Quando ci troviamo a dover affrontare questioni che hanno a che fare con la gestione dei rifiuti, il primo step è capire se siamo di fronte ad un rifiuto e successivamente riuscire a classificarlo secondo la normativa in vigore.
L’interpretazione della nozione di rifiuto è stata (e continua ad essere), al centro dell’attenzione, sia in dottrina che in giurisprudenza; negli anni, al susseguirsi di normative interne e sovrannazionali, si sono andate ad aggiungere anche importanti decisioni delle corti e in particolare quelle della Corte di Giustizia dell’Unione europea: siamo passati dalla pronuncia del 28 marzo 1990, in cui si considerava rifiuto solo ciò di cui il detentore decideva di disfarsi, alla valutazione “caso per caso” riconoscendo che per le sostanze e gli oggetti, l’essere o meno ricompresi nelle “liste di rifiuti”, non determini in modo assoluto la loro qualificazione. In quest’ottica la CGUE ha delineato una serie di criteri indiziari desumibili non solo da un‘autodichiarazione del detentore, ma anche dall’oggettiva certezza economica derivante dal recupero di uno scarto.
In Italia, è il Decreto Ronchi n. 22 del 1997 che all’art. 6 riporta la nozione di rifiuto (in seguito inserita nell’atto originario del Testo Unico dell’Ambiente); l’intento era quello di dare importanza alla volontà del soggetto di disfarsi di un oggetto o di una sostanza. “Ai fini del presente decreto si intende per: a) rifiuto: qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi”.
Prima di questa riforma normativa infatti, il quadro all’interno dell’ordinamento italiano, era dominato dal Dpr n.915 del 1982, il quale definiva il rifiuto, all’ormai abrogato articolo 2, come una “qualsiasi sostanza od oggetto derivante da attività umane o da cicli naturali, abbandonato o destinato all'abbandono”. Oggi all'art. 183, comma 1, lettera a, del D.lgs. 152/2006 troviamo definito il rifiuto come “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi”.
Da una rapida lettura si evince dunque che l’azione di disfarsi di una certa cosa al di là delle motivazioni o delle cause è il vero fulcro della questione, tanto da portare difatti il legislatore a ricomprendere anche la sola intenzione di farlo. Occorre ricordare che questa definizione, così modificata nel 2010, è stata completamente mutuata da quella comunitaria contenuta all’interno dell’art. 3 della Direttiva 2008/98/CE.
A tale proposito, il consulente ambientale e titolare di Natura Giuridica, Andrea Quaranta, in un suo commento del 2017, trattando la questione della nozione di rifiuto, riconosceva il fatto che la giurisprudenza comunitaria avesse più volte chiarito quanto fosse “necessario procedere ad un’interpretazione estensiva della nozione di rifiuto, per limitare gli inconvenienti o i danni inerenti alla loro natura” - Corte di Giustizia 11 novembre 2004. Sarebbe corretto quindi, sempre secondo lo stesso, interpretare il verbo disfarsi considerate le finalità della normativa comunitaria (tutela della salute umana e dell’ambiente) per riuscire così a contrastare gli effetti nocivi relativi alla raccolta, al trasporto, al trattamento e al deposito dei rifiuti, assicurando nel contempo sia un elevato livello di tutela e sia l’applicazione del Principio di precauzione e dell’azione preventiva – Corte di Giustizia 18 aprile 2002.
Federica Giuntini