La Neve Rossa

Muccia 1944: l'incubo della guerra civile diventa realtà.

Neve e sangue nel libro di Mario Mosciatti sulla resistenza nel 1944 incentrato sui fatti di Muccia e d'intorni con all'interno un'ampia testimonianza di nostro zio Lucio:

"Neve e sangue nei ricordi di Lucio Antognoli il milite fascista che rimase ferito durante l’assalto dei partigiani del gruppo di Massaprofoglio alla sede del presidio di Camerino."

Qui sotto trovi l'introduzione, la prefazione e tutta la parte dedicata a Lucio. Guarda le annotazioni sul libro fatte a matita da Lucio cliccando qui).

La Neve Rossa di Mario Mosciatti

La Neve Rossa di Mario Mosciatti

INTRODUZIONE

Tanto sangue a Caldarola la notte del 19 Marzo quando furono feriti e catturati numerosi partigiani, poi trasferiti ed interrogati a Muccia.

Tanta neve e tanto sangue nei ricordi di Raoul Mattioli, uno dei principali protagonisti di quei fatti.

Sangue che si mescola con la neve durante la fucilazione dei 27 partigiani, avvenuta il 22 Marzo a Montalto di Cessapalombo ad opera dei fascisti del Battaglione “M” di stanza a Muccia.

Neve e sangue nei ricordi di Lucio Antognoli il milite fascista che rimase ferito durante l’assalto dei partigiani del gruppo di Massaprofoglio alla sede del presidio di Camerino.

Tanto sangue e tanta neve nei ricordi di Enzo Zampetti, Alessandro Gentilucci, Angelo Scuritati, Renato Gerani e degli altri partigiani.

In buona sostanza, neve e sangue nei ricordi di tutti coloro che, a vario titolo, furono partecipi degli episodi accaduti in quell’ormai lontano 1944.

Il sangue umano che cadendo sulla neve bianca la tinge gradualmente fino a farla diventare tutta rossa, mi è sembrato il miglior modo di rappresentare il dramma che si consumò nell’arco di poco tempo e del quale Muccia fu il teatro principale.

Dall’attacco al presidio fascista di Camerino all’assalto alla postazione partigiana di Massaprofoglio, dall’eccidio all’interno dell’osteria Cucculelli allo scontro a fuoco di Caldarola, dalle fucilazioni di Montalto, all’esecuzione di Achille Barilatti.

Tutti episodi che interessarono Muccia e che si svolsero in un crescendo di violenza tale da allargare, giorno dopo giorno, la macchia di sangue sulla neve immacolata, trasformandola in neve rossa.

La neve rossa, appunto, un qualcosa di innaturale come innaturale fu la morte di tanti giovani; la neve rossa come simbolo di una violenza fratricida che speriamo non si ripeta mai più.

Mario Mosciatti

PRESENTAZIONE

Con la pubblicazione di “La Neve Rossa” si corona un desiderio che covavo da tantissimo tempo, più o meno da quando, adolescente, frequentando persone più grandi di me e con loro, tirando fino a tarda notte con i racconti di vita vissuta, ho avuto la sensazione che, tra il 1943 ed il 1944, fossero avvenuti a Muccia fatti gravi ed importanti.

Gravi perché causarono i morti di cui tutti sapevano, importanti perché non erano chiari i motivi per cui certi fatti erano accaduti; più mi andavo convincendo che, nella maggior parte delle persone fosse in atto quasi un processo di rimozione della memoria, mentre in altre ci si convinceva che gli accadimenti erano andati in un certo modo piuttosto che in un altro.

Questa curiosità, maturata da giovane, mi ha spinto, da Sindaco, a soddisfare la necessità di conoscere gli accadimenti di quel periodo oscuro per farne memoria e storia della nostra comunità, per capire e far capire, attraverso una ricostruzione “scientifica”, che la vita che si svolge anche in una piccola comunità s’incastra sempre, ed è, o causa od effetto, di quello che avviene in un ambito più grande, che da questi fatti possono trarre lezioni di vita valide ancor oggi.

L’incontro con Mario Mosciatti che stava raccogliendo i ricordi di un politico locale attraverso le forme di un’intervista, la sua curiosità e la sua voglia di ricerca, anche giornalistica, per la storia dei nostri luoghi, le mie confidenze, hanno fatto il resto: ma l’idea di raccogliere testimonianze, sua quella di inquadrare il periodo storico, ricostruire la sequenza temporale dei fatti, dare una lettura degli episodi confrontandola anche con le scarne fonti storiche, organizzare insieme a Fausto Borboni la raccolta delle testimonianze.

