La relatività delle categorie

Post date: 8-apr-2014 16.01.01

... Entriamo pertanto nell'ambito di un nuovo principio di relatività che sostiene che tutti gli osservatori non sono affatto condotti, dalla stessa evidenza fisica, a una stessa immagine dell'universo, a meno che i loro retroterra linguistici siano simili... Noi ritagliamo e organizziamo il disperdersi e il fluire degli eventi, e se lo facciamo in così larga misura, ebbene, questo non accade perché la natura stessa è segmentata proprio in quel modo, ma perché, attraverso la lingua materna, siamo noi a stabilire che le cose stiano così (Whorf, 1952, p. 21)

Ad esempio nelle lingue indo-europee i sostantivi, gli aggettivi e i verbi operano come unità grammaticali di base, mentre una frase è, in sostanza, una combinazione di queste parti. Per quanto riguarda le categorie del pensiero occidentale, a partire da quelle aristotelche di "sostanza", "attributo" e "azione" per giungere sino alle antitesi tra materia e forza e tra massa ed energia che si hanno nelle scienze fisiche, è fondamentale questo schema centrato su una identità persistente e separabile dalle sue proprietà, e su un comportamento attivo o passivo.

Le lingue indiane, come il Nootka (Isola di Vancouver) o il linguaggio Hopi, non hanno parti nel discorso, o soggetti e predicati separabili. Esse indicano piuttosto un evento nella sua globalità. Mentre noi diciamo "si è accesa una luce", oppure "esso (un ente dubbio e ipostatizzato) ha lampeggiato", nel linguaggio Hopi si usa un solo termine, "lampo (verificatosi)".

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I linguaggi indo-europei pongono in primo piano il tempo. Lo "scambio di reciproche concessioni" tra linguaggio e cultura porta, secondo Whorf, alla stesura di documenti, di resoconti e di strumenti matematici sotto lo stimolo della contabilità; alla preparazione di calendari, di orologi, di teorie cronologiche e al concetto di tempo così come viene utilizzato in fisica; all'attitudine storica, all'interesse per il passato, all'archeologia, ecc. ...

Tuttavia la distinzione autoevidente - per noi - tra passato, presente e futuro non esiste nellinguaggio Hopi. In esso non si fanno distinzioni tra i tempi, e ci si limita a indicare la validità di un'asserzione: fatto, memoria, prevedibilità, abitudine. Nel linguaggio Hopi non esiste alcuna differenza tra "egli corre", "egli sta correndo", "egli corse": tutto questo viene indicato con wari, "si ha il correre". La possibilità che questo accada viene resa mediantewarinki ("si ha il correre, [io] oserei dire"), che sta per "egli correrà, egli vorrà, potrebbe, vorrebbe correre". Se però si tratta dell'asserzione di una legge generale, si usawarikngwe ("si ha il correre, come caratteristica") (La Barre, 1954, pp. 19 et segg.). L'individuo Hopi non ha alcuna nozione generale o intuizione del tempo inteso come un continuo fluente in modo regolare ed entro il quale tutte el cose dell'universo procedono a ritmo costante, andando verso il futuro, attraversando il presente, penetrando nel passato" (Whorf, 1952 p. 67). Lo Hopi non distingue le nostre categorie di spazio e di tempo, ma piuttosto "ciò che è manifesto", tutto ciò che è accessibile ai sensi, senza porre alcuna distinzione tra presente e passato e inglobando nel "non manifesto" sia il futuro che quanto noi definiamo con l'aggettivo "mentale". Nel linguaggio dei Navaho (cif. Kluckhohn e Leighton, 1951) i tempi sono assai poco sviluppati; l'accento è sui tipi di attività, e si distinguono degli aspetti dell'azione che sono durativi, perfettivi, ripetitivi, itarativi, optativi, semifattivi, momentanei, progressivi, transitivi, volitivi, ecc. La differenza tra questi linguaggi può essere difinita affermando che il principale punto di interesse della lingua inglese è il tempo (e questo vale, in generale, per il linguaggio indo-europeo), quello della lingua Hopi p la validità, e quello della lingua Navaho è il tipo di attività (comunicazione personale del prof. Kluckhohn).

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Ludwig von Bertalanffy

Teoria generale dei sistemi, cap. 10