Codice Penale

6. Reati commessi nel territorio dello Stato.

Chiunque commette un reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge italiana [11].

Il reato si considera commesso nel territorio dello Stato, quando l’azione o l’omissione, che lo costituisce, è ivi avvenuta in tutto o in parte (1), ovvero si è ivi verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione od omissione (2).

La norma individua l’ambito spaziale di efficacia della legge penale italiana.

In teoria i limiti spaziali di applicazione della legge penale possono essere individuati in forza di diversi principi: quello di universalità per il quale la legge penale di uno Stato si applica a tutti gli uomini dovunque essi si trovino; il principio di personalità in forza del quale ad ogni autore di reato si deve applicare la legge dello Stato cui appartiene; il principio di difesa per il quale deve trovare applicazione la legge dello Stato cui appartiene il soggetto passivo del reato; infine il principio di territorialità secondo il quale la legge nazionale si applica a tutti i soggetti (cittadini e stranieri) che delinquono nel territorio dello Stato. Quest’ultimo costituisce il principio base accolto dal legislatore del ’30, ma ad esso sono apportati notevoli temperamenti mediante l’adozione parziale degli altri principi [v. 7-10]. Ecco perché è più esatto affermare che nel nostro ordinamento è accolto il principio di territorialità temperata.

7. Reati commessi all’estero.

È punito secondo la legge italiana il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero (1) taluno dei seguenti reati:

1) delitti contro la personalità dello Stato italiano (2) [241-313; c. nav. 1088];

2) delitti di contraffazione del sigillo dello Stato e di uso di tale sigillo contraffatto [467];

3) delitti di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello Stato, o in valori di bollo o in carte di pubblico credito italiano [453-461, 464-466];

4) delitti commessi da pubblici ufficiali [357] a servizio dello Stato, abusando dei poteri o violando i doveri inerenti alle loro funzioni [314 ss.];

5) ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge [5014, 537, 5912, 604, 6424; c. nav. 1080] (3) o convenzioni internazionali (4) stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana.

La norma in esame introduce la prima deroga al c.d. principio di territorialità sancito nell’art. 6. Tale deroga si ispira al principio di difesa [v. 6] per le ipotesi contemplate nei nn. 1-4 in quanto rende applicabile la legge dello Stato cui appartengono i beni offesi; l’ipotesi contemplata nel n. 5 ha invece natura composita: essa si ispira principalmente al principio di universalità [v. 6] in quanto consente di applicare la legge italiana ai delitti che interessano tutte le nazioni (c.d. delicta iuris gentium); talvolta, però, la deroga si fonda sul rispetto del principio di difesa, o su motivi di mera opportunità.

8. Delitto politico commesso all’estero.

Il cittadino o lo straniero [2482, 2492], che commette in territorio estero (1) un delitto politico non compreso tra quelli indicati nel numero 1 dell’articolo precedente, è punito secondo la legge italiana [112], a richiesta del Ministro della giustizia [128-129; c.p.p. 342].

Se si tratta di delitto punibile a querela della persona offesa, occorre, oltre tale richiesta, anche la querela [120-126; c.p.p. 336-340].

Agli effetti della legge penale, è delitto politico ogni delitto, che offende un interesse politico dello Stato, ovvero un diritto politico del cittadino [241-294] (2). È altresì considerato delitto politico il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici (3).

La norma introduce una deroga al principio di territorialità ispirata al principio della difesa [v. 6].

Il legislatore del ’30 ha accolto una nozione assai ampia di delitto politico in linea con l’ideologia dell’epoca tesa a reprimere ogni forma di ribellione nei confronti dell’ordine costituito. Con l’avvento della Costituzione repubblicana si è avuto un’inversione di tendenza tanto che il delitto politico è stato da essa sottoposto ad un regime di favore: infatti, gli artt. 10 e 26 Cost. sanciscono rispettivamente il divieto di estradizione [v. 13] dello straniero e del cittadino per delitti politici. Senonché, la Carta Costituzionale non fornisce alcuna definizione di delitto politico onde prospetta il problema di stabilire se la nozione costituzionale di delitto politico sia conforme a quella codicistica o si differenzi da questa assumendo autonomo contenuto.

