficile e pesante.
Il mio affetto per Ema e, allo stesso tempo, la consapevolezza di essere l’unico mediatore e interlocutore accrebbe la responsabilità della presa in carico. Presi così la decisione di cercare un medico psichiatra che fosse di “larghe vedute” capace di ascoltarlo, accogliere i suoi bisogni, rassicurarlo, per consentirgli di riprendere fiducia nella classe medica. Nella mia ricerca mi imbattei in una psichiatra che aveva aperto un centro per “uditori di voci” con un approccio meno basato sulla farmacologia e più sulla gestione consapevole del problema. La dott.ssa Cristina Contini che, a Reggio Emilia, ha fondato un’associazione che si chiama “Sentire le voci” la quale offre un sostegno al malato e alla famiglia aiutando a capire la causa delle voci e le eventuali strategie di affrontamento, per imparare la gestione della problematica, vincendo paura e pregiudizio.
Ema, nel frattempo, era peggiorato mostrando tutti i sintomi del ritorno di una crisi psicotica in acuzie, a tal punto che voleva quasi tornare in comunità. Sapevo che non era quello che desiderava ma che a spingerlo verso tale direzione era la sofferenza interna divenuta intollerabile. Lo convinsi ad andare con i suoi genitori a Reggio Emilia dalla dottoressa Contini per un colloquio e decidere in seguito se tornare o meno in comunità.
Nel viaggio di ritorno da Reggio Emilia, Emanuele mi chiamò al telefono e con voce entusiasta mi ringraziò per il consiglio datogli e mi disse che aveva trovato finalmente un medico che lo capiva. Si sentiva più rassicurato e aveva accettato di andare in cura da uno psichiatra di Milano che apparteneva alla associazione e che lo avrebbe aiutato a riprendere una terapia farmacologica blanda e a scalarla in modo adeguato. Gli incontri a Reggio Emila proseguirono finché Ema ritrovò il suo equilibrio ed ebbe scalato quasi del tutto i farmaci. Il percorso di musicoterapia, che non fu mai interrotto, divenne oggetto di interesse della dottoressa Contini che cercò di sfruttare nel suo approccio relazionale con Ema facendogli fare qualcosa di simile nel suo centro.
Emanuele un giorno mi disse che lui aveva deciso di non andare più al centro perché la musicoterapia preferiva farla con me e che, pur grato per l’aiuto ricevuto dalla Contini, non riteneva giusto e meglio per lui raddoppiare o sostituire il nostro percorso. Io ne fui quasi sorpreso e gli chiesi più volte se era convinto di quella decisione. Quel giorno ebbi la conferma che la nostra relazione si era rinforzata e non indebolita.
Io ero anche disposto a lasciare andare Ema per altre strade, anche se mi dispiaceva un po’ il fatto che altri stavano raccogliendo i frutti di un mio lavoro non ancora terminato, mi preoccupava di più il raggiungimento del suo benessere che tutto il resto. La decisione di rimanere in terapia con me, presa in piena libertà, fu, per me, una bella iniezione di autostima. Ormai avevo le idee chiare sulla “rotta” da seguire e il nostro viaggio riprese, spiegando le vele verso un nuovo “vento” che ci avrebbe condotto ad importanti tappe.
Emanuele e i social
Ema era ritornato quello di sempre consapevole del suo problema ma meno spaventato e con la voglia di usare la sua passione e interesse per la musica come baluardo difensivo. I suoi testi divennero più profondi, commoventi, quando avevano come protagonisti personaggi con un passato di sofferenza, erano testi chiaramente autobiografici. Prese più consapevolezza del suo modo di cantare molto “grezzo” e poco intonato. Lo incoraggiai a non darsi per vinto dicendogli che con il tempo avrebbe affinato le tecniche ma doveva fidarsi di me come aveva fatto in passato e far qualche lezione di canto e dizione. Lui accettò la sfida.
