"Si cunta e si raccunta" che due fratelli ed una sorella, dei quali il tempo ha però cancellato il nome, contendendosi il predominio sul nostro territorio abbiano deciso di dirimere ogni possibile futura controversia stabilendo concordemente di costruire, ognuno per proprio conto, un castello sulle alture di tre siti diversi del nostro entroterra. Chi dei tre per primo avesse portato a compimento l'opera avrebbe avvertito per mezzo di un grande falò gli altri due che a questo punto, in ossequio al patto, avrebbero lasciato campo libero all'unico vincitore. Poco sportivamente però, e non senza un pizzico di malizia tutta femminile, la donna accese il fuoco molto prima che il suo castello fosse realmente ultimato e così i troppo fiduciosi fratelli, convinti di essere stati battuti, lasciarono campo libero alla furba sorella abbandonando ancora incompiuti i castelli di Settesoldi e di Mokarta dei cui ruderi ancora esiste, in realtà, qualche traccia. La sorella invece, non più assillata dall'urgenza della gara, ebbe tutto il tempo e la calma per ultimare la sua fortezza che nonostante abbia subito tre terremoti, rispettivamente nel 1693, nel 1783 e nel 1968, e l'onta forse ancora più grave dell'incuria degli uomini, fa ancora bella mostra di sé sull'acropoli della nostra Città.
Un'altra leggenda un po' meno conosciuta narra di uno stivale pieno di monete d'oro e di pietre preziose che l'Imperatore Federico II di Svevia avrebbe donato al valoroso guerriero arabo Al Mukhim per premiarlo della sua fedeltà. Questi, prima di partire per la Terra Santa al seguito del suo munifico Imperatore, pensò bene di mettere al sicuro il prezioso tesoro in un nascondiglio, solo a lui noto, fra le mura del nostro Castello. Al Mukhim, purtroppo, caduto in un'imboscata, non fece più ritorno dalla Palestina ed il suo prezioso stivale sta ancora aspettando di dare la ricchezza a qualche fortunato Indiana Jones locale.
Un'altra leggenda sfidava chiunque volesse provarci a percorrere la distanza che intercorre tra la Chiesa di San Francesco di Paola attraverso le vie Mazara, Duca degli Abbruzzi, La Rocca e D'Aguirre fino a Piazza Alicea nello spazio di tempo in cui, a mezzanotte in punto, il grande orologio posto sul campanile della Chiesa Madre rintoccava i suoi tradizionali centouno colpi. Se il velocissimo maratoneta fosse riuscito ad arrivare prima del suono del centounesimo colpo, nella piazza antistante il Castello avrebbe visto aprirsi una "truvatura", ossia una voragine all'interno della quale, custodito da un feroce drago che per l'occasione si sarebbe astenuto dal lanciare fuoco e fiamme, si trovava un favoloso tesoro. Dimenticavo un piccolo particolare: l'eroico concorrente, oltre a percorrere la prescritta distanza stimata in un paio di chilometri in ripida salita recitando preghiere e giaculatorie propiziatrici, aveva l'obbligo di tenere in mano un bicchiere colmo d'acqua fino all'orlo senza farne cadere neppure una goccia: pena la mancata apertura della "travatura". Di questa leggenda esiste una variante del tutto simile, tranne per un particolare: invece che con un bicchiere d'acqua il concorrente doveva vedersela con una melagrana da sgranare in corsa senza farne cadere nemmeno un chicco.
A qualche nonno, poi, particolarmente arguto e se vogliamo anche un po' burlone, pregato di dare un po' di "trùccu", di "còcciu" o di "addimmùru" al bambino per consentire un momento di relax ai suoi genitori, non era difficile far credere all'innocente nipotino dell'esistenza di un mercato o di una fiera che in determinate condizioni dava la possibilità al potenziale acquirente di trasformare in oro qualunque merce fosse venuta a contatto con la sua mano. Unica condizione era che questo Re Mida ante litteram sconoscesse sia questa sua capacità sia la particolare fiera nella quale la stessa si sarebbe evidenziata. Ne veniva fuori l'assurdo sillogismo per cui se il bambino avesse rinunziato a conoscere il segreto del resto mai svelato dal nonno non sarebbe mai venuto a conoscenza delle proprie potenziali capacità; se invece avesse insistito per conoscere l'arcano, per il fatto stesso di esserne venuto a conoscenza, avrebbe perduto per sempre i suoi poteri.