Secondo un orientamento risalente al periodo immediatamente successivo all’entrata in vigore della Costituzione repubblicana vi sarebbe una piena coincidenza tra la nozione codicistica e quella costituzionale di delitto politico, ciò in linea con il ritenuto ripristino, da parte del legislatore costituente, di un trattamento più favorevole per i detenuti politici (FIANDACA-MUSCO) cioè per quanti fossero stati perseguiti come oppositori del regime fascista.

I più recenti orientamenti dottrinali propendono per una concezione autonomistica della nozione costituzionale di delitto politico. In particolare è possibile distinguere tra tesi autonomistiche di matrice processuale, di matrice sostanziale e di matrice mista. La prima si fonda sulla considerazione che il concetto di delitto politico delineato nella Costituzione deve essere desunto dalla stessa ratio cui si ispira il divieto di estradizione che è quella di evitare che l’estradando possa essere sottoposto dallo Stato richiedente a forme di persecuzione in ragione delle sue idee politiche. In quest’ottica si afferma che la nozione costituzionale di delitto politico coincide con quella di delitto per il quale sia identificabile un fine di persecuzione politica della domanda di estradizione.

Secondo la tesi autonomistica di matrice sostanziale il delitto politico di cui agli artt. 10 e 26 Cost. deve essere individuato alla luce dei diritti e delle libertà costituzionalmente garantite: ne deriva che il beneficio in essi previsto può essere concesso esclusivamente in relazione a fatti criminosi commessi per il perseguimento di obiettivi non incompatibili con il quadro dei valori costituzionali (DE FRANCESCO).

Infine, secondo la tesi autonomistica di matrice mista la nozione costituzionale di delitto politico va desunta sia da elementi di carattere processuale sottesi alla disciplina dell’istituto dell’estradizione, sia da elementi di carattere sostanziale inerenti ai diritti e alle libertà costituzionalmente garantite. In quest’ottica si afferma che il concetto costituzionale di delitto politico è, ad un tempo, più ampio di quello dell’art. 8 poiché abbraccia tutti i reati, politici o comuni, che dallo Stato richiedente saranno (presumibilmente) puniti per discriminatorie finalità di persecuzione politica, più ristretta perché non possono rientrare nel privilegium degli artt. 10 e 26 Cost. i delitti politici che sono manifestamente contrari ai principi-base della stessa Costituzione (MANTOVANI).

9. Delitto comune del cittadino all’estero.

Il cittadino, che, fuori dei casi indicati nei due articoli precedenti, commette in territorio estero (1) un delitto per il quale la legge italiana stabilisce [la pena di morte o] (2) l’ergastolo, o la reclusione non inferiore nel minimo a tre anni, è punito secondo la legge medesima [112], sempre che si trovi nel territorio dello Stato (3).

Se si tratta di delitto per il quale è stabilita una pena restrittiva della libertà personale di minore durata, il colpevole è punito a richiesta del Ministro della giustizia ovvero a istanza o a querela della persona offesa (4).

Nei casi preveduti dalle disposizioni precedenti, qualora si tratti di delitto commesso a danno delle Comunità europee, di uno Stato estero (5) o di uno straniero, il colpevole è punito a richiesta del Ministro della giustizia, sempre che l’estradizione [c.p.p. 697] di lui non sia stata conceduta, ovvero non sia stata accettata dal Governo dello Stato in cui egli ha commesso il delitto (6).

Anche la norma in esame, come le due precedenti, introduce una deroga al principio di territorialità [v. 6]. Incerta è, però, la ratio di tale deroga: alcuni autori invocano il principio di personalità secondo il quale si applica la legge dello Stato cui appartiene il reo; altri autori invocano il principio di difesa per l’ipotesi in cui sia offeso lo Stato o un cittadino italiano; quello di universalità per l’ipotesi in cui sia offeso uno Stato o un cittadino straniero.

