Luigi Pirandello Le Novelle

NOVELLE PER UN ANNO

Ciàula scopre la luna

I picconieri, quella sera, volevano smettere di lavorare senz’aver finito d’estrarre le tante casse di zolfo che bisognavano il giorno appresso a caricar la calcara. Cacciagallina, il soprastante, s’affierò contr’essi, con la rivoltella in pugno, davanti la buca della Cace, per impedire che ne uscissero.

– Corpo di.... sangue di... indietro tutti, giù tutti di nuovo alle cave, a buttar sangue fino all’alba, o faccio fuoco!

– Bum! – fece uno dal fondo della buca. – Bum! – echeggiarono parecchi altri; e con risa e bestemmie e urli di scherno fecero impeto, e chi dando una gomitata, chi una spallata, passarono tutti, meno uno. Chi? Zi’ Scarda, si sa, quel povero cieco d’un occhio, sul quale Cacciagallina poteva far bene il gradasso. Gesù, che spavento! Gli si scagliò addosso, che neanche un leone; lo agguantò per il petto e, quasi avesse in pugno anche gli altri, gli urlò in faccia, scrollandolo furiosamente:

– Indietro tutti, vi dico, canaglia! Giù tutti alle cave, o faccio un macello!

Zi’ Scarda si lasciò scrollare pacificamente. Doveva pur prendersi uno sfogo, quel povero galantuomo, ed era naturale se lo prendesse su lui che, vecchio com’era, poteva offrirglielo senza ribellarsi. Del resto, aveva anche lui, a sua volta, sotto di sé qualcuno più debole, sul quale rifarsi più tardi: Ciàula, il suo caruso.

Quegli altri... eccoli là, s’allontanavano giù per la stradetta che conduceva a Comitini; ridevano e gridavano:

– Ecco, sì! tiènti forte codesto, Cacciagallì! Te lo riempirà lui il calcherone per domani!

– Gioventù! – sospirò con uno squallido sorriso d’indulgenza zi’ Scarda a Cacciagallina. E, ancora agguantato per il petto, piegò la testa da un lato, stiracchiò verso il lato opposto il labbro inferiore, e rimase così per un pezzo, come in attesa.


Era una smorfia a Cacciagallina? o si burlava della gioventù di quei compagni là?

Veramente, tra gli aspetti di quei luoghi, strideva quella loro allegria, quella velleità di baldanza giovanile. Nelle dure facce quasi spente dal buio crudo delle cave sotterranee, nel corpo sfiancato dalla fatica quotidiana, nelle vesti strappate, avevano il livido squallore di quelle terre senza un filo d’erba, sforacchiate dalle zolfare, come da tanti enormi formicai.

Ma no: zi’ Scarda, fisso in quel suo strano atteggiamento, non si burlava di loro, né faceva una smorfia a Cacciagallina. Quello era il versaccio solito, con cui, non senza stento, si deduceva pian piano in bocca la grossa lagrima, che di tratto in tratto gli colava dall’altro occhio, da quello buono.

Aveva preso gusto a quel saporino di sale, e non se ne lasciava scappar via neppur una. Poco: una goccia, di tanto in tanto; ma buttato dalla mattina alla sera laggiù, duecento e più metri sottoterra, col piccone in mano, che a ogni colpo gli strappava come un ruglio di rabbia dal petto, zi’ Scarda aveva sempre la bocca arsa; e quella lagrima, per la sua bocca, era quel che per il naso sarebbe stato un pizzico di rapè.

Un gusto e un riposo.

Quando si sentiva l’occhio pieno, posava per un poco il piccone e, guardando la rossa fiammella fumosa della lanterna confitta nella roccia, che alluciava nella tenebra dell’antro infernale qualche scaglietta di zolfo qua e là, o l’acciaio del palo o della piccozza, piegava la testa da un lato, stiracchiava il labbro inferiore e stava ad aspettar che la lagrima gli colasse giù, lenta, per il solco scavato dalle precedenti.

Gli altri, chi il vizio del fumo, chi quello del vino; lui aveva il vizio della sua lagrima.