Il lavoro è stato lungo, accurato il più possibile; Sindaco nel frattempo è divenuto Mario Baroni che ha sposato con entusiasmo l’iniziativa aggiungendoci del suo: il risultato ha così due “padri” allo stesso modo responsabili.

E’ evidente che senza la testimonianza di tanti cittadini sarebbe stato assai più difficile capire ed è a Loro che rivolgo un immenso grazie per aver scavato nella loro memoria tra quegli avvenimenti che, forse, avrebbero preferito dimenticare.

La lettura ci darà certo più consapevolezza degli avvenimenti, ma soprattutto ci dirà la certezza che, lungi dall’esprimere giudizi morali, la convivenza ha bisogno dell’armonia, del rispetto reciproco, del rifiuto della guerra in ogni sua espressione.

Alle vittime tutte dei fatti narrati è riservata una nicchia particolare nel mio cuore, a coloro che, pur partecipando sopravvissero, rispetto e comprensione, a tutti i concittadini il riconoscimento di aver saputo andare avanti in armonia.

Fabio Barboni


OLTRE L’INOLTRE


Ancora un libro sulla Resistenza?!? Ammettiamolo: e la domanda che il lettore si pone, ormai sempre più spesso, di fronte a lavori come quello che mi accingo a presentare.

Del resto, tra personaggi di spicco dell’attuale classe politica, che definiscono quegli avvenimenti “guerre puniche”, neorevisionismi più interessati alla rimozione che all’approfondimento del passato (soprattutto di un certo passato), tentativi di stravolgere momenti cruciali della storia italiana come il Risorgimento, il Fascismo e la Resistenza, non mi sembra che ci sia da stare allegri.

Ma quella domanda, sia come sia, resta e non va delusa. Dunque, tanto vale anticiparla e cercare di fornire qualche risposta. Vorrei provare a trarre dalla lettura di queste pagine appena una manciata di riflessioni, così com’esse mi sono state sollecitate, avvicinandomi a tante storie che sembrano appartenere ad un passato remoto, eppure pulsano ancora di vita, umanità e tragedia.

Quando Nietzche affermava provocatoriamente che non esistono fatti, bensì solo interpretazioni, aveva colto nel giusto. Ricordandoci due cose: la storia non è né sarà mai una scienza esatta; il come si ricorda diventa il modo centrale del problema “memoria”. In quest’ultimo caso, il cosa ed il perché vengono infatti definiti proprio dal come. Pinelle delle considerazioni astratte. Veniamo all’opera.

Tre mi sembrano i punti di maggior interesse della ricerca e proprio da questi credo sia possibile desumere una sorta di bilancio provvisorio in grado di rispondere (magari non esaurientemente) alla domanda posta all’inizio. Inanzitutto, l’uso in sottotitolo del termine guerra civile. Chi scrive sa bene quanto l’averlo adottato in anni lontani (condividendo appieno la posizione di Claudio Pavone, che tuttavia non porta acqua al mulino di certi neorevisionisti, come si vorrebbe far credere da più parti), sia stato e resti tuttora scomodo.

In secondo luogo, l’utilizzazione delle fonti orali come scelta conferisce un taglio particolare alla ricostruzione dei fatti. Tanto rilievo da farle prevalere sui documenti e sulle fonti scritte non è casuale. Riconduce l’indagine ad una storia collettiva, privilegia il confronto delle testimonianze e dei punti di vista, innalza il livello di efficacia descrittiva ed evocativa, si sottrae all’interpretazione a senso unico, a vantaggio di un’apertura interpretativa che rappresenta il succo della storiografia. A questo proposito, forse un limite da rilevare è proprio la scarsa presenza di fonti di parte fascista.