È discusso se per l’operatività della deroga ivi prevista sia necessario il rispetto del principio della «doppia incriminazione» secondo cui il fatto commesso deve costituire reato non solo per lo Stato italiano ma anche per quello straniero.

10. Delitto comune dello straniero all’estero.

Lo straniero, che fuori dei casi indicati negli articoli 7 e 8, commette in territorio estero (1), a danno dello Stato (2) o di un cittadino, un delitto per il quale la legge italiana stabilisce [la pena di morte o] (3) l’ergastolo, o la reclusione non inferiore nel minimo a un anno, è punito secondo la legge medesima [112], sempre che si trovi nel territorio dello Stato, e vi sia richiesta del Ministro della giustizia, ovvero istanza o querela della persona offesa.

Se il delitto è commesso a danno delle Comunità europee, di uno Stato estero (4) o di uno straniero, il colpevole è punito secondo la legge italiana, a richiesta del Ministro della giustizia, sempre che:

1) si trovi nel territorio dello Stato;

2) si tratti di delitto per il quale è stabilita la pena [di morte o] dell’ergastolo ovvero della reclusione non inferiore nel minimo a tre anni;

3) l’estradizione di lui non sia stata conceduta, ovvero non sia stata accettata dal Governo dello Stato in cui egli ha commesso il delitto, o da quello dello Stato a cui egli appartiene.

La norma pone le medesime questioni esaminate in relazione all’art. 9, alla cui analisi, pertanto, si rinvia.

11. Rinnovamento del giudizio.

Nel caso indicato nell’articolo 6, il cittadino o lo straniero è giudicato nello Stato, anche se sia stato giudicato all’estero [138, 201] (1).

Nei casi indicati negli articoli 7, 8, 9 e 10 il cittadino o lo straniero, che sia stato giudicato all’estero, è giudicato nuovamente nello Stato, qualora il Ministro della giustizia ne faccia richiesta.

l comma 1 della norma risponde all’esigenza di garantire in ogni caso l’applicazione della legge italiana con riferimento ai reati realizzati nel territorio della Repubblica, conformemente al principio di territorialità sancito nell’art. 6. Sul punto è stata sollevata una questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 10, c. 1, Cost. La Corte Costituzionale ha ritenuto infondata la questione in base alla considerazione che il principio del ne bis in idem (divieto del doppio giudizio per il medesimo fatto) non può essere considerato norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta (sentenza 18-4-1967, n. 48).

Per i fatti commessi fuori dal territorio dello Stato (comma 2) l’esigenza di garantire l’applicazione della legge italiana è meno imperiosa ed è perciò sottoposta ad una preventiva valutazione politica che si estrinseca nella richiesta del Ministro della giustizia. In ogni caso, la pena scontata all’estero è sempre computata e detratta da quella irrogata in Italia [v. 138].

24. Multa.

La pena della multa consiste nel pagamento allo Stato di una somma non inferiore a cinque euro, né superiore a cinquemilacentosessantaquattro euro.

Per i delitti determinati da motivi di lucro (1), se la legge stabilisce soltanto la pena della reclusione, il giudice può aggiungere la multa da cinque euro a duemilasessantacinque euro (2) (3).

25. Arresto.

La pena dell’arresto si estende da cinque giorni a tre anni, ed è scontata in uno degli istituti a ciò destinati o in sezioni speciali (1), con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno [64, 66, 78, 136].

Il condannato all’arresto può essere addetto a lavori anche diversi da quelli organizzati nell’istituto (1), avuto riguardo alle sue attitudini e alle sue precedenti occupazioni.

36. Pubblicazione della sentenza penale di condanna.

La sentenza di condanna all’ergastolo (1) è pubblicata mediante affissione nel Comune ove è stata pronunciata, in quello ove il delitto fu commesso, e in quello ove il condannato aveva l’ultima residenza.

La sentenza di condanna è inoltre pubblicata, per una sola volta, in uno o più giornali designati dal giudice.

La pubblicazione è fatta per estratto, salvo che il giudice disponga la pubblicazione per intero; essa è eseguita d’ufficio e a spese del condannato.

