Ponti sul Danubio

Le fonti:

Cassio Dione , Storia Romana, LXVIII, 13 , 1:

“Traiano fece costruire un ponte di pietra sull’Istro (antico nome del Danubio) per il quale non posso degnamente esprimere la mia meraviglia. Questo era infatti rispetto alle altre opere meravigliose promosse da Traiano , quella che le superava tutte . Infatti è composto da venti piloni di blocchi in pietra squadrati, per un altezza di centocinquanta piedi (circa 45 metri) senza contare le fondamenta, mentre la larghezza è di sessanta piedi (circa 18 metri). Questi piloni che distavano l’uno dall’altro centosettanta piedi (circa 51 metri), erano uniti da archi. Chi non proverebbe stupore per la spesa fatta per questa costruzione? e come d’altronde non meravigliarsi del modo stesso in cui ciascun pilone sorgeva , in un grande fiume , in mezzo ad una corrente piena di gorghi e su un fondale molto melmoso? infatti non fu possibile deviare il corso del fiume. Ho parlato della larghezza del fiume, ma essa non è sempre uguale, anzi qualche volta si raddoppia o si triplica, fino a parere un mare , ma anche il punto più stretto e più adatto a un ponte, è larghissimo. In verità quanto più nella sua discesa da una grandezza pari a quella di un mare si restringe in una gola (Porte di Ferro) per poi nuovamente fluire più grande del mare stesso , tanto più diventa impetuoso e profondo, così che anche questo particolare spiega l’estrema difficoltà per la costruzione del Ponte. L’altezza di ingegno di Traiano risulta evidente anche da questa impresa. Tuttavia ai nostri giorni il Ponte non offre alcuna utilità, poiché si ergono sul fiume senza alcuna funzione, i soli piloni, non offrendo così alcuna possibilità di transito, quasi che esistessero soltanto per mostrare che non vi e’ nulla che l’uomo non possa fare. Infatti Traiano temendo che l’Istro in qualche periodo dell’anno si potesse congelare e che quindi la guerra dovesse essere condotta dai Romani al di la’ di esso , fece costruire il ponte affinché il passaggio risultasse facilitato proprio grazie alla sua presenza. Ma Adriano temendo che per i barbari, una volta sgominate le guarnigioni a presidio del ponte, fosse molto facile passare in Mesia, fece rimuovere la sovrastruttura di quest’opera”

MP CAESAR DIVI NERVAE F / NERVA TRAIANVS AVG GERM / PONT MAX TRIB POT V P P COS IIII / OB PERICVLVM CATARACTARVM / DERIVATO FLVMINE TVTAM DA / NVVI NAVIGATIONEM FECIT

[...] Traiano [...] deviato il fiume a causa del pericolo delle cateratte, rese sicura la navigazione sul Danubio.

Localizzazione dell'area di Drobeta

Il corso del Danubio nei pressi delle Porte di Ferro

Il corso del Danubio nei pressi della Tabula Traiana (Serbia)

Ciò che resta dei piloni originari del ponte su una della due rive del Danubio

Busto di Apollodoro di Damasco (?), Munich Glyptothek, Germania

Procopio di Cesarea - Degli edifizii (De Aedificiis), IV, 6 [VI sec. d.C.]

Mostrandosi l’imperadore Traiano, principe di gran mente, e sommamente operoso, insofferente che l’Impero ivi non avesse termine, ma fosse finito per fatto dell’Istro, pensò di congiungere le due sponde mediante un ponte, onde liberamente passare quante volte volesse assalire i Barbari stanzianti di là. Come poi costruisse quel ponte io non mi affaticherò a dirlo: tocca a descriverlo ad Apollodoro damasceno, che fu l’architetto di tanta opera. Ma niun conforto ne provenne poi ai Romani, perché e per la forza dell’Istro, e per quella del tempo, quel ponte cadde. Traiano intanto avea piantati due castelli sopra entrambe le rive: quello che era sulla riva opposta fu chiamato di Teodora; e l’altro posto nella Dacia, con nome latino fu detto Ponte. E perché pei rottami, e i fondamenti del ponte il fiume soffre impedimento da rendersi affatto innavigabile, vien costretto a mutar corso; indi a ritornare nel suo alveo, e a sostenervi le navi. Per antichità ed opera de’ Barbari ruinati i due castelli, Giustiniano Augusto con nuova e robustissima fabbrica rifece quello chiamato il Ponte posto sulla sponda destra; e mise da quella parte in sicuro gl’Illirii. Quello poi di Teodora, che era sulla sponda sinistra, trascurò, come quello che era esposto ai Barbari colà stanziati. Dopo questo castello di Ponte cosi ristaurato, altri luoghi forti nuovi ivi da lui eretti sono, Mareburgo, Susiana, Armata, Timena, Teodoropoli, Stiliburgo, ed Alicaniburgo.