Era del sacco lacrimale malato e non di pianto, quella lagrima; ma si era bevute anche quelle del pianto, zi’ Scarda, quando, quattr’anni addietro, gli era morto l’unico figliuolo, per lo scoppio d’una mina, lasciandogli sette orfanelli e la nuora da mantenere. Tuttora gliene veniva giù qualcuna più salata delle altre; ed egli la riconosceva subito: scoteva il capo, allora, e mormorava un nome:

– Calicchio...

In considerazione di Calicchio morto, e anche dell’occhio perduto per lo scoppio della stessa mina, lo tenevano ancora lì a lavorare. Lavorava più e meglio di un giovane; ma ogni sabato sera, la paga gli era data, e per dir la verità lui stesso se la prendeva, come una carità che gli facessero: tanto che, intascandola, diceva sottovoce, quasi con vergogna:

– Dio gliene renda merito.

Perché, di regola, doveva presumersi che uno della sua età non poteva più lavorar bene.


Quando Cacciagallina alla fine lo lasciò per correre dietro agli altri e indurre con le buone maniere qualcuno a far nottata, zi’ Scarda lo pregò di mandare almeno a casa uno di quelli che ritornavano al paese, ad avvertire che egli rimaneva alla zolfara e che perciò non lo aspettassero e non stessero in pensiero per lui; poi si volse attorno a chiamare il suo caruso, che aveva più di trent’anni (e poteva averne anche sette o settanta, scemo com’era); e lo chiamò col verso con cui si chiamano le cornacchie ammaestrate:

– Te’, pa’! te’, pa’!

Ciàula stava a rivestirsi per ritornare al paese.

Rivestirsi per Ciàula significava togliersi prima di tutto la camicia, o quella che un tempo era stata forse una camicia: l’unico indumento che, per modo di dire, lo coprisse durante il lavoro. Toltasi la camicia, indossava sul torace nudo, in cui si potevano contare a una a una tutte le costole, un panciotto bello largo e lungo, avuto in elemosina, che doveva essere stato un tempo elegantissimo e sopraffino (ora il luridume vi aveva fatto una tal roccia, che a posarlo per terra stava ritto). Con somma cura Ciàula ne affibbiava i sei bottoni, tre dei quali ciondolavano, e poi se lo mirava addosso, passandoci sopra le mani, perché veramente ancora lo stimava superiore a’ suoi meriti: una galanteria. Le gambe nude, misere e sbilenche, durante quell’ammirazione, gli si accapponavano, illividite dal freddo. Se qualcuno dei compagni gli dava uno spintone e gli allungava un calcio, gridandogli: – Quanto sei bello! – egli apriva fino alle orecchie ad ansa la bocca sdentata a un riso di soddisfazione, poi infilava i calzoni, che avevano più d’una finestra aperta sulle natiche e sui ginocchi; s’avvolgeva in un cappottello d’albagio tutto rappezzato, e, scalzo, imitando meravigliosamente a ogni passo il verso della cornacchia – cràh! cràh! – (per cui lo avevano soprannominato Ciàula), s’avviava al paese.

– Cràh! cràh! – rispose anche quella sera al richiamo del suo padrone; e gli si presentò tutto nudo, con la sola galanteria di quel panciotto debitamente abbottonato.

– Va’, va’ a rispogliarti, – gli disse zi’ Scarda. – Rimettiti il sacco e la camicia. Oggi per noi il Signore non fa notte.

Ciàula non fiatò; restò un pezzo a guardarlo a bocca aperta, con occhi da ebete; poi si poggiò le mani su le reni e, raggrinzando in su il naso, per lo spasimo, si stirò e disse:

– Gna bonu! (Va bene).

E andò a levarsi il panciotto.

Se non fosse stato per la stanchezza e per il bisogno del sonno, lavorare anche di notte non sarebbe stato niente, perché laggiù, tanto, era sempre notte lo stesso. Ma questo, per zi’ Scarda.

Per Ciàula, no. Ciàula, con la lumierina a olio nella rimboccatura del sacco su la fronte, e schiacciata la nuca sotto il carico, andava su e giù per la lubrica scala sotterranea, erta, a scalini rotti, e su, su, affievolendo a mano a mano, col fiato mòzzo, quel suo crocchiare a ogni scalino, quasi un gemito di strozzato, rivedeva a ogni salita la luce del sole. Dapprima ne rimaneva abbagliato; poi col respiro che traeva nel liberarsi dal carico, gli aspetti noti delle cose circostanti gli balzavano davanti; restava, ancora ansimante, a guardarli un poco e, senza che n’avesse chiara coscienza, se ne sentiva confortare.