La legge determina gli altri casi [186, 3473, 448, 475, 4983, 518, 722] nei quali la sentenza di condanna deve essere pubblicata. In tali casi la pubblicazione ha luogo nei modi stabiliti nei due capoversi precedenti [c.p.p. 536, 694] (2) (3).

42. Responsabilità per dolo o per colpa o per delitto preterintenzionale. Responsabilità obiettiva.

Nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà (1).

Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvo i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge (2).

La legge determina i casi nei quali l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente, come conseguenza della sua azione od omissione (3).

Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa (4).

Il principio di colpevolezza, secondo la sentenza della Corte Costituzionale del 24-3-1988, n. 364, deve essere fondamento di qualsiasi responsabilità penale, sì che il fatto imputato, purché sia legittimamente punibile, deve necessariamente includere almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica. Conseguenza di tale affermazione è un tendenziale ripudio delle ipotesi di responsabilità oggettiva (per le quali vi è punibilità anche senza dolo o colpa). Benché alcune ipotesi, come visto (nota 3), permangano nel nostro codice, il legislatore si è attivato per limitarne i casi, come recentemente ha fatto a proposito della riforma delle «circostanze» del reato [v. 59].

43. Elemento psicologico del reato.

Il delitto:

è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione (1);

è preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente (2);

è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline (3).

La distinzione tra reato doloso e reato colposo (4), stabilita da questo articolo per i delitti (4), si applica altresì alle contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto giuridico (5).

48. Errore determinato dall’altrui inganno.

Le disposizioni dell’articolo precedente si applicano anche se l’errore sul fatto che costituisce il reato è determinato dall’altrui inganno (1); ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterlo (2).

56. Delitto tentato.

Chi compie atti idonei (1), diretti in modo non equivoco (2) a commettere un delitto, risponde di delitto tentato (3), se l’azione non si compie o l’evento non si verifica [48] (4).

Il colpevole del delitto tentato è punito (5): con la reclusione non inferiore a dodici anni, se la pena stabilita è l’ergastolo; e, negli altri casi, con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi(6).

Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso (7) (8).

Se volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà [62 n. 6] (9) (10).

Non è ammissibile il tentativo: a) nei delitti colposi, poiché la mancanza di volontà delittuosa è incompatibile con la idoneità e univocità degli atti in cui si sostanzia il delitto tentato; b) nelle contravvenzioni, riferendosi l’art. 56 ai soli delitti; c) nei reati unisussistenti, nella forma del tentativo incompiuto; d) nei delitti di attentato [v. Libro II, Titolo I], poiché il quid richiesto in questi casi per configurarsi tentativo punibile è già sufficiente alla consumazione del delitto; e) nei reati di pericolo, ritenendosi il pericolo del pericolo un non pericolo; per alcuna dottrina (Fiore) la inammissibilità riguarda solo i reati di pericoloconcreto, in quanto in essi il solo verificarsi della situazione di pericolo del bene giuridico protetto assume rilevanza alla stregua del reato consumato; f) nei delitti preterintenzionali [v. 43]: nel caso in cui il soggetto passivo resti in vita, la responsabilità dell’agente è limitata ai delitti di percosse e lesioni, in quanto la sua volontà non era diretta alla realizzazione dell’evento ulteriore. È ammissibile, invece, il tentativo: a) nei reati di pericolo astratto (Fiore); b) nei reati di pura condotta (senza evento materiale), nella forma del tentativo incompiuto; c) nei reati unisussistenti, nella forma del tentativo perfetto; d) nei reati abituali, anche se non vi è concordanza in dottrina; e) nei reati permanenti, nel caso in cui vi sia l’interruzione della condotta delittuosa prima che si realizzi la situazione lesiva dell’altrui diritto (si pensi al fallimento del sequestro di persona per la resistenza della vittima); f) nei delitti omissivi impropri (è il caso della madre che tenta, senza riuscirvi, di uccidere il figlio neonato, omettendo di allattarlo) e, secondo la dottrina più recente, anche nei delitti omissivi propri (si cita il caso del p.u. che, in prossimità della scadenza del termine utile per il compimento dell’atto dovuto, acquisti un biglietto aereo per un paese lontano, allo scopo di porsi nell’impossibilità di adempiere finalità successivamente non raggiunta).