Riguardo ai suoi problemi di dizione, Ema aveva sin dalla comunità un evidente difficoltà di pronuncia della lettera “r”. Questo era vissuto da lui con imbarazzo e per tale ragione aveva sempre cercato di comporre testi che escludessero del tutto, o quasi, parole con la “r”. Potete immaginare che con questi presupposti i suoi testi erano molto arzigogolati dato che spesso per esprimere un concetto semplice, esplicitabile tramite una sola parola, per il solo fatto che quel termine conteneva la consonante “r”, finiva per dover ricercare molti più termini che insieme esprimessero il concetto che voleva comunicare. Insomma, un giro di parole assurdo che spesso snaturava la metrica della canzone ridicolizzandola. I miei tentativi di convincerlo a non evitare le parole con la R ma piuttosto esercitarsi per la pronuncia facendosi aiutare proprio dalla musica finalmente lo avevano convinto. Iniziammo, parallelamente all’attività di Songwriting, a fare degli esercizi di respirazione e pronuncia, suggeritomi da una logopedista. Ema si convinse e non evitare più, nei suoi testi, le parole con la lettera “r” ma di tollerarle mentre si esercitava nella pronuncia.
Ben presto il suo difetto cominciò a svanire. Questo gli diede fiducia e, con la sua solita impulsività che lo contraddistingue, decise che doveva alzare il livello. Mi disse che aveva deciso di fare delle collaborazioni con persone conosciute nel campo del Rap, perché voleva dare evidenza alle sue canzoni postate su YouTube e Spotify. Cercai di spigargli che i tempi erano prematuri ma non volli tarpargli le ali anche perché, ancora oggi quando si convince di qualcosa, è difficile fargli cambiare immediatamente idea, finché non lo prova direttamente sulla sua pelle. Così iniziammo a fare dei brani con “feet” di Caneda, un rapper conosciuto che offriva featuring a pagamento.
Dopo tre collaborazioni con Caneda si rese conto che la spesa era eccessiva e, presa consapevolezza che lo stava sfruttando, decise di collaborare con Lortex, un altro rapper famoso tra gli adolescenti. La collaborazione con quest’ultimo divenne più proficua fino a divenire una amicizia che continua fino ad oggi. Con Lortex ha fatto vari brani di cui solo i primi due a pagamento. Ora i brani fatti in coppia sono reciprochi scambi, nonostante gli aut aut della casa discografica (la Sony) di Lortex.
Emanuele oggi
Alla soglia dei 26 anni, oggi, dopo otto anni di percorso di musicoterapia, Emanuele ha raggiunto un traguardo: la “normalità”. Dopo vari lavoretti quest’anno ha deciso di iniziare un lavoro part time nella ditta dove lavora suo padre, così da avere il tempo per coltivare la sua passione per la musica, nel resto della giornata.
Negli ultimi anni abbiamo ripreso le sue vecchie canzoni e le stiamo rimaneggiando. La sua voce è cambiata così anche il suo modo di cantare. Il suo difetto di dizione è scomparso e il suo modo di rappare è diventato fluido. Ha migliorato anche l’intonazione fino al punto di prediligere i ritornelli cantati, cosa che cercava di evitare in tutti i modi in passato, e riuscire a trovare da solo le linee melodiche per le seconde voci. il suo genere di rap è diventato meno aggressivo, più scanzonato e melodico.
Anche i suoi collaboratori, più o meno conosciuti nel campo, hanno notato il cambiamento e lo cercano per fare brani insieme.
La promessa, che gli feci tempo fa, ha visto, nei risultati di un netto miglioramento, il suo compimento. Ormai penso che il nostro percorso sia giunto al termine e credo che Ema, ben presto, potrà camminare in piena autonomia, pur consapevole che cercherà sempre il mio appoggio e i miei consigli. Più che un terapista ultimamente il mio ruolo con lui è di producer.
Le ultime canzoni sono state fatte su basi prodotte da me e quello che lui mi chiede ora, indirettamente, è di metter su un nuovo rapporto come “socio”. Credo che continuerò sempre a stargli vicino visto che i timori che lui possa ricadere nella malattia sono quasi del tutto scomparsi nell’arco degli ultimi quattro anni. Quest’anno ha subito anche la perdita dello zio schizofrenico a cui lui era molto legato. Ho potuto essergli vicino durante gli ultimi giorni dell’aggravamento in ospedale e ho visto come ha saputo reagire in maniera decisa, senza subire grossi contraccolpi, dando ragione di una resilienza accresciuta in lui. Tutto ciò mi fa ben sperare per il suo futuro che mi auguro sia la continuazione di un viaggio a vele spiegate verso un mondo, il suo, sempre più “normale”.