Ultimo, non certo per importanza e interesse, mi sembra il tratto che caratterizza il percorso dell’inchiesta attraversandolo come un fiume carsico. Mi riferisco alla centralità assunta dall’azione partigiana della notte tra il 22 e il 23 Febbraio 1944 nell’osteria Cucculelli. Chi, come il sottoscritto, cominciò ad occuparsene dopo decenni di silenzi, rancori e imbarazzi, può rassicurare il lettore sulla difficoltà di avvicinasi ancor oggi a quel fatto. Ma in questa centralità, ribadita dall’autore con la passione, l’ostinazione e la sagacia del cronista, la ricerca dimostra di aver colto appieno la funzione di simbolo che quella tragedia nella tragedia ha rappresentato per tutti. Con Montalto, anche Muccia solleva infatti un sanguinoso interrogativo che nessuna interpretazione potrà mai soddisfare compiutamente. Eppure la non risolutività, il margine di mistero, il non detto dei comportamenti, l’imprevedibile delle intenzioni e azioni umane costituiscono la vera lezione per tutti noi, insieme posteri e inesorabilmente contemporanei di quegli uomini, di quei luoghi, di quelle lotte.

Il libro non aggiunge (né credo fosse questo l’intento dell’autore) particolari di rilievo a quanto si è già detto e scritto, soprattutto in questi ultimi anni. Piuttosto “rifinisce”, chiosa e si propone come un passaggio oltre quei fatti. Non per consegnarli all’indifferentismo di pseudo-obiettività che puntano all’indifferenza e all’autoassoluzione. Ma neppure per appiattirsi su un passato prigioniero dei suoi pregiudizi. Solo così la memoria individuale diventa storia nell’essere rielaborata, i percorsi interiori degli avvenimenti permettono alle scelte di mantenere l’etica della responsabilità che distingue l’uomo dal bruto. Nella storia come nella vita.

Enzo Calcaterra

IL CONTESTO STORICO E AMBIENTALE

I fatti narrati in questo libro si svolsero nel periodo che va dal Luglio 1943 al Giugno 1944.

Per comprendere la portata di quegli avvenimenti e le ragioni di coloro che ne furono i protagonisti, è importante conoscere il contesto storico ambientale in cui si svolsero.

Siamo all’inizio dell’estate del 1943: la guerra volge al peggio per le truppe dell’asse, gli alleati sono già sbarcati in Sicilia ed hanno iniziato la loro avanzata verso nord.

Per queste ed altre ragioni, il regime fascista viene messo in discussione dall’interno e si arriva al voto del Gran Consiglio del 25 Luglio 1943, che approva l’ordine del giorno Grandi e mette in minoranza Mussolini.

Lo stesso giorno, il re Vittorio Emanuele III conferisce l’incarico di formare il nuovo governo al maresciallo Badoglio e fa arrestare Mussolini.

Il nuovo governo si presenta affermando che la guerra a fianco dei tedeschi continua, ma questi non si fidano e danno attuazione al cosiddetto piano Alarico che prevede l’ingresso in Italia di truppe tedesche, le quali, di fatto, occupano il nostro paese, anche se formalmente sono truppe dislocate sul territorio italiano per contrastare l’avanzata degli alleati.

Il 17 Agosto1943, c’è l’ultimo arrivo di soldati tedeschi previsto dal piano e l’occupazione viene considerata completa.

Gli alleati, che nel frattempo hanno attraversato la Sicilia e stanno arrivando in Calabria, intensificano i bombardamenti aerei e vengono colpite le maggiori città italiane, con il duplice scopo di colpire i tedeschi e convincere il governo Badoglio a firmare l’armistizio. L’8 Settembre 1943, viene firmato l’armistizio tra il generale Castellano per delega del maresciallo Badoglio e dal capo delle forze alleate in Italia generale Eisenhower.

L’armistizio è giustamente considerato l’atto che diede il via alla serie di avvenimenti che portarono alla guerra civile tra gli Italiani che si schierarono a favore degli alleati e quelli che continuarono a combattere a fianco dei tedeschi.

Avvenimenti sui quali politici di vario orientamento e storici molto qualificati hanno fatto considerazioni di ogni genere, tutte però particolarmente severe sul come il governo Badoglio e la monarchia gestirono quell’armistizio.

Infatti, quello che doveva essere l’atto finale della guerra nata dalle manie espansionistiche del nazismo tedesco assecondate dal fascismo, divenne, appunto, l’inizio di una guerra civile.

Lucio Antonioli

Lucio Antonioli

LE TESTIMONIANZE

Antognoli Lucio

Nato a Camerino il 28 Gennaio 1922. Arruolatosi volontariamente e dopo aver combattuto in Africa Settentrionale nei reparti dei Giovani Fascisti di Bir el Gobi, l’8 Settembre 1943 si trovava a Roma.

Nei giorni immediatamente successivi tornò a Camerino e quindi aderì alla Repubblica Sociale Italiana.