57. Reati commessi col mezzo della stampa periodica. (1)

Salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione e fuori dei casi di concorso, il direttore o il vice-direttore responsabile (2), il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati (3) [528, 565, 596bis, 683, 684, 685], è punito, a titolo di colpa (4), se un reato è commesso, con la pena stabilita per tale reato, diminuita in misura non eccedente un terzo [36].

La Corte Costituzionale ha escluso la fondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, l. n. 47/1948 e dell’art. 57 «nella parte in cui prevedono una unitaria disciplina della responsabilità del direttore di giornale, indipendentemente dalle dimensioni del periodico», sottolineando, in particolare, la necessità della individuazione di un soggetto responsabile di fronte alla legge, e la razionalità di una scelta che ricade proprio sul direttore responsabile, il quale, di fatto, è l’ispiratore del periodico

58bis. Procedibilità per i reati commessi col mezzo della stampa. (1)

Se il reato commesso col mezzo della stampa è punibile a querela, istanza o richiesta, anche per la punibilità dei reati preveduti dai tre articoli precedenti è necessaria querela, istanza o richiesta.

La querela, la istanza o la richiesta presentata contro il direttore o il vice-direttore responsabile, l’editore o lo stampatore, ha effetto anche nei confronti dell’autore della pubblicazione per il reato da questo commesso (2).

Non si può procedere per i reati preveduti nei tre articoli precedenti se è necessaria una autorizzazione di procedimento per il reato commesso dall’autore della pubblicazione, fino a quando l’autorizzazione non è concessa. Questa disposizione non si applica se l’autorizzazione è stabilita per le qualità o condizioni personali dell’autore della pubblicazione.

59. Circostanze non conosciute o erroneamente supposte.

Le circostanze che attenuano o escludono la pena (1) sono valutate a favore dell’agente anche se da lui non conosciute, o da lui per errore ritenute inesistenti (2) (3).

Le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa (2) (3) (4).

Se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze aggravanti o attenuanti, queste non sono valutate contro o a favore di lui.

Se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo (5).

La norma disciplina compiutamente il regime di imputazione delle circostanze. La materia è stata significativamente innovata dalla l. 7-2-1990, n. 19. Antecedentemente, infatti, le circostanze sia aggravanti che attenuanti, venivano attribuite all’agente per il semplice fatto della loro esistenza, con la deteriore conseguenza che la semplice ricorrenza di circostanze aggravanti importava di per sé l’imputazione (oggettiva) delle medesime all’autore del reato.

Tale problema è stato superato dalla novella del 1990. L’attuale disciplina dell’articolo 59, infatti, stabilisce che le circostanze aggravanti sono imputate all’agente solo se da questi ritenute esistenti, ovvero ignorate o ritenute inesistenti colposamente. Le circostanze attenuanti, invece, continuano ad essere imputate all’autore del reato in quanto oggettivamente esistenti, indipendentemente dalla conoscenza che l’agente abbia di esse (secondo una disciplina chiaramente ispirata al c.d. favor rei).

La riforma del ’90 lascia trasparire l’intento del legislatore di ripudiare i residui campi di operatività della responsabilità oggettiva [v. 42], per informare il sistema penale al principio di colpevolezza come indicato dalla C. Costituzionale con la sentenza n. 364/1988 [v. 5].

Quanto sottolineato in tema di circostanze attenuanti vale anche per le circostanze che escludono la pena che, come chiarito precedentemente [v. 59 nota (1)], non sono circostanze in senso proprio.