Conclusioni
Al termine di questo lungo cammino posso trarre delle conclusioni.
Per prima cosa, come è ribadito da molta letteratura, risulta evidente che ciò che è fondamentale in un percorso di cura musicoterapica e, direi, in qualsiasi percorso di cura, è la relazione. Ciò che ha permesso a Emanuele di uscire dai suoi momenti bui è stata la fiducia instauratasi, dopo una lunga e combattuta relazione tra noi due, che ha visto momenti di sconforto alternarsi a momenti di speranza e aperture sul futuro. Tenere aperta una finestra sulla possibilità che ci possa essere un domani migliore, credo che sia un atto fondamentale, specie in età adolescenziale, perché possa avere inizio un percorso terapeutico basato sull’autenticità e sulla fiducia.
Prendendo in prestito lo schema di un famoso docente della PNL, Robert Dilts, Il percorso compiuto può, in sintesi, essere rappresentato in tre punti salienti: la crisi, la transizione, la trasformazione.
Crisi
Crisi, dal lat. crisis, gr. κρίσις , vuole dire scelta. È il momento in cui bisogna decidere se portare avanti o meno un dato evento. In età adolescenziale è il punto di inizio del cambiamento; senza la crisi non c’è trasformazione. Spesso questa crisi, fisiologica dell’età in questione, quando tocca degli individui fragili e/o con problematiche “in germe”, risalenti alla prima infanzia, porta con sé sintomatologie che possono sfociare nella patologia.
Per fortuna a tale età ci sono buone probabilità di reversibilità di tali sintomi e di conseguenza l’uscita da un quadro patologico.
Transizione
Ecco, quindi, la seconda fase, quella della transizione. In tale fase c’è un movimento ma la situazione non è ancora delineata. Qui, l’unica certezza è ciò che ci si è lasciati alle spalle, il vecchio mondo, ma ancora il nuovo equilibrio non si è costituito.
È il momento dell’inizio del percorso terapeutico, in cui è avvenuto il cosiddetto aggancio; ma la persona in cura non sa bene se può davvero fidarsi del terapeuta e lasciarsi andare completamente nelle sue mani. Questo è stato, per me ed Emanuele, un punto cruciale molto delicato, in cui ho dovuto avere una infinita pazienza per non forzare gli eventi, vincendo la paura di poter perdere l’aggancio terapeutico. Sapevo di essere su un piano di prova, lui mi stava testando o meglio stava testando la mia tenuta, la mia capacità di tollerare e accettare le sue intemperanze, per capire se fossi io la persona giusta che avrebbe saputo ascoltarlo fino in fondo e tirarlo fuori del buio in cui si trovava. Sono stati momenti difficili in cui ho dovuto ricorrere a tutto il mio lato “zen” per non rispondere, in maniera simmetrica, alla sua rabbia e alle sue invettive.
La strategia, per fortuna, è risultata vincente e tutti i miei sforzi sono stati premiati; ma proprio quando cominciavo a raccogliere i primi frutti del mio intenso lavoro, la cooperativa con cui lavoravo ha deciso di revocarmi l’incarico. L’amarezza provata in quei momenti è qualcosa che mi ha accompagnato per lungo tempo. Ecco però che, con mia grande sorpresa e spaesamento iniziale, proprio quando tutto sembrava finito, una telefonata di Emanuele riaprì i giochi. Dopo diversi tentennamenti, ho sentito che era quella l’occasione giusta per completare, almeno con lui, il mio lavoro. Più in là, ebbi altre proposte di presa in carico di ragazzi della comunità che facevano parte del percorso di musicoterapia e che una volta maggiorenni, come aveva fatto Emanuele, erano usciti dalla comunità, riuscendo a contattarmi per chiedermi di proseguire il percorso, sulla scia di ciò che aveva fatto lui.
Trasformazione
Con l’inizio del percorso privato con Emanuele ebbe inizio la terza fase, quella della trasformazione.
