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Plastica Questa Sconosciuta

Ad ogni plastica il suo codice di riciclo secondo la direttiva europea 94/62/CE: un numero racchiuso in un triangolo e una sigla identificativa della struttura chimica. Immagine e fotografie di F. Cicogna, S. Coiai e S. Bronco.

I materiali che nel linguaggio comune vengono chiamati plastiche fanno parte di una classe di molecole nota con il nome di macromolecole o polimeri (dal greco poli-meros, molte-parti) caratterizzata da un elevato peso molecolare, per la presenza di moltissimi atomi ciascuno con il proprio peso, e costituita da molte molecole più piccole concatenate l’una all’altra. I polimeri possono quindi essere rappresentati come catene costituite da tanti piccoli blocchi l’uno uguale all’altro e possono essere sia lineari che ramificati o reticolati. Ne esistono sia di naturali (proteine, polisaccaridi, acidi nucleici, etc.) che di sintetici (polipropilene, polistirene, polietilene tereftalato, nylon, etc.) e possono essere classificati in base alle loro proprietà termo-meccaniche in tre grossi gruppi: plastiche, elastomeri e termoindurenti. Molti dei materiali con cui sono fatti gli oggetti di uso comune sono delle plastiche da un punto di vista del loro comportamento termo-meccanico. Da qui deriva che, spesso nel linguaggio comune, ci si riferisce alle plastiche ogni volta che si ha a che fare con un qualsiasi polimero.

Le molecole che costituiscono una catena polimerica possono essere tutte uguali oppure possono essere di natura diversa, cosicché in questo secondo caso si parla preferenzialmente di copolimeri invece che di polimeri. Il tipo di molecole che costituiscono il polimero ne determinano il nome: ad esempio, il polistirene (forse meglio conosciuto come polistirolo) è formato da molecole di stirene (o stirolo) legate tra loro, mentre il polietilene è composto da molecole di etilene, la gomma nitrilica, con la quale sono fatti i guanti usa e getta anallergici, è invece un copolimero. La natura diversa delle molecole che costituiscono i polimeri così come la lunghezza della catena polimerica, hanno effetto sulle proprietà finali del materiale. Esistono polimeri che si definiscono amorfi in cui le cui catene possono essere paragonate ad un piatto di spaghetti disordinati, i quali, al di sotto di una certa temperatura (il termine tecnico è temperatura di transizione vetrosa), sono fragili e se si prova a piegarli si spezzano, mentre al di sopra di tale temperatura sono fluidi viscosi. Altri polimeri sono semi-cristallini, in cui molte delle catene che li costituiscono sono ben ordinate e vicine le una alle altre dando luogo ad una disposizione spaziale ordinata e ripetente (il cristallo), che conferiscono al materiale caratteristiche di rigidità almeno sotto ad una certa temperatura (temperatura di fusione).

Ovviamente, ogni materiale, in base alle sue caratteristiche, ha anche applicazioni differenti. Ad esempio, il polistirene, che è un polimero amorfo, è utilizzato per la realizzazione delle posate e dei piatti usa e getta ed anche per il materiale espanso per imballaggio, mentre la gomma nitrilica è più adatta alla realizzazione dei guanti, sfruttando la sua flessibilità.

Per poter distinguere i vari tipi di plastica sono utilizzati dei simboli, che sono accettati universalmente, in modo che possano essere interpretati da chiunque. Sugli oggetti in plastica realizzati negli ultimi anni, e che si trovano comunemente nelle nostre case, è presente un simbolo a forma di triangolo formato da frecce. All’interno del triangolo compare un numero e sotto spesso c’è una sigla. Le frecce presenti sul triangolo suggeriscono che il materiale può essere riciclato. Il numero identifica il tipo di materiale. Il numero 1 ad esempio è associato al PET (PoliEtilene Tereftalato), il materiale di cui sono fatte le bottiglie per l’acqua e le bibite, mentre il simbolo 2 si riferisce al polietilene ad alta densità (HDPE, dall’inglese High Density PolyEthylene) e si può trovare sui tappi delle bottiglie di acqua e delle bibite. Le sigle rappresentano il tipo di materiale, quindi ad esempio PET o HDPE.