La sera del 4 Gennaio 1944 era a Camerino e fu ferito durante l’assalto portato dai partigiani del gruppo di Massaprofoglio alla sede del distaccamento di militi fascisti del quale lui stesso faceva parte.

Successivamente fu fatto prigioniero dagli stessi partigiani di Massaprofoglio che lo processarono ed inscenarono una falsa fucilazione.

Incarcerato dopo la liberazione è stato prosciolto da tutte le accuse in istruttoria ed è stato liberato dopo 17 mesi di detenzione presso il carcere di Camerino.

Cosa ricorda dell’8 Settembre del 1943 e di ciò che accadde nei giorni immediatamente successivi?

L’8 Settembre 1943 mi trovavo a Roma, in forza ad un reparto di Giovani Fascisti dislocato alla Farnesina, per sottopormi a visite mediche resesi necessarie in quanto avevo contratto la malaria.

Ero tornato dall’Africa, dove avevo combattuto contro gli inglesi, gli americani, i neozelandesi, ecc. Avevo preso l’ultimo aereo militare prima che gli alleati occupassero per la terza volta Tobruq, dove io mi trovavo.

Il 10 Settembre partecipai ad una sfilata per le vie di Roma e ricordo che, al nostro passaggio, la gente salutava romanamente come se nulla fosse successo. Poi presi la via di Camerino, dove arrivai dopo varie peripezie.

Non appena fu fondata la Repubblica Sociale Italiana, chiesi immediatamente di farne parte: avevo fatto un giuramento al quale ho tenuto fede fino in fondo con chiarezza ed amore per la Patria. Fui assegnato ai reparti O.P. (Ordine Pubblico) della Guardia Nazionale Repubblicana di Macerata.

Non cambiai mai la mia idea neanche dopo, quando l’Italia fu invasa dal nemico portandoci la cosiddetta liberazione.

Fui arrestato ed incarcerato, per poi essere assolto in istruttoria dopo 18 mesi di carcere, con l’accusa di “aver amato la Patria”.

Non volli mai rinnegare la fede nella Repubblica Sociale Italiana, dove ho militato con onore e con lo scopo di fare il possibile per aiutare il mio paese, anche quando molti fascisti rinnegarono la loro idea e passarono dalla parte dei vincitori. Io sono stato un fascista della Repubblica Sociale e ci tengo a questa distinzione, perché alcune idee sullo stao sociale le ritenevo e le ritengo ancora valide.

Conserva ancora qualche documento della Repubblica Sociale Italiana?

Ne avevo tanti, ma sono stati quasi tutti distrutti dai miei famigliari per paura: tutti avevano paura e tutti hanno distrutto tutto, comprese le cose utili, con il preciso scopo di far sparire le prove della propria adesione al Partito Nazionale Fascista.

Quale reparto fascista si trovava al piano terra del palazzo ducale di Camerino, quando il 4 Gennaio del 1944 quel presidio fu attaccato dai partigiani (circa 100) dei gruppi di Massaprofoglio e Foligno?

Era la sede di un piccolo distaccamento formato da sette militi, tutti del posto, che avevano chiesto il trasferimento a Camerino per cercare di rendersi utili in loco, anche per evitare quegli spiacevoli fatti che poi, purtroppo sono accaduti.

Avevano, tra l’altro, il compito di controllare che venissero spente le luci ed evitare così che gli aerei alleati, che sorvolavano il nostro territorio, potessero individuare obiettivi da colpire di notte.

Io facevo parte di quel gruppo di militi.

Cosa avvenne quella sera dell’assalto?

Era mezzanotte circa, quando suonò il campanello del portone, che io sentii subito perché stavo sveglio. Mi avvicinai all’ingresso e chiesi chi fosse a quell’ora.

La risposta fu: Sono il milite tal dei tali, il quale abitava a Morro ed, in effetti, non era ancora rientrato, aggiunse che aveva fatto tardi a causa della neve che era scesa in gran quantità.

Io non sospettai nulla, anche perché era successo altre volte che qualcuno arrivasse in ritardo e quindi mi accinsi ad aprire il portone dicendo: va bene ti faccio entrare.

Appena sganciai il meccanismo che teneva chiuso il portone dall’interno, lo stesso si spalancò sotto la spinta dei partigiani che entrarono e mi scaraventarono contro le scale che portavano al piano superiore, dove avevamo i nostri dormitori.

