Nel precedente articolo vi abbiamo brevemente illustrato la natura dei PFAS e i loro effetti sulla salute, oggi vi raccontiamo una vicenda forse ancora poco conosciuta che interessa da vicino il territorio italiano.
Ma andiamo per gradi.
Un po’ di storia: dal 1965 a oggi.
La vicenda PFAS affonda le radici nel 1965 quando l’azienda Marzotto, attiva nel settore tessile e dell’abbigliamento, apre un centro di ricerche nel paese di Trissino, in provincia di Vicenza, al fine di elaborare delle sostanze che rendano i tessuti impermeabili. Dall’anno successivo, la Rimar (Ricerche Marzotto) inizia la produzione di composti perfluoroalchimici -PFAS, appunto- divenuti di lì a breve di uso amplissimo per la loro caratteristica resistenza all’acqua. Contenitori per alimenti, tessuti (Teflon®, Goretex®), detergenti, insetticidi, vernici, schiume antincendio, pentole antiaderenti, sono solo alcuni dei molteplici usi cui sono destinati.
Sin dai primi anni di produzione, la Rimar riversava le scorie di lavorazione nel torrente limitrofo, ma negli anni ’60-’70 l’attenzione per la protezione dell’ambiente era agli solo albori e ogni interesse era incentrato sui benefici del boom economico.
Nel 1988 Rimar diventa Miteni grazie a una joint venture tra Mitsubishi ed Enichem. Successivamente, nel 1996, Enichem esce e Miteni diventa sussidiaria di Mitsubishi. Infine, nel 2009, Mitsubishi cede Miteni al gruppo ICIG controllato dalla holding ICI SE di Lussemburgo (International Chemical Investors).
I PFAS oltreoceano.
Nel frattempo, negli Stati Uniti, due colossi industriali (3M e DuPont) producono le medesime sostanze già da tempo, le riversano nelle falde acquifere circostanti e, pur a conoscenza della loro tossicità, continuano indisturbati sino ai primi anni 2000. Finalmente, una class action di cittadini del West Virginia cita in giudizio il colosso chimico DuPont per la pesante contaminazione ambientale da PFOA che la ditta sversava nella acque del fiume Ohio ormai da decenni.
La vicenda giudiziaria statunitense ha portato al riconoscimento da parte dell’EPA (Environmental Protection Agency) della tossicità dei PFOA e al risarcimento di diversi milioni di dollari alla popolazione interessata dalle contaminazioni.
L’allarme in Veneto.
A partire dal 2013, nelle acque del bacino Agno-Fratta, alcuni studi e rilevamenti del CNR e di Arpav trovano livelli di PFOA superiori a 1000 ng/l e scatta immediatamente l’allarme.
In seguito a monitoraggi Arpav si scopre che per 20 anni gli impianti di depurazione dell’azienda non sono stati in grado di abbattere le sostanze, sistematicamente sversate in falda.
La Regione Veneto annuncia quindi che in circa 30 Comuni l’acqua potabile è contaminata da PFAS e chiede l’intervento dell’Istituto Superiore di Sanità, il quale consiglia di applicare il fondamentale principio di precauzione al fine di ridurre i rischi e controllare la contaminazione delle acque.
In quel momento storico, tuttavia, l’Italia non aveva alcuna norma o regolamentazione tecnica che attenesse ai PFAS. Pertanto, nel gennaio 2014 la Regione decide di regolamentare la concentrazione di perfluoroalchiliati nelle acque. Si stabiliscono i seguenti valori limite: meno di 30 ng/l per i PFOS, meno di 500 ng/l per i PFOA e meno di 500 ng/l per tutti gli altri PFAS.
Da quel momento la vicenda non si è più arrestata: le famiglie venete abitanti dei Comuni colpiti dalla contaminazione di acqua potabile iniziano a mobilitarsi e a chiedere chiarimenti alle istituzioni, italiane ed europee. Diversi gruppi di attivisti prendono vita, tra cui “Acqua Bene Comune Vicenza”, “La terra dei PFAS” e “Mamme No PFAS”. Queste ultime giungono sino a Roma e a Bruxelles per dar voce alle istanze di una popolazione terrorizzata di ingerire acque avvelenate e prodotti ortofrutticoli contaminati.
La Regione del Veneto, in collaborazione con l’ISS e le Aziende ULSS interessate dalla contaminazione (c.d. zona rossa) avvia quindi un piano di sorveglianza e presa in carico sanitaria della popolazione esposta a PFAS, attraverso un monitoraggio sistematico attuato con prelievo ematico e altre visite di controllo.
La popolazione complessiva residente nei Comuni interessati dall’esposizione a PFAS (area di massimo impatto sanitario) è di circa 127.000 abitanti.
La vicenda giudiziaria.
Nel processo penale sono imputati 15 figure apicali, tra cui manager della Miteni e della Mitsubishi Corporation, nonché di ICIG. Gli imputati sono accusati a vario titolo di avvelenamento acque, disastro ambientale innominato, gestione di rifiuti non autorizzata, inquinamento ambientale e reati fallimentari.
Il processo davanti alla Corte d’Assise di Vicenza è iniziato l’1 luglio 2021 con la prima udienza dibattimentale. Sono oltre 200 le parti civili costituite.
Si dovrà attendere ancora qualche anno per giungere ad una prima sentenza, nella speranza che porti chiarezza in un’intricata vicenda di responsabilità civile, penale e, soprattutto, ambientale.
È parere di chi scrive che oggi appare alquanto complesso mettere in gioco un effettivo bilanciamento di interessi tra il diritto alla libera attività imprenditoriale e il diritto ad un ambiente salubre, per la salvaguardia della salute degli esseri umani e, in generale, degli esseri viventi.
Ciascuno di noi è chiamato, nella propria professione, ad agire con il più elevato senso morale nel rispetto degli altri e della natura. Ma quando ciò non accade, chi inquina paga?
L’evoluzione della scienza e della tecnica ha portato molti esseri umani a condurre una vita agiata e semplificata. Ma quanto l’appetibilità commerciale di nuove molecole (come gli PFAS) può andare a detrimento della salute e dell’ambiente in cui viviamo?
Sono domande che, in quanto giuristi e medici un po' “fuori di zucca” ci poniamo nell’ottica di poter vivere le nostre vite in modo più significativo, interessandoci anche al futuro di chi dopo di noi dovrà abitare queste terre.
Giovanni Abate
Giulia Cera