Ma il racconto più fascinoso, al punto da apparire quasi una storia assolutamente vera, era quello che si riferiva alla " Montagna d'oro ", collinetta situata al confine tra il territorio di Salemi e quello di Santa Ninfa, nella sua volgarizzazione popolare conosciuta come "Munnùra", toponimo che com'è facile intuire deriva dalla crasi dei due termini "Munti " e "d'oru". Sulle sue pendici, mimetizzata da rovi ed arbusti, si apre l'ingresso di una grotta che si sviluppa inizialmente in verticale per distendersi poi, sia pure disagevole ed impervia, in linea retta. Vi si procede a stento, solo a patto di avere il coraggio di superare parecchi ostacoli, quali strettoie da contorsionisti, sordi rumori e viscidi appigli. Superata questa fase, dopo avere percorso alcune centinaia di metri, in effetti si offre allo sguardo uno spettacolo di non comune bellezza: un vano grandissimo, paragonabile alla navata di una chiesa, dalla cui volta a cupola quasi regolare pendono una grande quantità di stalattiti che sfiorati dalla luce di una fiaccola o di una torcia elettrica assumono il colore dell'oro. Naturalmente si tratta solo di concrezioni di carbonato di calcio che a causa di materiali ferrosi presenti negli strati del terreno soprastante filtrati dall'acqua piovana assumono un colore ramato con venature giallastre, ma a Natale non costa nulla sognare immaginando trattarsi di pepite. Così qualche nostro avventuroso antenato munito di tanta fantasia e spirito d'avventura, ritornato alla luce del sole, non avrebbe potuto raccontare altro ad amici e familiari che di avere scoperto una montagna d'oro. Da qui una vera e propria corsa al prezioso metallo degna dell'epopea del giovane Paperon de' Paperoni nel mitico Klondyke. Il miraggio dell'oro trasformò in impavidi avventurieri anche coloro i quali di coraggio non abbondavano affatto e così in molti, vincendo l'iniziale titubanza, si precipitarono a "Munnùra" per carpire più oro possibile alla montagna e cambiare il corso della loro vita. La Montagna, però, per quanto apparentemente muta, fredda e silenziosa, non era dello stesso avviso e non ci stava a farsi derubare. Così, non potendo impedire che i cercatori d'oro riempissero le loro bisacce mentre si trovavano all'interno della grotta faceva in modo che nessuno potesse uscirne: almeno fino a quando anche l'ultimo granellino non fosse stato rimesso al suo posto. Qualcuno cercò di fare il furbo facendo inghiottire qualche sassolino al proprio cane ma anche il povero animale fu costretto a restare all'interno della grotta almeno fino a quando non soddisfece il bisogno di evacuare. Un anziano signore raccontò di non essere riuscito a riguadagnare l'uscita neanche dopo avere completamente svuotato le tasche e persino i risvolti dei pantaloni. Solo dopo essersi completamente denudato per liberarsi anche di qualche particella di pulviscolo d'oro eventualmente imprigionata nella trama della stoffa dei vestiti riuscì a rivedere la luce del sole. Come tutte le favole anche quelle da noi qui ricordate hanno una morale: toglietevi dalla testa di arricchire con poco o nessun sacrificio. Fare tantissimi soldi in poco tempo e moltiplicarli magari buttandosi in politica è, infatti, un privilegio riservato solo a pochissimi…. Io non ho detto niente ma conoscendo la vostra malizia immagino già a chi state pensando. Birichini …! E così tutto il tesoro continua a celarsi nel ventre della "Montagna d'Oro". Un tesoro fatto, in realtà, non tanto di pepite o di altre pietre preziose ma di saggezza, di cultura, di fantasia, di perspicacia, di tradizioni della nostra terra. E là resterà ancora a lungo: almeno fino a quando qualcuno vorrà ascoltare una favola e qualcun'altro sarà felice di raccontarla.