finale più lungo

Data pubblicazione: 29-mar-2011 7.10.50

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Ghedín volle conoscere a fondo i segreti della montagna; tornò sui Macài, si arrampicò di nuovo fino alla macchia rossa, e passò l’estate intera su quei dirupi. Un giorno vide l’avvoltoio nero che arrivava a volo con un bimbo fra gli artigli e scompariva nella macchia rossa. Subito dopo Ghedín udí cantare una voce di donna, e quando il canto cessò ricomparve l’avvoltoio che, invece del bambino, aveva fra gli artigli un piccolo uccello; si avvicinò a una gabbia vuota, l’aperse, vi chiuse dentro l’uccellino e volò via, scomparendo in un attimo fra le nubi.

Ghedín raccolse tutte le sue forze per arrampicarsi anche piú in alto, e arrivare al luogo dove doveva essere avvenuta la trasformazione: si trovò cosí in una coronella, cioè una larga cengia, fiorita di stelle alpine. E nelle rocce sovrastanti, tutte screpolate e piene di spaccature, scoperse il nido. Nascosto in una fessura della roccia, lo tenne d’occhio per parecchi giorni, finché, una sera, vide apparir di nuovo l’avvoltoio con un altro bambino; lo vide deporre il bimbo piangente e spaurito sulla coronella, poi trasformarsi nella Filadressa e cullarlo dolcemente fra le braccia. Dopo pochi momenti il bambino s’era cambiato in uccello e la Filadressa, ripresa la sua orribile forma di avvoltoio, andava a chiuderlo in una delle gabbie.

Al primo sguardo Ghedín aveva avuto la certezza che la bella Filadressa non fosse altri che la pittrice del monte Falòria: credendo di non essere stato notato da lei, restò a lungo a osservare le sue andate e venute. Ma ella l’aveva riconosciuto fin dalla prima volta, e un giorno gli rivolse la parola:

- Tos, ce fes-to su chesta crodes? (Giovane, che fai su queste rocce?).

- Son venuto per rivederti, rispose Ghedín, e per chiederti ancora una volta se vuoi essere mia moglie. Sei tanto bella, che vorrei guardarti sempre. Sei un po’ cambiata, è vero, ma io so che è opera d’incanto; vedo bene che sei sotto il dominio di una cattiva Strega e te ne voglio liberare.

La Filadressa lo guardò a lungo, pensosa; poi gli disse:

- È una cosa molto, molto difficile; chi volesse davvero liberarmi dovrebbe prima di tutto finire quell’affresco che io lasciai incompiuto a Miljera.

- Io l’ho finito, disse Ghedín, e tutti quelli che l’han visto hanno detto che era fatto bene.

La Filadressa, sorpresa, guardò ancora lungamente e in silenzio, il bravo giovane.

- Tu conosci il principio della mia storia. Sappi dunque che per vendicarmi di Verlòj chiamai in aiuto la Svalazza; ho avuto cosí la vendetta, ma ho perduto la mia libertà: mi son data in potere della Strega, e ora son costretta a ubbidirle.

Dopo un breve silenzio pieno di ricordi tristi, la fanciulla riprese:

- Fra poche settimane l’estate sarà finita, e un freddo intenso verrà sui Macài: non aspettarlo, Ghedín; torna a Miljera, e passa l’inverno laggiú. Ma quando i giorni lunghi torneranno e il sole splenderà di nuovo sulle Dolomiti, se tu pensi ancora a me, torna qui e ci riparleremo.

E lo lasciò.

Ghedín ubbidí e scese a Miljera, dove abitava sua madre. L’inverno trascorse rapidamente. Ghedin passava le intere giornate nella sua stanza a dipingere un piccolo quadro, e la madre sola conosceva il suo lavoro. Ma il lavoro era difficile; non gli riusciva. Piú volte lo distrusse e lo cominciò da capo, mettendo nell’opera l’opera tutta l’anima sua. Era un ritratto della Filadressa.

E quando i giorni lunghi tornarono, e i monti ampezzani furono di nuovo inondati di luce e di colori, il quadro era finito. Ghedín lo mise nella refa (sacco a spalla) e parti per il Soràpis, alla ricerca della coronella. Arrivato lassú trovò la Filadressa, le donò il quadro e le ripeté ancora una volta la sua proposta di matrimonio.

La fanciulla fu commossa da tanta fedeltà:

- Tu sei il solo, gli disse, che mi abbia veramente compresa, lo vedo da questo quadro; ma ti pentirai della tua proposta, quando avrai visto l’orribile deformità della mia persona.

E alzando le braccia, che aveva sempre tenute nascoste sotto il mantello scuro, fece vedere a Ghedín che al posto delle mani aveva due artigli d’avvoltoio.

Ghedín restò inorridito; ma dopo un momento riprese animo e le disse coraggiosamente:

- Non importa. Continuerai a fare come hai fatto finora, terrai le braccia sempre sotto il mantello, e lascerai vedere soltanto il tuo bel viso.

Gli occhi della fanciulla brillarono di gioia: ella alzò di nuovo le braccia, e Ghedin, felice, vide al posto degli artigli le belle mani gentili della pittrice. La costanza del suo amore aveva rotto l’incantesimo.

- Ora devo ridare la libertà ai bambini rubati.

Per l’ultima volta la Filadressa prese la forma d’avvoltoio e apri tutte le gabbie: cantando gioiosamente, gli uccellini ne uscirono e volaron subito alle loro rispettive case, dove, posandosi sui loro letti, ripresero l’aspetto di bambini.

La Filadressa e Ghedín si sposarono.

Nessuno seppe mai che cosa fosse avvenuto del grande avvoltoio: soltanto Ghedín conosceva il segreto, e si guardò bene dal rivelarlo. Nella sua famiglia però se ne è conservata fino in tempi recenti la tradizione.

Oggi non c’è piú traccia del villaggio di Miljera; ma il sangue dell’antica pittrice si trasmise alle genti dell’Ampezzano, e un poco ne scorreva nelle vene della povera montanara che, in una casa di Campo di Sotto, presso Cortina, diede alla luce Tiziano Vecellio: l’artista sovrano, che nella sua pittura trasfuse meravigliosamente le luci e i colori delle montagne native.

Fra i discendenti di Ghedín e della sua sposa ci sono anche le numerose famiglie ampezzane dei Ghedina e dei Ghedini, che hanno già dato e continuano a dare valentissimi artisti, specialmente pittori: e l’origine del loro talento risale alla loro antenata del Monte Falòria