Cosa strana: della tenebra fangosa delle profonde caverne, ove dietro ogni svolto stava in agguato la morte, Ciàula non aveva paura; né paura delle ombre mostruose, che qualche lanterna suscitava a sbalzi lungo le gallerie, né del subito guizzare di qualche riflesso rossastro qua e là in una pozza, in uno stagno d’acqua sulfurea: sapeva sempre dov’era; toccava con la mano in cerca di sostegno le viscere della montagna: e ci stava cieco e sicuro come dentro il suo alvo materno.

Aveva paura, invece, del buio vano della notte.

Conosceva quello del giorno, laggiù, intramezzato da sospiri di luce, di là dall’imbuto della scala, per cui saliva tante volte al giorno, con quel suo specioso arrangolìo di cornacchia strozzata. Ma il buio della notte non lo conosceva.

Ogni sera, terminato il lavoro, ritornava al paese con zi’ Scarda; e là, appena finito d’ingozzare i resti della minestra, si buttava a dormire sul saccone di paglia per terra, come un cane; e invano i ragazzi, quei sette nipoti orfani del suo padrone, lo pestavano per tenerlo desto e ridere della sua sciocchezza; cadeva subito in un sonno di piombo, dal quale ogni mattina, alla punta dell’alba, soleva riscuoterlo un noto piede.

La paura che egli aveva del buio della notte gli proveniva da quella volta che il figlio di zi’ Scarda, già suo padrone, aveva avuto il ventre e il petto squarciati dallo scoppio della mina, e zi’ Scarda stesso era stato preso in un occhio.

Giù, nei varii posti a zolfo, si stava per levar mano, essendo già sera, quando s’era sentito il rimbombo tremendo di quella mina scoppiata. Tutti i picconieri e i carusi erano accorsi sul luogo dello scoppio; egli solo, Ciàula, atterrito, era scappato a ripararsi in un antro noto soltanto a lui.

Nella furia di cacciarsi là, gli s’era infranta contro la roccia la lumierina di terracotta, e quando alla fine, dopo un tempo che non aveva potuto calcolare, era uscito dall’antro nel silenzio delle caverne tenebrose e deserte, aveva stentato a trovare a tentoni la galleria che lo conducesse alla scala; ma pure non aveva avuto paura. La paura lo aveva assalito, invece, nell’uscir dalla buca nella notte nera, vana.

S’era messo a tremare, sperduto, con un brivido per ogni vago alito indistinto nel silenzio arcano che riempiva la sterminata vacuità, ove un brulichio infinito di stelle fitte, piccolissime, non riusciva a diffondere alcuna luce.

Il buio, ove doveva esser lume, la solitudine delle cose che restavan lì con un loro aspetto cangiato e quasi irriconoscibile, quando più nessuno le vedeva, gli avevano messo in tale subbuglio l’anima smarrita, che Ciàula s’era all’improvviso lanciato in una corsa pazza, come se qualcuno lo avesse inseguito.

Ora, ritornato giù nella buca con zi’ Scarda, mentre stava ad aspettare che il carico fosse pronto, egli sentiva a mano a mano crescersi lo sgomento per quel buio che avrebbe trovato, sbucando dalla zolfara. E più per quello, che per questo delle gallerie e della scala, rigovernava attentamente la lumierina di terracotta.


Giungevano da lontano gli stridori e i tonfi cadenzati della pompa che non posava mai, né giorno né notte. E nella cadenza di quegli stridori e di quei tonfi s’intercalava il ruglio sordo di zi’ Scarda, come se il vecchio si facesse aiutare a muovere le braccia dalla forza della macchina lontana.

Alla fine il carico fu pronto, e zi’ Scarda aiutò Ciàula a disporlo e rammontarlo sul sacco attorto dietro la nuca.

A mano a mano che zi’ Scarda caricava, Ciàula sentiva piegarsi, sotto, le gambe. Una, a un certo punto, prese a tremargli convulsamente così forte che, temendo di non più reggere al peso, con quel tremitìo, Ciàula gridò:

– Basta! basta!