61. Circostanze aggravanti comuni.

Aggravano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali [5783, 579], le circostanze seguenti:

1) l’avere agito per motivi (1) abietti o futili [576 1 n. 2, 577 1 n. 4] (2) (3);

2) l’aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero la impunità di un altro reato [576 1 n. 1; c.p.p. 4, 12 lett. c] (4);

3) l’avere, nei delitti colposi [43], agito nonostante la previsione dell’evento (5);

4) l’avere adoperato sevizie, o l’aver agito con crudeltà verso le persone [576 1 n. 2, 577 1 n. 4] (6);

5) l’avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la pubblica o privata difesa (7);

6) l’avere il colpevole commesso il reato durante il tempo in cui si è sottratto volontariamente (8) alla esecuzione di un mandato o di un ordine di arresto o di cattura o di carcerazione, spedito per un precedente reato [576 1 n. 3, 576 2; c.p.p. 296] (9);

7) l’avere, nei delitti contro il patrimonio [624-648; c. nav. 1135-1149] (10), o che comunque offendono il patrimonio (11), ovvero nei delitti determinati da motivi di lucro [481 2] (12), cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravità (13);

8) l’avere aggravato o tentato di aggravare le conseguenze del delitto commesso (14);

9) l’aver commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, ovvero alla qualità di ministro di un culto (15);

10) l’avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale o una persona incaricata di un pubblico servizio, o rivestita della qualità di ministro del culto cattolico o di un culto ammesso nello Stato, ovvero contro un agente diplomatico o consolare di uno Stato estero, nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio (16);

11) l’avere commesso il fatto con abuso di autorità (17) o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione, o di ospitalità [646 3, 649] (18) (19) (20) (21) (22).

62. Circostanze attenuanti comuni.

Attenuano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze attenuanti speciali, le circostanze seguenti:

1) l’aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale (1);

2) l’aver agito in stato di ira, determinato da un fatto ingiusto altrui (2);

3) l’avere agito per suggestione di una folla in tumulto, quando non si tratta di riunioni o assembramenti vietati dalla legge o dall’Autorità, e il colpevole non è delinquente o contravventore abituale oprofessionale o delinquente per tendenza (3);

4) l’avere nei delitti contro il patrimonio (4), o che comunque offendono il patrimonio (5), cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di speciale tenuità, ovvero, nei delitti determinati da motivi di lucro (6), l’avere agito per conseguire o l’avere comunque conseguito un lucro di speciale tenuità, quando anche l’evento dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità (7) (8);

5) l’essere concorso a determinare l’evento, insieme con la azione o l’omissione del colpevole, il fatto doloso della persona offesa (9);

6) l’avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso, e, quando sia possibile, mediante le restituzioni; o l’essersi prima del giudizio e fuori del caso preveduto nell’ultimo capoverso dell’articolo 56, adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato (10) (11) (12) (13) (14) (15).

63. Applicazione degli aumenti o delle diminuzioni di pena.

Quando la legge dispone che la pena sia aumentata o diminuita entro limiti determinati, l’aumento o la diminuzione si opera sulla quantità di essa, che il giudice applicherebbe al colpevole, qualora non concorresse la circostanza che la fa aumentare o diminuire (1).

Se concorrono più circostanze aggravanti, ovvero più circostanze attenuanti, l’aumento o la diminuzione di pena si opera sulla quantità di essa risultante dall’aumento o dalla diminuzione precedente (2) (3).

Quando per una circostanza la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato o si tratta di circostanza ad effetto speciale, l’aumento o la diminuzione per le altre circostanze non opera sulla pena ordinaria del reato, ma sulla pena stabilita per la circostanza anzidetta. Sono circostanze ad effetto speciale quelle che importano un aumento o una diminuzione della pena superiore ad un terzo (4).

Se concorrono più circostanze aggravanti tra quelle indicate nel secondo capoverso di questo articolo, si applica soltanto la pena stabilita per la circostanza più grave; ma il giudice può aumentarla [1322].

Se concorrono più circostanze attenuanti tra quelle indicate nel secondo capoverso di questo articolo, si applica soltanto la pena meno grave stabilita per le predette circostanze; ma il giudice può diminuirla [1322] (5).

