GAME ZONE | Playground tra scenari virtuali e realtà

Il gioco a cui stiamo ancora giocando.

Cos’è, effettivamente il gioco e dove noi lo svolgiamo. Queste sono solo alcune delle domande che Alberto Iacovoni si pone all’interno del testo. Gamezone è un viaggio che si distingue in tre grandi e principali argomenti: il primo è il gioco, un primo passo per capire cosa sia teoricamente e praticamente nella vita dell’uomo, partendo dall’infanzia di questo; il secondo è il luogo dove questo avviene e nasce, il playground; il terzo comprende i primi due ma con la nascita della tecnologia.
Ma andiamo per piccoli passi.
Iacovoni, mette a confronto, o meglio, in realtà trova una connessione, tra il gioco e l’architettura, tra tutto ciò che è ludico, quindi un qualcosa che è astratto, con l’architettura, il pratico, il solido, per così dire. Di fatti, già nell’introduzione al testo possiamo trovare una frase fondamentale che inconsciamente ci seguirà fino all’ultima pagina: “il gioco come una qualsiasi altra funzione dell’architettura”.
Ma per prima cosa però l’autore mette ben in chiaro cosa sia gioco e cosa no.
Si parte da un punto di vista infantile con la domanda: a che gioco giochiamo? Che è una domanda che ogni bambino pone appena un suo coetaneo propone di fare un qualcosa, un gioco. E’ un porsi delle regole autonome, un delineare dei limiti per capire e comprendere a cosa si sta andando incontro. Qui troviamo il principio della cornice di riferimento, all’interno della quale si agisce per andare poi a orientarsi all’interno del gioco, potendo, questo, essere di molteplici tipologie.
Continuando con lo stesso punto di vista, quindi quello infantile, si continua a percorrere l’evoluzione che il gioco prende: il primo punto, capire di che tipologia di gioco si tratta; il secondo, capire lo scenario in cui si svolge, creare un’illusione, creare un “ambiente” il più reale possibile per ritrovarsi e divertirsi, la suddetta ri-creazione all’interno della quale si può ogni volta ricreare a nostro piacimento, muoversi in tutte le direzioni e spazi per il semplice divertimento di farlo. Altro passo fondamentale è capire quale sia il ruolo dell’individuo all’interno del gioco. Anche qui, si ritorna ad una cornice, ma questa volta di comportamento: indica, infatti, una linea immaginaria limitante per indicare che tipologia di ruolo si deve svolgere per affrontare al meglio il gioco. Si passa dall’essere oggetti all’interno di questo ad avere piena consapevolezza di sé stessi e divenire così soggetti pensanti che possono andare oltre il limite che prima sembrava invalicabile. Fondamentali le regole, perché tutti i giochi sono diversi e ognuno ha le sue regole da rispettare. Una linea sottile divide cos’è il play e cosa il game. Il primo è riferito all’azione, al portare a compimento, il secondo è la pratica, il gioco vero e proprio.
Ma ora, dopo aver ben chiaro cosa sia il gioco, ci si sposta al secondo grande, anzi immenso, argomento: il luogo. Qui subentra, finalmente, l’architettura. Una volta capito il gioco, che si fa, dove lo si fa? Nei playground. Anch’essi molteplici e con svariate sfaccettature. Iacovoni ne distingue 6.
Il primo, il playground dello sguardo, dove il cambiamento del punto di vista è fondamentale, perché si può giocare ovunque l’occhio arrivi. Tutto può essere playground e tutto può essere creato per esserlo. Di conseguenza c’è un continuo cambio di prospettiva e di vista ogni volta che lo si vuole fare, c’è la liberazione e decontestualizzazione di qualsiasi formalità che possa impedire azioni sensoriali. L’evasione che consente questo playground facilita il “perdersi” che consente la liberazione dalle costrizioni di punti di riferimento.
Il secondo, il playground del corpo nello spazio, questo consente di avere un piacere mai provato prima, cioè quello di avere, citando l’autore, “a disposizione un ambiente con cui il corpo possa liberamente stabilire nuove forme di relazione”. La forma di questo playground, ne consegue, che dovrà necessariamente avere un’architettura che non permetta di capire subito la sua funzionalità; quindi, ci sarà sempre una scoperta e una ricerca continua dello spazio e della stessa. Tutto non è ciò che sembra essere.
Altro è un playground che invade la città, il terzo. Lo spazio cittadino ha delle regole e strutture che hanno una conformazione rigida, ben strutturata, che non ammettono attività che non siano attinenti a quella determinata funzione che consente. Ci sarà una suddivisione di due concetti dell’architettura: in uno si avrà la riconquista del proprio ruolo sociale, nell’altro una nuova produzione di essa.
Si passa al quarto, il playground come New Babylon. Qui si ha la città che interagisce a pieno con la natura dell’uomo. L’identità della prima diventa una scelta aperta allo scambio e al confronto. Importanti, qui, riferimenti a progetti di città nuove e mobili, con una spazialità non definita e sempre rinnovabile. Da qui si inizia ad insinuare all’interno di questo macro-argomento, l’ultimo che si affronta nel libro. Subentra la tecnologia, che diviene strumento fondamentale per l’architettura e per il gioco stesso. Con questa si possono costruire sempre nuovi e innumerevoli playground.
Il penultimo è il playground dell’architettura, qui si scontra la solidità dello spazio e la volatilità degli elettroni, il primo materico, il secondo immateriale. Il risultato è quello di avere a che fare con una sorta di architettura istantanea dove non si separa il dato percettivo da quello comunicativo. Qui subentra a tutti gli effetti la tecnologia come strumento di modellazione di spazio e architettura e della conciliazione tra individuo e ambiente. Il campo di azione dell’architettura si espande verso un territorio immaginario per poi ramificarsi in tutte le parti del mondo. Trasformazione, dovuta alla tecnologia, è la trasformazione del mondo in un ambiente interattivo.
Con l’ultimo playground si entra effettivamente nel terzo argomento, infatti qui di parla del playground dei videogame. Nel 1971 succede qualcosa che non era mai successo prima, un fatto nuovissimo, la Atari produce il primo videogame commerciale: Computer Space. In quest’ultimo playground lo spazio di gioco diventa uno spazio completamente visuale. Inizialmente si cercava di far aderire a pieno le qualità spaziali e percettive nello schermo con quelle della vita reale, cercando un significato più profondo che di sola immagine in uno schermo. Il playground, qui, diventa labirinto per le sue forti capacità narrative e per la complessità che questo ha in sé. Ci si immerge completamente nel mondo tridimensionale anche se all’interno di uno schermo, nel videogame; infatti, importante sarà la continua ricerca di nuove tecnologie per migliorare sempre di più la qualità e la risoluzione delle immagini per far si che l’individuo sprofondi completamente in esso. Questo permette l’avvicinamento sempre più effettivo della verosimiglianza tra lo spazio del videogame e quello reale.