Come dice Dilts, “questa fase comporta una rottura della struttura vigente eccessivamente rigida o non più̀ sostenibile. Questa rottura provoca una regressione ad uno stato più primitivo di non integrato che ci mette in contatto con le nostre ombre ma anche con le risorse che precedentemente non sono state riconosciute e utilizzate[1]”.
Emanuele era un “bambino che mi chiedeva di prenderlo per mano” anche se ancora per qualche tempo stentò a fidarsi completamente e volle provare, sbagliando, a impostare le cose alla sua maniera. Ma ormai i tempi erano maturi e lui aveva gli strumenti per riconoscere i propri errori e tornare in acque più calde e accoglienti per ripartire con nuovo slancio.
Il percorso terapeutico è stato un processo che dalla rigidità, attraverso la regressione, è approdato alla riorganizzazione.
C’è da dire che quando ho preso in carico privatamente Emanuele ho avuto subito la percezione che sarei stato l’unico attore del processo di cura ma questo significava, contestualmente, non avere più alcun “paracadute” da parte della comunità, e ciò mi spaventava un po’.
Quando Emanuele decise di interrompere del tutto la terapia farmacologica, senza una guida del medico, e di non andare più al centro di salute mentale, nonostante avessi insistito, a più riprese, affinché non lo facesse in quel modo, Il problema delle voci divenne un ulteriore enorme preoccupazione per tutto quello che responsabilmente significava. Il contatto con la famiglia divenne quasi giornaliero per assicurarmi che Ema non compisse azioni gravi e che non peggiorasse. Sua madre decide di rintrodurre dei farmaci tranquillanti, a sua insaputa, nel cibo decisione non del tutto condivisa da me ma resasi necessaria per evitare un peggioramento ulteriore.
La comunicazione con Emanuele era ostacolata dalle sue voci e io capii che non potevo più arrivare a lui direttamente, prescindendo da quelle sue allucinazioni uditive.
Decisi di non ignorarle, ma cercai di considerarle come risorsa e per questo dovetti documentarmi più approfonditamente sull’argomento.
Il dottor Rufus May[2], psicologo clinico esperto in materia, sostiene che lo scopo di connettere le persone con le loro voci è quello di permettergli di incorporarle nella loro vita quotidiana, di modo che esse non provochino più disagio.
Egli afferma che: “Le voci, in quanto tali, non sono il vero problema, è invece importante la relazione che la persona ha con le voci. Quindi, invece che essere qualcosa che vogliamo evitare e sopprimere a tutti i costi, come vorrebbe il tradizionale modello psichiatrico di malattia mentale, dovremmo incoraggiare le persone ad affrontare queste voci, comprenderle e lavorarci insieme[3]”.
Ancora in letteratura si legge: “Dialogare con le proprie voci è un momento importante in cui le voci possono svelare la loro identità e rivelare cose mai dette prima alla persona[4]” (Cortens, et al, 2011). Il pensiero di molti esperti in materia e anche il mio, è quello che sia possibile cambiare visione sulla malattia mentale, scostandosi da un modello medico-centrico, e dimostrare, anche dal punto di vista scientifico, che le voci non sono sempre da considerarsi sintomo di patologie psicotiche ma che, in alcuni casi, possono considerarsi una sorta di reazione, paradossalmente sana, in risposta a circostanze insane. Tuttavia, dialogare con le voci non è per niente facile, per cui spesso occorre appoggiarsi a gruppi di auto-mutuo-aiuto per uditori di voci o esperti con trattamenti farmacologici di integrazione.
Per tale motivo, dopo aver arginato un po’ la sensazione di panico del momento, riuscii a rassicurare abbastanza Emanuele affinché non si spaventasse delle sue voci, dando loro ascolto e riferendomi il loro contenuto. Ci concentrammo sul significato delle frasi e sull’intenzionalità che poteva esserci dietro. Lo aiutai a capire che erano frutto della sua mente e, progressivamente, i sintomi paranoici che nel frattempo erano subentrati, si attenuarono. Si fidava di me e riuscii a convincerlo a riporre la sua fiducia anche in una specialista: dottoressa Contini anch’ella uditrice di voci e, per questo, la persona giusta al momento giusto. Ancora una volta la strategia fu vincente.