64. Aumento di pena nel caso di una sola circostanza aggravante.

Quando ricorre una circostanza aggravante, e l’aumento di pena non è determinato dalla legge, è aumentata fino a un terzo la pena che dovrebbe essere inflitta per il reato commesso [1322].

Nondimeno, la pena della reclusione da applicare per effetto dell’aumento non può superare gli anni trenta.

La norma in oggetto regola l’ipotesi di ricorrenza di una sola circostanza aggravante, e del correlato aggravio di pena.

Va sottolineato come l’eventuale sussistenza di circostanze aggravanti non si riflette sulla pena dell’ergastolo, non essendo tale sanzione suscettibile di aumento.

66. Limiti degli aumenti di pena nel caso di concorso di più circostanze aggravanti. (1)

Se concorrono più circostanze aggravanti, la pena da applicare per effetto degli aumenti non può superare il triplo del massimo stabilito dalla legge per il reato, salvo che si tratti delle circostanze indicate nel secondo capoverso dell’articolo 63 (2), né comunque eccedere:

1) gli anni trenta, se si tratta della reclusione;

2) gli anni cinque, se si tratta dell’arresto;

3) e, rispettivamente, diecimilatrecentoventinove euro o duemilasessantacinque euro, se si tratta della multa o dell’ammenda; ovvero, rispettivamente, trentamilanovecentottantasette euro o seimilacentonovantasette euro, se il giudice si avvale della facoltà di aumento indicata nel capoverso dell’articolo 133bis.

La norma in oggetto fissa i limiti massimi di pena in caso di cumulo di circostanze aggravanti (ci troviamo dunque dinanzi ad una ipotesi di concorso omogeneo tra circostanze [v. 63]). I limiti massimi di pena variano in ragione del fatto che si tratti di circostanze ad efficacia comune, ovvero di circostanze ad efficacia speciale o ad effetto speciale.

73. Concorso di reati che importano pene detentive temporanee o pene pecuniarie della stessa specie.

Se più reati importano pene temporanee detentive della stessa specie, si applica una pena unica, per un tempo eguale alla durata complessiva delle pene che si dovrebbero infliggere per i singoli reati (1).

Quando concorrono più delitti, per ciascuno dei quali deve infliggersi la pena della reclusione non inferiore a ventiquattro anni, si applica l’ergastolo (2) (3).

Le pene pecuniarie della stessa specie si applicano tutte per intero (4).

74. Concorso di reati che importano pene detentive di specie diversa.

Se più reati importano pene temporanee detentive di specie diversa, queste si applicano tutte distintamente e per intero (1).

La pena dell’arresto è eseguita per ultima (2).

78. Limiti degli aumenti delle pene principali. (1)

Nel caso di concorso di reati preveduto dall’articolo 73 (2), la pena da applicare a norma dello stesso articolo non può essere superiore al quintuplo della più grave (3) fra le pene concorrenti, né comunque eccedere (4):

1) trenta anni per la reclusione;

2) sei anni per l’arresto;

3) quindicimilaquattrocentotrentatre euro per la multa e tremilanovantotto euro per l’ammenda; ovvero sessantaquattromilacinquecentocinquantasette euro per la multa e dodicimilanovecentoundici euro per l’ammenda, se il giudice si vale della facoltà di aumento indicata nel capoverso dell’articolo 133bis.

Nel caso di concorso di reati preveduto dall’articolo 74, la durata delle pene da applicare a norma dell’articolo stesso non può superare gli anni trenta. La parte di pena eccedente tale limite è detratta in ogni caso dall’arresto (5).

L’art. 78 è uno dei più rilevanti in materia di concorso di reati in quanto, attraverso la previsione di limiti alla cumulabilità delle pene, manifesta l’adesione del nostro sistema penale al principio del cumulo materiale temperato [v. Libro I, Titolo III, Capo III], in considerazione del fatto che un eccessivo inasprimento del sistema sanzionatorio vanificherebbe la finalità di emenda della pena (v. Cost. 27, c. 3).

È da evidenziare, inoltre, che i limiti di cui all’art. 78 trovano applicazione allorché la pluralità di pene deve essere comminata con un’unica sentenza o decreto [v. 71].