Subito mi si buttarono addosso ed uno di loro stava per pugnalarmi alla gola, quando un suo compagno gli afferrò il braccio armato di un lungo pugnale urlandogli: Fermo! No … Lucio, no!! Me ne uscii soltanto con un puntino rosso alla gola.

Non riconobbi colui che intervenne per evitarmi la pugnalata perché avevano tutti il viso coperto con i passamontagna. Successivamente ho però saputo, quasi con certezza, chi fosse: era un mio amico che si sentiva di dovermi contraccambiare qualcosa.

Quel partigiano che venne in mio soccorso ed al quale debbo la vita, è stato un mio grande amico, tanto onesto e schivo che non mi ha mai confessato quello che fece quella sera.

Subito dopo quel tentativo di colpirmi con un pugnale, i partigiani mi fecero alzare e con delle spinte e sotto la minaccia delle armi mi fecero salire al piano superiore, ma io ebbi la forza di dare l’allarme.

Giunti davanti alla porta della stanza dove si trovavano gli altri militi, mi spinsero avanti puntandomi addosso le loro mitragliette e mi intimarono di convincere i miei camerati ad aprire.

Li invitai ad aprire la porta, ma appena scattata la serratura, i partigiani (una ventina circa) ebbero un attimo di esitazione e poi lasciarono il pianerottolo per mettersi in postazione lungo le scale, io mi infilai subito dentro il dormitorio e richiusi la porta.

Cercai di convincere i miei camerati che era meglio trattare con i partigiani senza spargimento di sangue.

In quel momento però i partigiani cominciarono a mitragliare la porta e gettarono delle bombe a mano attraverso il lucernario situato sopra la porta stessa.

Io rimasi ferito alla testa dalle schegge (una cosa leggera) e dato che i partigiani non entravano, mi adoperai per convincere i miei camerati a scendere da una finestra che dava in un cortile, dove potevamo avere più spazio per difenderci. Così facemmo, piazzammo la nostra mitragliatrice su un muretto e ci posizionammo in piedi sopra l’impalcatura che stava fissata sul muro esterno del palazzo dalla parte di questo cortile.

Comunque dopo non ci furono spari né dalla parte dei partigiani né da parte nostra. I partigiani entrarono, buttarono tutto all’aria e se ne andarono i piazza Cavour insieme agli altri.

Ritornando poi in camerata trovammo il milite Benedetti morto in seguito a ferita da arma da fuoco. Probabilmente quando arrivarono i partigiani Benedetti non era ancora morto e questi avevano tentato di curarlo come potevano: aveva, infatti, una benda sulla ferita. All’alba del 5 Gennaio 1944, arrivarono da Macerata reparti di Ordine Pubblico che formarono un presidio in piazza Garibaldi, al circolo cittadino; in quell’occasione non arrivarono invece reparti tedeschi perché così decise il nostro colonnello di Macerata. Noi fascisti ed i partigiani di Camerino cercavamo di non fare accadere fatti tragici nella nostra zona. Il milite morto quella sera ed i successivi fatti di Muccia hanno però portato l’arrivo dei tedeschi e dei militi del Battaglione “M” e ci furono le reazioni cattive e inutili che tutti conosciamo.

Cosa ricorda del milite Giuseppe Benedetti che perse la vita durante quell’assalto?

Ricordo che faceva il bidello presso una scuola di Camerino, era sposato con figli ed era claudicante; credo che proprio a causa della sua malformazione non riuscì ad abbassarsi ed a stendersi in terra per evitare le pallottole sparate dai partigiani ad altezza d’uomo attraverso la porta del dormitorio.

Successivamente anche un altro dei miei camerati di quella notte, Giulio Marcomeni, fu fucilato a Pian di Pieca dai partigiani di Sarnano, subito dopo il passaggio del fronte di guerra.

Cosa accadde subito dopo quella sparatoria?

I partigiani che erano entrati nella nostra sede scesero in piazza Caour, si riunirono agli altri e cominciarono a gridare che la città era stata liberata dai fascisti. In realtà avevano solo sopraffatto un piccolissimo nucleo di sette militi che stavamo lì con il solo compito di controllare che le luci venissero regolarmente spente. Io ricordo che, a causa della ferita riportata, avevo il volto completamente insanguinato e che fui poi accompagnato in ospedale dove rimasi ricoverato per vari giorni.