Claudio Magris, Danubio, Milano, Garzanti, 1986

«Alle Porte di Ferro.

L'aliscafo per le Porte di Ferro parte da Belgrado, presso la confluenza della Sava nel Danubio. Mentre si avvia, nonna Anka mi mostra, con un gesto, un punto della città nel quale, durante il bombardamento tedesco del 6 aprile 1941, lei è rimasta un giorno sotto le macerie insieme al suo secondo marito, naturalmente illesa, anzi illesi entrambi. Il sole sorge sul fiume, trasforma le onde e la nebbia in un riverbero abbagliante. Scendiamo veloci il Danubio, lungo le coste dove la lapide di Traiano ricorda le campagne contro i daci del re Decebalo, su acque che, prima della recente costruzione della grande chiusa e della grande centrale idroelettrica di Djerdap, al confine jugoslavo-romeno e in prossimità di quello bulgaro, erano piene di insidie, di vortici e di pericoli. La gigantesca impresa, che produce una grande quantità di energia, ha modificato il paesaggio e cancellato molte tracce del passato; fino a pochi anni fa, per esempio, c’era ancora sul Danubio l’isola di Ada Kaleh, con la sua popolazione turca, i suoi caffè e la sua moschea; ma ora Ada Kaleh è scomparsa, sommersa dal fiume, appartiene al tempo lento e incantato del fondo delle acque, come la mitica Vineta del Baltico.

Alle Porte di Ferro, il generale romano Gaio Scribonio Curione, nel 74 a. C., scriveva di provare ripugnanza ad addentrarsi nelle cupe foreste oltre il del Danubio – quasi egli, rappresentante di una civiltà ordinata e conquistatrice, avesse un’oscura ripugnanza davanti a quella plurima stratificazione di popoli e culture, mescolate e indistinte, testimoniata anche oggi da ciò che affiora negli scavi di Turnu-Severin Giro per la centrale elettrica, mescolandomi a scolaresche in visita d’istruzione, La centrale ha un’inesorabile grandiosità, suggerisce un epos minaccioso ed eroico; il documentario cinematografico che ci viene ammannito ne racconta la costruzione e mostra titanici blocchi di pietra gettati nel fiume, lo spaccarsi e il fendersi delle acque, l’avanzare inarrestabile delle enormi ruote di camion. Abituati alla continua critica del progresso e preoccupati dagli squilibri ecologici, ci si sente sorpresi dinanzi a questa saga da piano quinquennale, a queste immagini del trionfo della razionalizzazione e della tecnica sulla natura e ci si chiede se quelle acque incatenate dal cemento siano domate o soltanto represse e cupamente pronte a vendicarsi.

Ma quest’epica, che ricorda gli acquedotti romani, le strade tagliate da Tamerlano fra le montagne o gli elefanti di Kipling, ha una sua grandezza e una poesia sovrapersonale, che l’angosciata e certo comprensibile contestazione della tecnica, dalla quale è pervasa la nostra cultura, non ci permette di avvertire. Forse bisognerebbe guardare a queste piramidi moderne senza enfasi progressista e senza terrore apocalittico, dando a ciascuno il suo, come Kipling che nei «Costruttori di ponti» fa parlare imparzialmente gli ingegneri britannici e gli dèi indiani, celebrando e insieme relativizzando le fatiche d’Ercole del progresso. Il filmato, pur splendido e incisivo, non è esente da un’implicita retorica di regime, neutralizzata peraltro dagli scolari che, invano sgridati da belle e bonarie maestre, gettano petardi nel buio della sala d proiezione e si prendono a sberle, ristabilendo l’equilibrio fra la serietà del lavoro e l’impertinenza della vita.