Da quanto detto fino ad ora emerge che la maggior parte della plastica di uso comune è prodotta industrialmente utilizzando materie prime non rinnovabili o più precisamente rinnovabili solo su scala di tempi geologici come il petrolio. Pertanto è necessario prendere consapevolezza di questo aspetto nel momento in cui compriamo oggetti in plastica e soprattutto quando gli stessi diventano rifiuto. Al contrario dei prodotti naturali, quali ad esempio il legno che se abbandonato nell’ambiente viene completamente decomposto, la maggior parte dei prodotti in plastica fanno parte di un ciclo di produzione e di smaltimento aperto. Questo perché si sfruttano risorse non rinnovabili e si generano prodotti che la natura non è in grado di decomporre in tempi ragionevoli.

E’ pertanto fondamentale gestire correttamente i rifiuti e differenziarli. La raccolta differenziata risponde a due esigenze fondamentali: (1) separare i rifiuti per tipologia avviandoli ad un corretto percorso di riciclo e (2) raccoglierli evitando di disperderli nell’ambiente. Tuttavia ogni volta che decidiamo di disfarci di un oggetto generando un rifiuto tutti noi siamo chiamati a riflettere, non solo su come sia più corretto smaltirlo, ma anche se abbiamo fatto di tutto per evitare di produrlo o se ci fossero state valide alternative al suo utilizzo. Per essere attori principali nella gestione dei rifiuti, infatti, dovremmo prima di tutto cercare di rispettare quella che viene chiamata la regola delle 5R: Ridurre, Riutilizzare, Raccogliere differenziando, Riciclare, Recuperare energia.

Piramide delle 5R. Immagine di F. Cicogna, S. Coiai e S. Bronco.

In prima battuta i rifiuti possono essere ridotti scegliendo ad esempio prodotti che abbiano minori volumi e pesi di imballaggio ed evitando gli sprechi (RIDURRE). Successivamente, prima di definire un oggetto rifiuto, dovremmo considerare la possibilità di riutilizzarlo altre volte per lo scopo per cui era stato acquistato o per altri (RIUTILIZZARE). Dovremmo inoltre imparare a distinguere i materiali con cui sono costituiti gli oggetti di cui vogliamo disfarci, perché questo è alla base di una corretta differenziazione e ci permette di conferirli separatamente secondo le modalità di raccolta (RACCOGLIERE DIFFERENZIANDO). RICICLARE ovvero recuperare materia dai rifiuti è possibile. Esistono dei cammini virtuosi che tutti noi conosciamo, ad esempio per il vetro, per la carta e l’alluminio. La tecnologia ha fatto però importanti passi in avanti anche per le plastiche. Se separate singolarmente, come ad esempio nel caso del PET (il materiale delle bottiglie), è possibile ottenere, mediante fusione, materia prima secondaria (rPET), che per normativa può essere riutilizzata anche per fare bottiglie per bibite oppure si può ottenere un PET di più scarso valore usato per produrre maglioni in pile, tappeti, moquette, imbottiture. Esiste anche il “misto plastica” (ovvero un insieme di plastiche diverse) che, se non separato, può essere ricombinato per ottenere un materiale che ha proprietà inferiori rispetto a quelle dei polimeri vergini, ma che può essere comunque impiegato per ottenere oggetti per arredi urbani, edilizia o agricoltura. Infine, se la produzione dei rifiuti non può proprio essere evitata, se gli oggetti non possono essere più riutilizzati e non sono riciclabili, allora si può pensare di recuperare energia ad esempio attraverso i termovalorizzatori (RECUPERARE ENERGIA).

