Lynn Margulis è stata una biologa statunitense dal carattere riservato. Non amava mettersi in mostra, preferiva lavorare in silenzio e con discrezione nei laboratori. Tuttavia, i suoi studi hanno avuto un impatto profondo sulla biologia.
Nel corso delle sue ricerche, Margulis formulò un’ipotesi innovativa che metteva in discussione alcuni principi fondamentali dell’evoluzione darwiniana. Secondo lei, non era solo la selezione naturale e la competizione a determinare l’evoluzione, ma anche – e in molti casi soprattutto – la cooperazione tra organismi.
La sua teoria, nota come endosimbiosi, afferma che le cellule eucariote (quelle dotate di nucleo, che compongono gli organismi complessi) si siano originate da un’antica integrazione tra cellule più semplici. I mitocondri e i cloroplasti, oggi presenti nelle cellule, sarebbero in realtà discendenti di batteri che, miliardi di anni fa, furono inglobati da altre cellule e divennero parte integrante del loro funzionamento.
All’inizio, il suo lavoro fu accolto con scetticismo: il primo articolo che presentava la teoria fu rifiutato da numerose riviste scientifiche, ben quindici, prima di essere pubblicato nel 1967 dal Journal of Theoretical Biology. Ci volle oltre un decennio prima che la comunità scientifica cominciasse a riconoscerne la validità. Nonostante le difficoltà, Margulis continuò a portare avanti le sue ricerche. Nel 1983 fu ammessa alla National Academy of Sciences; nel 1999 ricevette la National Medal of Science, una delle massime onorificenze scientifiche negli Stati Uniti. Nel 2008 le fu assegnata la Darwin-Wallace Medal, uno dei più importanti riconoscimenti nel campo dell’evoluzione. Margulis ha riassunto così la sua visione:
«La vita non ha conquistato la Terra con la forza, ma attraverso le connessioni.»
Oggi la teoria endosimbiotica è parte integrante dell’insegnamento della biologia moderna. Ha contribuito a chiarire l’origine delle cellule complesse e, con esse, degli esseri viventi come li conosciamo.
Il premio Nobel per la Chimica 2020 è stato assegnato a Emmanuelle Charpentier e Jennifer Doudna per lo sviluppo del sistema CRISPR-Cas9, una tecnologia di editing genomico che consente di modificare il DNA in modo mirato, efficiente e relativamente semplice. Questa innovazione ha rivoluzionato la ricerca scientifica, offrendo nuove possibilità per la cura di malattie genetiche, lo sviluppo di terapie personalizzate, il miglioramento delle colture e la creazione di organismi con caratteristiche specifiche.
A più di dieci anni dalla pubblicazione della scoperta, avvenuta nel 2012, CRISPR-Cas9 ha già prodotto risultati concreti, ma solleva anche questioni etiche e sociali complesse. In Cina, sono già nati tre esseri umani geneticamente modificati, suscitando un acceso dibattito a livello globale sui limiti dell’intervento umano sul genoma. Nel settore agricolo, si stima che ogni anno vengano sviluppate e brevettate circa 200 nuove varietà vegetali geneticamente modificate, con conseguente diffusione nell’ambiente di geni artificialmente inseriti.
Questo scenario impone una riflessione urgente sulla necessità di normative internazionali chiare e condivise, in grado di bilanciare le straordinarie opportunità offerte da CRISPR con il rispetto della sicurezza, della biodiversità e dei principi etici fondamentali.
Il premio Nobel per la Chimica 1918 fu conferito a Fritz Haber per lo sviluppo del processo di sintesi dell’ammoniaca a partire dall’azoto atmosferico, noto oggi come processo Haber-Bosch. Questa scoperta rese possibile la produzione su larga scala di fertilizzanti azotati, trasformando radicalmente l’agricoltura e contribuendo a sostenere la crescita della popolazione mondiale. Ancora oggi, una parte significativa della produzione alimentare globale dipende da questo processo.
Tuttavia, l’impatto della scoperta di Haber non fu solo positivo. Lo stesso procedimento fu rapidamente impiegato anche per la produzione di esplosivi, giocando un ruolo cruciale nella Prima Guerra Mondiale. Inoltre, Fritz Haber fu uno dei principali promotori della guerra chimica: supervisionò l’uso del gas cloro sul fronte di Ypres nel 1915, aprendo la strada all’uso su larga scala di armi chimiche.
A distanza di oltre un secolo, il lascito di Haber è ancora oggetto di dibattito. Da un lato, il suo contributo ha reso possibile sfamare miliardi di persone; dall’altro, ha segnato una delle prime applicazioni della scienza alla distruzione su scala industriale. La doppia natura della sua eredità solleva interrogativi attuali sul ruolo della scienza: fino a che punto spingersi nel mettere le scoperte scientifiche al servizio dell’umanità, quando queste stesse conoscenze possono essere impiegate anche per fini distruttivi? Una domanda che nasce in epoche lontane ma si ripropone ancora oggi.