Vedremo poi come tale sistema, ed a quali condizioni, possa trovare applicazione anche all’ipotesi di concorso di pene inflitte con sentenze o decreti diversi [v. 80].

86. Determinazione in altri dello stato d’incapacità allo scopo di far commettere un reato.

Se taluno mette altri nello stato d’incapacità d’intendere o di volere [613, 728], al fine di fargli commettere un reato, del reato commesso dalla persona resa incapace risponde chi ha cagionato lo stato di incapacità (1).

La norma risponde all’esigenza di assoggettare a sanzione penale colui il quale si serve di un altro essere umano per realizzare un reato. Essa ha, tuttavia, una portata meramente dichiarativa, non potendosi dubitare, pure in assenza di esplicita disposizione, della punibilità di chi cagioni in altri uno stato d’incapacità al fine di fargli commettere un reato. Analoga disciplina trova applicazione nell’ipotesi in cui lo stato di incapacità sia cagionato mediante suggestione ipnotica o in veglia [v. 613].

88. Vizio totale di mente.

Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità (1), in tale stato di mente da escludere la capacità d’intendere o di volere [95, 1082, 206, 222;c.p.p. 70, 305, 507] (2).

89. Vizio parziale di mente.

Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere o di volere (1), risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita [95, 1082, 148, 219; c.p.p. 70, 305, 507] (2).

95. Cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti.

Per i fatti commessi in stato di cronica intossicazione prodotta da alcool ovvero da sostanze stupefacenti (1), si applicano le disposizioni contenute negli articoli 88 e 89 [206, 219, 222].

La norma in esame sottopone l’intossicato al medesimo regime del soggetto affetto da vizio totale o parziale di mente con conseguente non punibilità o punibilità con pena ridotta rispettivamente nel caso di assenza della capacità d’intendere o volere ovvero di capacità grandemente scemata.

96. Sordomutismo.

Non è imputabile il sordomuto (1) che, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva, per causa della sua infermità, la capacità d’intendere o di volere [222].

Se la capacità d’intendere o di volere era grandemente scemata, ma non esclusa, la pena è diminuita.

L’art. 96, nel prevedere il sordomutismo come possibile causa di esclusione o riduzione dell’imputabilità, si fonda sulla considerazione che l’udito e la favella sono indispensabili per lo sviluppo psichico del soggetto, sicché la loro mancanza ben può incidere sulla capacità d’intendere e di volere [v. 85]. È esclusa, tuttavia, una presunzione di inimputabilità del sordomuto, la cui capacità deve formare oggetto di uno specifico accertamento giudiziale.

97. Minore degli anni quattordici.

Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni [222, 224] (1).

La norma in esame prevede una presunzione assoluta di inimputabilità del minore di anni quattordici fondata su un dato di comune esperienza secondo il quale la capacità d’intendere e di volere di un soggetto postula un certo grado di sviluppo fisio-psichico, in mancanza del quale, e pur in assenza di un’infermità mentale, ricorre una situazione di immaturità che si traduce in un carente sviluppo delle capacità, conoscitive e volitive del soggetto stesso.

98. Minore degli anni diciotto.

È imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità d’intendere e di volere (1); ma la pena è diminuita [169, 2244, 223-227] (2).

Quando la pena detentiva inflitta è inferiore a cinque anni, o si tratta di pena pecuniaria, alla condanna non conseguono pene accessorie. Se si tratta di pena più grave, la condanna importa soltanto l’interdizione dai pubblici uffici per una durata non superiore a cinque anni, e, nei casi stabiliti dalla legge, la sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori (3), [o dell’autorità maritale] (4).

La norma in esame, riferendosi al minore ultraquattordicenne, non introduce alcuna presunzione, né di incapacità né di capacità, ma rimette al giudice l’accertamento della imputabilità del soggetto. Tale accertamento deve essere fondato non soltanto su elementi biopsichici, ma anche su fattori socio-ambientali (di disagio o privazione sociale).