Lei successivamente venne fatto prigioniero dai partigiani di Massaprofoglio. Come accadde?

Poco dopo che ero uscito dall’ospedale, seppi che Zoran Companjet (il comandante Nicola) mi aveva definito, tramite radio Bari, spia fascista ed aveva dato ordine di spararmi a vista. Io ho sempre ringraziato chi mi giudica fascista e mi interpella con tale definizione, perché per me fascista ha sempre significato aver amato la patria, averla servita anche in guerra, esser stato insignito di un’onorificenza per la campagna d’Africa ed, in questo senso, sono fascista oggi più di prima. Cosa diversa è però chiamarmi spia, perché la spia non l’ho mai fatta e pertanto non mi andava affatto bene che mi si definisse tale.

Decisi allora di andare ad incontrare direttamente Zoran e chiarire questa storia della spia.

Mi misi due bombe a mano in tasca per difendermi dai tedeschi che si trovavano in zona e che prima mi avrebbero sparato e poi avrebbero accertato la mia identità, oltre che dai partigiani stessi che avevano l’ordine di spararmi a vista.

Andai a Massaprofoglio e quando arrivai, i partigiani di sentinella mi riconobbero e dissero tra loro: Questo è matto! E subito mi puntarono addosso le armi chiedendomi chi c’era dietro di me.

Io risposi che ero venuto da solo e che ero lì per chiarire una faccenda direttamente con Zoran e loro mi accompagnarono subito da lui.

Questi, appena mi vide, mi chiese come mi chiamavo ed appena sentì pronunciare il mio nome disse: Fuciliamolo subito come abbiamo fatto con gli altri. E per impressionarmi elencò alcuni nomi. Non era vero, non avevano fucilato nessuno.

Mi fece portare in un’aia ed a quel punto io chiesi un prete e lui me lo negò, dissi allora che non era giusto fucilarmi senza un processo, ma lui non volle sentire ragioni e disse solo: Ti uccido io e subito.

Tirò fuori dalla fondina la pistola e cominciò a sparare ad un palo di un pagliaio senza però colpirlo mai. Si mise a ridere e questo servì per allentare la tensione e far diminuire la mia paura.

Allora io gli dissi: Dalla a me quella pistola, ti faccio vedere come si colpisce quel palo. Elui di rimando: Ma non darò la pistola a te, piuttosto procediamo con la fucilazione.

A quelle parole alcuni partigiani che conoscevo mi guardarono e ridevano sotto i baffi.

Ovviamente non mi fucilarono, mi rinchiusero in una stalla di pecore e poco dopo mi portarono da mangiare ed una coperta per coprirmi.

Il giorno dopo andai invece a mangiare con loro in una casa del paese.

La seconda notte che passai prigioniero a Massaprofoglio mi svegliarono con un calcio ai piedi e mi intimarono di alzarmi e di avviarmi lungo il sentiero che portava alla montagna di Massaprofoglio.

Ad un certo punto mi ordinarono di fermarmi e quindi di continuare ad andare avanti da solo. Capii che era finita, volevo chiedere di poter dire qualcosa, ma non riuscivo a parlare: sono stati momenti brutti anche per me che venivo dal fronte di guerra, dove la guerra l’avevo fatta e come.

Mi incamminai da solo lungo quel sentiero con rancore verso me stesso per una fine così stupida e tanto drammatica, feci dieci quindici metri ed avanti ancora, finchè vidi un avvallamento di terreno e mi ci buttai dentro.

Quando già pensavo di cominciare a sentire il fischio delle pallottole, sentii invece le risate dei partigiani che avevano architettato tutta quella messa in scena al solo scopo di spaventarmi.

Poco dopo mi riportarono al paese dicendomi che era stato tutto uno scherzo, ma io non son mai riuscito a classificarlo come tale.

Dopo parecchio tempo incontrai Zoran a Camerino e mi disse: “Sapevo chi eri e non avevo intenzione di fucilarti, volevo solo metterti paura, tu sei stato un bravo ragazzo e non volevi morti nel camerinese. Non ci siamo riusciti”. Quel “ci” non mi suonava bene.

Zoran veniva spesso a trovare la sua fidanzata che abitava sopra di me, una brava e bella ragazza; poi si sono sposati e non l’ho più rivisto.

Ebbi anche la soddisfazione di esser assolto a conclusione dei due “processi popolari” ai quali fui sottoposto a Massaprofoglio ed a Pozzuolo.

