GAME ZONE

Playground tra scenari virtuali e realtà

"The ITRevolution in Architecture" di Antonino Saggio

GAME ZONE

Playground tra scenari virtuali e realtà

Game Zone è un libro scritto da Alberto Iacovoni, e parte integrante della collana “The ITRevolution in Architecture” di Antonino Saggio, iniziata nel 1998. 

Il libro tratta di un aspetto molto importante tra il rapporto dell’uomo e l’architettura, tra il gioco e lo spazio e delle possibili interazioni tra questi aspetti. Attraverso queste diverse storie ci vuole dimostrare che il mondo del gioco e il mondo dello spazio architettonico, seppur diversi, hanno in realtà un legame molto forte. Il libro è sostanzialmente diviso in tre differenti parti, andiamo ad analizzarle uno ad uno:

Play: la prima parte tratta in particolar modo delle varie tipologie di gioco attraverso fondamentali domande che facciamo fin da piccoli. “A che gioco giochiamo?” la scelta quindi delle regole, del campo. Quante volte invece di giocare a giochi codificati e già conosciuti abbiamo deciso di inventarcene uno totalmente nuovo, era infatti un “facciamo finta che…”, la realizzazione di uno scenario fittizio, una porta aperta verso l’immaginazione, il gioco diventa quindi esperienza, avventura, narrazione. Giocare è infatti prima cosa in-ludere, letteralmente entrare nel gioco, l’illusione di creare un mondo diverso dalla realtà. “Quale è il nostro ruolo?” il gioco permette di rendere anche i bambini consapevoli che nel mondo esistono tante categorie di comportamento e di ruoli differenti. “E il campo da gioco?” ed è qui che possiamo dire che interviene l’architettura, alzando confini, aprendo ingressi, limitando pubblico e privato, prefigurando azioni e movimenti possibili degli abitanti, dando forma ad una serie di regole.

  Playground: dobbiamo dimenticare l’idea del playground che conosciamo noi, uno spazio recintato fatto di scivoli, altalene e cavallucci. Il playground deve essere invece uno spazio aperto, dove i bambini devono avere libera creatività. Verranno infatti presentati diverse tipologie che puntano proprio all’abbattimento di questo recinto. Lo spazio diventa un qualcosa di astratto, illusorio, un luogo dove non ritroviamo degli oggetti prestabiliti che hanno una ed una sola funzione, ma che possono essere stravolti. Uno spazio che si libera dai vincoli forma-funzione, dove un muretto può si essere una barriera, ma diventare anche una seduta, dove lo spazio tra due aperture può diventare una porta da calcio ecc. Così il luogo diventa un racconto, un’avventura. “Il tempo inizia a dare carattere agli spazi quando questi non sono usati per come era stato previsto”. In questo modo tutto può diventare playground, uno slargo, il retro di un palazzo o una strada. Ampliando il nostro pensiero possiamo definire playground anche la città stessa, ma questo come? La maniera più semplice sarebbe quella di estendere alla scala urbana alcune delle caratteristiche proprie del playground e riappropriarsi quindi di aree spontanee che diventano spazi per i giocatori e gli abitanti. Siamo alla fine del ‘900 ed ha inizio il cammino verso la creazione di uno dei playground più innovativi e potenti che l’umanità abbia mai creato, stiamo parlando dei videogames. Ma garantire giochi di quella complessità sulle macchine di quegli anni era molto complicato: pochi k di memoria e schemi monocromatici dovevano simulare uno spazio reale entro cui muoversi e giocare. Si cerca quindi fin da subito di migliorare questo aspetto, anche a discapito del gameplay; lo spazio di gioco si trasforma dunque da un piano bidimensionale, ad uno tridimensionale. Ben presto la rappresentazione passa dal vettoriale (non idoneo a rappresentare uno spazio reale) al pixel, il quale permise, di creare ambienti più realistici possibili. Nacque poi l’idea in parte di ritornare al vettoriale, ma questa volta non lasciati scoperti, ma rivestiti di particolari texture, ossia l’immagine reale di un particolare materiale.

       Playscape: tutti questi campi di gioco rappresentano un playscape in continua evoluzione, uno spazio che si adatta dai desideri dei singoli e della collettività. Se il fine ultimo di questo playscape è quello di restituire all’uomo il diritto e il piacere di plasmare lo spazio in cui vive, allora l’architettura dovrà trasformarsi in un play continuo che ha come obiettivo il superamento delle stesse contraddizioni da cui nasce; in altre parole possiamo anche dire che “fine ultimo dell’architettura è l’eliminazione dell’architettura stessa”.

Il gioco è visto come una sorta di spazio nel quale le nostre entità fisiche sono costrette a muoversi. Si scopre dunque che lo spazio urbano si può specializzare ad accogliere attività considerate ricreative, l’architettura diventa quindi “Architettura del gioco”. Il gioco passa da oggetto di un’architettura a sua caratteristica principale, o ad un modo di interpretarla. Prendiamo l’esempio dei parchi a tema, questi spazi diventano delle vere e proprie città dentro cui muoversi, non esistono più solo giochi, ma si realizzano veri e propri edifici entro cui entrare per appunto utilizzare quella determinata struttura e quel gioco. Per ricollegarci al tema del corso, possiamo dire che gioco e informatica sono due facce della stessa moneta, senza l’evoluzione della tecnologia e appunto dell’informatica e dell’informazione il gioco non avrebbe avuto la sua evoluzione, basta guardare lo sviluppo che i videogames hanno fatto nel corso degli anni. I videogames non sono altro che realtà virtuali entro cui immergersi attraverso i vari dispositivi, ed in parte è ciò che anche l’architettura sta tentando di fare con l’evoluzione della tecnologia. Quando si parla di architettura oggigiorno non si parla più ad esempio solo di piante, sezioni e prospetti, ma si parla di render, di viste tridimensionali, o addirittura di una progettazione attraverso i visori che ci permettono di entrare virtualmente all’interno dello spazio progettato, cosa che anni e anni fa ci si sognava soltanto di fare.