– Che basta, carogna! – gli rispose zi’ Scarda.

E seguitò a caricare.

Per un momento la paura del buio della notte fu vinta dalla costernazione che, così caricato, e con la stanchezza che si sentiva addosso, forse non avrebbe potuto arrampicarsi fin lassù. Aveva lavorato senza pietà tutto il giorno. Non aveva mai pensato Ciàula che si potesse aver pietà del suo corpo, e non ci pensava neppur ora; ma sentiva che, proprio, non ne poteva più.

Si mosse sotto il carico enorme, che richiedeva anche uno sforzo d’equilibrio. Sì, ecco sì, poteva muoversi, almeno finché andava in piano. Ma come sollevar quel peso, quando sarebbe cominciata la salita?

Per fortuna, quando la salita cominciò, Ciàula fu ripreso dalla paura del buio della notte, a cui tra poco si sarebbe affacciato.

Attraversando le gallerie, quella sera, non gli era venuto il solito verso della cornacchia, ma un gemito raschiato, protratto. Ora, su per la scala, anche questo gemito gli venne meno, arrestato dallo sgomento del silenzio nero che avrebbe trovato nella impalpabile vacuità di fuori.

La scala era così erta, che Ciàula, con la testa protesa e schiacciata sotto il carico, pervenuto all’ultima svoltata, per quanto spingesse gli occhi a guardare in su, non poteva veder la buca che vaneggiava in alto.

Curvo, quasi toccando con la fronte lo scalino che gli stava sopra, e su la cui lubricità la lumierina vacillante rifletteva appena un fioco lume sanguigno, egli veniva su, su, su, dal ventre della montagna, senza piacere, anzi pauroso della prossima liberazione. E non vedeva ancora la buca, che lassù lassù si apriva come un occhio chiaro, d’una deliziosa chiarità d’argento.

Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiaria cresceva, cresceva sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato.

Possibile?

Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento.

Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna. Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna?

Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva.

Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna ... C’era la Luna! la Luna!

E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore.

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IL TRENO HA FISCHIATO

Il treno ha fischiato è una novella di Luigi Pirandello pubblicata sul Corriere della sera il 22 febbraio 1914, poi nel volume La trappola nel 1915 e successivamente inserita nella raccolta Novelle per un anno.

Il protagonista, Belluca, un contabile mansueto, metodico e paziente viene sottoposto a pressioni sia nell'ambito familiare sia lavorativo. Al lavoro, infatti, è vittima dei colleghi che cercano di provocare in lui reazioni violente, visto che è sempre controllato e imbelle. In famiglia, deve mantenere la moglie, la suocera e la sorella della suocera, tutte e tre cieche, più le due figlie vedove e sette nipoti. Belluca per mantenere la famiglia e poter soddisfare le esigenze delle donne è costretto a intraprendere un secondo lavoro, il copista di documenti, nelle ore notturne.

Una sera, dopo aver sentito il fischio di un treno, che precedentemente non aveva mai notato, si ribella ai maltrattamenti del capoufficio. Con queste reazioni, fuori dagli schemi della società e dal suo modo di essere, i suoi colleghi lo ritengono pazzo e lo fanno rinchiudere direttamente nell'ospizio. Solo un vicino di casa si rende effettivamente conto delle motivazioni che l'hanno spinto a tale gesto ed è l'unico a capire che il protagonista non è diventato pazzo, bensì il suo comportamento è stato una semplice reazione alla situazione diventata ormai insostenibile.

Nella novella l'ordine cronologico è invertito. Si va dalla normalità alla pazzia, quindi dobbiamo risalire alle cause che l'hanno determinata.

Il fischio del treno, che da simbolo del progresso diventa richiamo al viaggio, rappresenta un modo per uscire dalla quotidianità attraverso l'immaginazione. In questo caso Belluca, a differenza di Mattia Pascal non cerca di crearsi una nuova identità, ma continua a vivere la sua vita normalmente e concedendo ogni tanto, a se stesso, un viaggio con l'immaginazione. Per Pirandello l'immaginazione è una via di fuga dalle "trappole" della vita: famiglia e lavoro. Belluca, in questo modo, riesce a sostenere la famiglia,senza dover sempre pensare ai suoi problemi, prendendosi delle pause e facendo viaggiare la mente in mondi immaginari

TEMI TRATTATI

Relativismo: Belluca appare diverso a ogni suo collega.