In quelle occasioni i partigiani non riuscirono ad accusarmi di nulla e, ironia della sorte, tra coloro che si ergevano a giudici c’erano anche ex fascisti più importanti di me, compreso un volontario della guerra di Russia.

A guerra finita, lei fu tra gli arrestati e processati per collaborazionismo?

Si, ma in un secondo tempo. Il mio nome non figurava nell’elenco delle persone da arrestare subito dopo l’arrivo degli alleati. Quelli che vi erano stati inseriti e che furono catturati dai partigiani, vennero portati nel campo di concentramento allestito a Piediripa di Macerata e vi furono trattenuti per circa due mesi, per poi essere trasferiti nel carcere mandamentale di Camerino.

In un secondo momento presero anche me e mi dissero poi che ero stato inserito in un elenco di persone da arrestare compilato a Roma. Ma sarà così!!

Sono stato trattenuto per diciassette mesi in carcere per motivi di sicurezza, diranno poi. Ma sicurezza per chi?

Fui accusato del delitto di cui all’articolo 5 della legge 7.7.1944 N° 159 e dovevo essere processato in base all’articolo 51 del codice di procedura militare di guerra.

Per inciso l’articolo 51 prevede la fucilazione alla schiena per tradimento (e ci risiamo).

Il mandato di cattura emesso nei miei riguardi recita testualmente: per aver appartenuto alla cosiddetta Guardia Nazionale Repubblicana e per aver favorito l’azione del nemico e cioè dei reparti tedeschi che operavano nella provincia di Macerata, partecipando ad un combattimento contro i patrioti in epoca imprecisata.

Un inciso a tale proposito. Io ho sempre pensato che, a torto o a ragione, il nemico, l’invasore fosse l’inglese, l’americano, il russo, ecc. e quindi non avrei detto mai al camerata Richard: Oggi stammi lontano perché da oggi siamo nemici.

In seguito, quando sono venuto a conoscenza di quanto i tedeschi hanno fatto nei lager, allora si che mi sono diventati nemici, in buona compagnia del compagno Stalin.

Tornando al mio arresto, debbo aggiungere che sono stato prigioniero per diciotto mesi, inizialmente mi sono dichiarato prigioniero di guerra e poi prigioniero politico.

Verso il diciassettesimo mese di prigionia, il giudice mi disse che all’indomani saremmo stati tutti scarcerati perché Togliatti aveva concesso l’amnistia.

Io risposi che dall’onorevole Togliatti non volevo nulla, in quanto l’amnistia fu fatta per qui partigiani che avevano commesso reati comuni e non per me che non avevo fatto nulla di male. Pertanto volevo essere processato e portato in giudizio. Rimasi solo in carcere come detenuto politico. Finalmente il tribunale di Camerino ordinò la mia scarcerazione il giorno 26 Febbraio 1946, con la seguente motivazione che leggo da un documento in mio possesso: Antognoli Lucio di Camerino arrestato il 4 Ottobre 1944 per motivi di pubblica sicurezza (che strana imputazione). Scarcerato il 26 Febbraio 1946 per assoluzione in istruttoria.

In carcere eravamo circa in venticinque ed io mi trovavo bene, se così si può dire. Ero sempre fuori cella e tenevo la contabilità delle spese esterne degli altri carcerati. In una cella piccola eravamo cinque, compreso un sacerdote; d’estate stavamo bene, ma d’inverno era molto freddo. Il comandante del carcere era una brava persona e ci aiutava come poteva, ma ciò finì quando arrestarono pure lui per collaborazionismo, solo perché ci faceva prendere qualche mezz’ora d’aria in più.

Per qualche tempo abbiamo avuto, come secondini, alcuni partigiani di Camerino. Mi faceva rabbia vedere quelli che, tutto sommato erano sempre stati miei amici, con al collo il fazzoletto rosso o azzurro, quando molti di loro fino a poco tempo prima preferivano il nero. Così è la vita. Quei secondini cercavano di fare i duri con me, ma poi mi portavano sigarette, cioccolata e frutta.

Dopo l’uscita dal carcere dovette “scontare” in qualch altro modo il suo passato fascista?

Dopo molti anni quasi tutti quelli che mi avevano fatto del male (qualche pecora nera ci sta sempre) mi hanno chiesto scusa.

L’ultima fase della guerra è stata una vicenda drammatica che ha però generato anche gesti di grande solidarietà, al di la delle idee politiche.