Le plastiche non sarebbero poi così diverse da un metallo o dalla carta o dal vetro se fossero prese singolarmente, perché ognuna ha delle caratteristiche proprie e diverse dalle altre come la temperatura di fusione o di rammollimento. Tuttavia non è facile riconoscerle, visivamente si assomigliano, ed inoltre vengono spesso usati diversi tipi nello stesso manufatto. Si pensi ad esempio alle bottiglie dei saponi e alle bottiglie per bibite e acqua dove il flacone o il tappo è spesso in PET, ma il tappo in HDPE oppure nei film multistrato per imballaggio alimentare dove per ragioni legate alle performance del film vengono assemblati film di materiali diversi. Tutto ciò fa sì che nel cassonetto del multimateriale finiscano molti diversi tipi di plastiche e quindi il processo di riciclo sia fortemente dipendente da tutte quelle operazioni di separazione e selezione ulteriore che vengono fatte negli impianti industriali di riciclaggio.

Polistirene, un’unica formula chimica per due materiali così diversi: PS rigido e PS espanso. Immagine e fotografie di F. Cicogna, S. Coiai e S. Bronco.
Fili in PLA, materiale plastico biodegradabile, da utilizzare per la stampa in 3D. Fotografia di F. Cicogna, F.Coiai e S. Bronco.

Tuttavia recentemente hanno cominciato a farsi largo nel mercato e nell’idea del consumatore le plastiche biodegradabili e quelle compostabili. Purtroppo, parallelamente alla loro pubblicizzazione non è seguita una attenta informazione su che cosa siano realmente, come si possano riconoscere e come vadano conferite a fine vita. Si è percorsa, invece, una strada che ha preferito mettere in evidenza il maggiore costo del materiale rispetto al materiale di pari proprietà, da sempre utilizzato e realizzato in plastica tradizionale, costo che è stato esplicitato nella spesa del consumatore, senza realmente far passare in maniera chiara il concetto della possibilità di essere conferito nella raccolta dell’umido in maniera opportuna, cioè allontanando l’etichetta che al momento non è ancora in materiale compostabile.

Nella struttura chimica, le plastiche biodegradabili e compostabili sono catene come quelle descritte precedentemente. L’unica differenza risiede nel fatto che tali catene possono essere degradate dai microorganismi producendo molecole non tossiche per l’ambiente in un tempo ragionevolmente rapido e molto più velocemente delle plastiche tradizionali. Questa loro differenza li rende però diverse anche per i sistemi di raccolta e riciclo delle plastiche tradizionali. In aggiunta a questo, per le plastiche compostabili il processo di degradazione avviene insieme ai rifiuti umidi raccolti nei sistemi di compostaggio. Bisogna fare attenzione e sapere, però, che il sistema di compostaggio domestico non riproduce le condizioni del compostaggio industriale e quindi, anche in questo caso si devono seguire le indicazioni presenti sulla confezione quando si conferiscono alla raccolta differenziata. In conclusione, anche se per questi materiali esiste un percorso di riciclo virtuoso (es. il compostaggio), tali materiali non devono comunque essere dispersi nell’ambiente, perché in questo caso si comportano in maniera analoga alle plastiche tradizionali, andando ad inquinare mari fiumi e spiagge.

Immagine e fotografie di F. Cicogna, S. Coiai e S. Bronco.

Video divulgativi

Si tratta di video che illustrano alcune delle attività di ricerca del gruppo IPCF del CNR (Istituto per i Processi Chimico Fisici) svolte nell’ambito di finanziamenti europei e svolti con la collaborazione di enti di ricerca e aziende del panorama europeo relative alla realizzazione di manufatti per l’imballaggio alimentare, Il catering o il settore agricolo che hanno principalmente la caratteristica di essere realizzati con materiali plastici biodegradabili e/o compostabili, proponendosi quindi come alternativa agli stessi manufatti realizzati con plastiche tradizionali riciclabili, oppure con materiali plastici o fibre vegetali ottenute dalla valorizzazione di scarti dell’industria alimentare e conserviera attraverso processi di conversione dello scarto e ottenimento di biomolecole trasformabili in bioplastiche o additivi.

Approfondimenti a cura di:

Simona Bronco - CNR Istituto per i Processi Chimico Fisici

Francesca Cicogna - CNR Istituto di Chimica dei Composti Organometallici

Serena Coiai - CNR Istituto di Chimica dei Composti Organometallici