 

Trovo interessante vedere come l’evoluzione del gioco nel tempo e della percezione di esso segua di pari passo il passare degli anni fisici. Si parte dai primi playground e ci troviamo negli anni ’60 per poi arrivare ai giorni odierni, con le tecnologie più avanzate in qualsiasi campo, figuriamoci quello dei videogame. Punto fondamentale che mi ha fatto pensare maggiormente è l’accostamento tra architettura e gioco, effettivamente non è mai stato preso in considerazione da me né come giocatore, tantomeno come individuo esterno.
Tutto è gioco e playground, se lo si vuole. Qualsiasi luogo fisico e non può essere oggetto a nuovi e sempre diversi scenari della vita, che sia in un contesto ludico o meno. Probabilmente parte tutto dal presupposto che ognuno, al suo interno, ha, chi più chi meno, un bambino, che è sempre pronto al gioco. Divertente è stato cimentarsi, nel primo capitolo, leggendo quali fossero le domande fondamentali per la partenza di un gioco e dire “è vero, sono proprio queste le domande che ci si pone appena si vuole giocare a qualcosa, come ho fatto a non esserne mai resa conto prima”, è stato un costante confermare dell’effettività delle parole scritte da Iacovoni.


In conclusione, la mia attenzione è stata attirata maggiormente dall’accostamento tra architettura e playground, o meglio, dell’uso che si fa di essa in ambito del gioco. L’architettura è un far sentire a proprio agio l’individuo con cui entra in contatto, tramite questa si hanno percezioni differenti, diverse sensazioni e creano cambiamento all’interno di questa. Mi viene in mente, prendendo come basa del pensiero il secondo playground, che è stato anche quello che personalmente mi ha interessato maggiormente, un museo che utilizza la percezione sensoriale dell’uomo come principale attrattiva: il teamLab a Tokyo, museo attualissimo. Qui l’uomo che crea lo spazio ed è questo che dà la possibilità all’uomo di giocarci. Unica regola: essere predisposti a farlo.
La creazione costante di nuovi ambienti per dare luogo a nuove sensazioni è un fattore fondamentale per la vita e dell’architettura. Basti pensare, meramente parlando, al dare nuova funzionalità ad un’architettura che, grazie all’audacia di qualcuno, possa avere vita anche completamente diversa dalla precedente. Il fatto che tutto ciò non è come sembra è un modo di far aprire la mente e la creatività nell’individuo che quotidianamente non farebbe. C’è una scoperta, una curiosità nel capire cosa affettivamente faccia quella determinata architettura e cosa questa possa portare a farci comprendere di noi stessi. Molteplici volte mi sono trovata ad apprezzare molto di più il contenitore, piuttosto che il contenuto. E’ un mantenere attiva una parte del nostro cervello, il nostro lato infantile che ci permette, molte volte, di affrontare nuove visuali e orizzonti che prima non avremmo mai preso in considerazione.

 

GAME ZONE”| Playground tra scenari virtuali e realtà
Di Alberto Iaconvoni

Collana: “The IT Revolution in Architecture”, a cura di Antonino Saggio (Edilstampa 2006)