Io non ho mai sparato un colpo ad un partigiano, né un partigiano ha sparato un colpo contro di me.

Dopo la liberazione, alcuni partigiani di una cittadina vicina a Camerino organizzarono una squadra di picchiatori per colpire i fascisti repubblicani di Camerino. Questi picchiatori erano guidati da un mio amico, con il quale avevo partecipato a varie manifestazioni durante il regime fascista.

Circa due ore prima che arrivassero i picchiatori ricevetti una telefonata da un altro amico partigiano che mi avvisava di non aprire la porta di casa dopo le venti.

Cercai di avvisare i camerati, ma non li trovai tutti e pertanto quelli che non sapevano nulla furono presi e bastonati a sangue, con ferite alla bocca, caduta di denti e lesioni varie. Io per maggior sicurezza quella notte dormii fuori casa.

Dopo anni incontrai questo mezzo capo partigiano, divenuto nel frattempo medico dell’INAM in una cittadina dell’Alto Maceratese, dove io lavoravo come dirigente di un’impresa di costruzioni.

Questi in un primo tempo fece finta di non riconoscermi ed allora io mi rivolsi a lui chiamandolo: Caro camerata.

Lui rimase un po’ incerto poi mi disse: Dovevo farlo. Ed io: Eri padronissimo di fare ciò che credevi opportuno, ma non di organizzare una squadraccia di tipo fascista per venire a bastonare i tuoi ex camerati. E me ne andai, lasciandolo dentro la farmacia dove lo avevo incontrato.

Sentii, mentre chiudevo la porta, queste sue parole: Tu sai che a te non lo avrei fatto. Allora tornai indietro e gli dissi: Forse! Ma ricordati che con queste azioni vi siete messi sullo stesso piano delle squadre fasciste del ’22.

Comunque, dopo l’uscita dal carcere di Camerino non feci fatica a reinserirmi nella cerchia dei vecchi amici. Mi accolsero volentieri anche se io manifestavo apertamente le mie idee, che non erano cambiate.

Partecipai anceh ad un concorso presso il comune di Camerino per quattro posti di impiegato: arrivai terzo e fui assegnato all’ufficio ragioneria.

Alla fine del primo mese di lavoro, mentre scendevo le scale del comune, un impiegato del comune stesso mi fermò e mi disse: Qui i fascisti non possono lavorare e quindi per te questo è l’ultimo giorno.

Si va bene, risposi, mi sta bene tutto, ma sarei stato più contento se me l’avesse detto o me lo avessero fatto dire da un antifascista vero e non da uno che ha portato all’occhiello della giacca la cimice fascista (così veniva chiamato dalla gente il distintivo del Partito Nazionale Fascista) per venti anni.

Poi in seguito ho saputo che era interessato alla mia epurazione per motivi di famiglia. Nei giorni successivi presi le mio poche cose e me ne andai da Camerino per approdare in una grande impresa di costruzioni, dove ho svolto in varie località le mansioni di dirigente per molti anni.

Non volevo più ritornare a Camerino, ma l’amore per la mia terra e per il mio paese è stato più forte ed eccomi qui: sono contento, ho molti amici che sanno come la penso io e so come la pensano loro, ma non importa questa è l’amicizia.

Sto per finire 81 anni, mi guardo in giro, torno indietro con la memoria, sono sereno, sono felice, ho fatto il mio dovere, ho fatto, nel mio piccolo, tutto il possibile per evitare lutti e dolori alla mia città.

Alle volte mi metto a pensare e vedo davanti a me una vita trascorsa in gioventù al servizio della mia Patria: da Balilla a Giovane Fascista poi nella guerra d’Africa e quindi nella Repubblica Sociale. Oggi sono un uomo felice che non rinnega nulla del suo passato.

Ciò che invece ancora mi rattrista e mi crea dolore, è il ricordo di mio padre, morto nel mese di Ottobre del ’45, mentre io mi trovavo in carcere. Ebbene chiesi di poterlo accompagnare al cimitero ed in un primo tempo mi fu negato, poi invece mi venne concesso a condizione che fossi accompagnato da due carabinieri e con le manette ai polsi. Io rifiutai nel modo più assoluto.

Dietro al feretro di mio padre volevo andare a testa alta, guardare fisso quella bara e dirgli: Tu sai che sono stato onesto con tutti e con me stesso. E lui lo sapeva.