L'uomo, indossando una maschera, non può essere capito e capire gli altri, dal momento che dietro la maschera si nascondono molteplici personalità e ognuno possiede un proprio modo di vedere la realtà.

Il racconto sviluppa il tema pirandelliano del contrasto tra realtà e apparenza, tra come veramente siamo e la nostra immagine esteriore. Ciò che si nasconde dietro alle abitudini, al lavoro, è il disagio e la sofferenza. Al disagio si unisce il desiderio di uscire da essa. Agli altri, Belluca appare come un pazzo, ma egli non lo è e nemmeno si sente tale. Il fischio del treno lo illumina, e gli rivela l’assurdità di quella sua esistenza non vissuta.

PUNTI DI VISTA

Il variare dei punti di vista fa comprendere che la realtà è sempre interpretabile in vari modi.

Per i suoi colleghi e per i medici: Belluca è pazzo. Non riescono a comprendere che i suoi gesti, e la ribellione al capo-ufficio, sono un modo per disfarsi della maschera impostagli dalla società, e allora lo definiscono come pazzo (Farneticava, frenesia, encefalite), che la società esclude e isola.

Per il vicino di casa: E' una persona normalissima e comprende il suo disagio.

La pazzia di Belluca è come la coda di un mostro, ossia il risultato finale, la coda, della sua esistenza alienata: il mostro. La fuga nella fantasia è occasione di riscatto dalle umiliazioni quotidiane, a cui può, dopo essere stato illuminato dal fischio del treno, ribellarsi ritrovando l’autenticità del proprio essere: Belluca ritornerà al suo lavoro, ma ora che il treno ha fischiato potrà evadere, ogni tanto, dallo squallore della vita attraverso l’immaginazione. 

FABULA E INTRECCIO

Il rapporto fabula/intreccio in questa novella risulta complesso: il narratore racconta più volte fatti accaduti in precedenza per poi tornare al presente.

INTRECCIO: → La novella inizia nel mezzo degli avvenimenti, con i commenti dei colleghi del protagonista che fanno ritorno dall’ospizio, dove si sono recati a trovarlo.

FABULA: · → E' possibile ricostruire la fabula secondo un ordine cronologico

° La vita impossibile a casa e in ufficio

° L'improvvisa illuminazione data dal fischio del treno

° La ribellione al capufficio e il trasferimento all'ospizio dei matti ·      

° I propositi di una vita futura

IL TEMPO

Frequente l'uso del flashback: è utile a ricostruire la storia attraverso la narrazione successiva di «pezzi» di essa, con una strategia che è simile a quella del «giallo», in cui l’autore dissemina indizi, fino alla rivelazione finale.

Il narratore rievoca il comportamento di Belluca, «vecchio somaro» secondo il giudizio dei colleghi.

Racconta della ribellione della sera precedente il ricovero.

Torna al presente per parlare delle condizioni di Belluca.

Con un altro flashback racconta la vita famigliare di Belluca e con un altro ancora, riferendo la narrazione del protagonista stesso, parla della serata in cui egli ode il treno fischiare.

Torna al presente per preannunciare quel che accadrà in seguito.

L'AMBIENTE

Possiamo distinguere tre ambienti: l’ospizio, l’ufficio, la casa. Si tratta di spazi chiusi che rappresentano l’idea di soffocamento che caratterizza la vita di Belluca.

L'ospizio: E' un luogo triste: "quel triste ospizio" che viene messo in contrasto con «il gaio azzurro della mattinata invernale». I colleghi di Belluca sono ben contenti di allontanarsene: ciò li rassicura e li fa ritornare tra coloro che sono "sani" e non pazzi come il loro collega

L'ufficio: L'attività che si svolge non è altro che un monotono lavoro di routine, di computisteria. Un lavoro, e un ambiente in cui non c'è la creatività.

L'ambiente famigliare: E' soffocante: una casa piccola, per una famiglia numerosa. Belluca è costretto a continuare il suo lavoro, di notte, senza tregua, per mantenere la famiglia.

In contrapposizione a questo spazio chiuso vi è lo spazio immaginato, dopo il fischio del treno: uno spazio aperto che è sinonimo di libertà.