Oggi, riguardando a tutto il cammino fatto, posso dire di essere soddisfatto; soprattutto di aver creduto a pieno nel potere della musicoterapia. Il caso di Emanuele è forse uno dei pochi casi in cui il percorso di guarigione è pienamente attribuibile alla sola terapia musicale dato che Emanuele, dopo le prime fasi, si è completamente affidato a me e alla musicoterapia e nessun altro percorso di cura. Mi auguro e auguro a lui, di continuare a navigare a vele spiegate ora che, forse, per la prima volta nella sua vita, intravede una meta futuribile e una possibile direzione da seguire.
Discografia featuring
Featuring Caneda: Libertà negata/ Fuori dalla Massa.
Featuring Lortex: Mi manchi/distanti da un po'/L’acqua come fuoco/Restiamo Noi, Restiamo.
Bibliografia
R. Benenzon, Manuale di musicoterapia, Roma, Borla, 1998.
K.E. Bruscia (a cura di), Casi clinici di musicoterapia, Roma, ISMEZ, 1991.
D. Corstens, E. Longden, & R. May, Talking with voices: Exploring what is expressed by the voices people hear. Psychosis: Psychological, Social and Integrative Approaches. Advance online publication, 2011.
R. Casadio, Parlare con le voci: esplorare il significato delle voci che le persone sentono, 11 settembre 2014, STATE OF MIND, il Giornale delle Scienze Psicologiche,
https://www.stateofmind.it/2014/09/parlare-voci-significato/
F. Delalande, Le condotte musicali, Bologna, Clueb, 1993.
L. Robert Dilts e Judith DeLozier, Deborah Bacon Dilts “L’Evoluzione Della PNL. Dalle origini alla next generation”, Unicomunicazione.it, E-book, 1 gennaio 2009, p. 125, https://www.amazon.it/Levoluzione-della-Dalle-origini-generation/dp/8865520264
F. Dogana, Suono e senso, Milano, Franco Angeli, Milano, 1988.
M. Gilardone, Musicoterapia e disturbi della comunicazione, Torino, Omega Edizioni, 1995.
P. L. Postacchini, A. Ricciotti, M. Borghesi, Musicoterapia, Roma, Carocci, 1997.
M. Scardovelli, Il dialogo sonoro, Bologna, Zanichelli, 1992.
T. Wigram, Improvvisazione. Metodi e tecniche per clinici, educatori e studenti di musicoterapia, Roma, ISMEZ, 2005.
T. Wigram, Songwriting: Methods, Techniques And Clinical Applications For Music Therapy Clinicians, Educators And Students. Edizioni Jessika Kingsley, 2005.
Note
[1] L. Robert Dilts e Judith DeLozier, Deborah Bacon Dilts “L’Evoluzione Della PNL. Dalle origini alla next generation”, Unicomunicazione.it, E-book, 1 gennaio 2009, p. 125, https://www.amazon.it/Levoluzione-della-Dalle-origini-generation/dp/8865520264
[2] Il dottor Rufus May lavora come psicologo clinico e gestisce il servizio di psicologia in ricovero a Bolton, Lancashire. È appassionato di approcci olistici e creativi ai problemi di salute mentale. Ha lavorato a stretto contatto con i gruppi Hearing Voices dal 2001 e ha usato il “Voice dialogue” con le persone che sentono le voci dal 2005. Questo ha portato Rufus May ad interessarsi ad approcci compassionevoli, all'ascolto delle voci e a creare supervisioni e formazione per tali approcci. Nel suo lavoro usa anche la danza, il movimento consapevole, le arti marziali, il teatro e il drumming ed è appassionato anche di comunicazione nonviolenta. Inoltre, condivide questi approcci con i colleghi e le persone che usano i servizi di salute mentale.
[3] R. Casadio, Parlare con le voci: esplorare il significato delle voci che le persone sentono, 11 settembre 2014, STATE OF MIND, il Giornale delle Scienze Psicologiche, https://www.stateofmind.it/2014/09/parlare-voci-significato/
[4] D. Corstens, E. Longden & R. May, Talking with voices: Exploring what is expressed by the voices people hear. Psychosis: Psychological, Social and Integrative Approaches, Advance online publication, 2011, p. 22-23 https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/17522439.2011.571705#.VA7XSvmSyHE