LA CASA DI NINO

Qui non è più Sicilia, dove le serate d’inverno le passavamo in cerchio intorno al braciere ad ascoltare le novelle di mia madre che con la sua paletta mescolava il carbone. Un’operazione questa che voleva compiere soltanto lei, per non farci bruciare, mentre noi ci guardavamo nelle facce rosse come il fuoco.

Ora qui per riscaldarsi c’è la stufa a cherosene.

Ai margini del terreno di mio fratello Nino, si trovavano numerose piante che sembravano disegnare un limite, poi ce n’era una in particolare che sembrava un fichidindia e mi fermavo sempre a guardarla.

Ripenso quando ancora la casa era in costruzione e Nino segnava tutto sulla sua agendina come un notaio, quando scriveva lui noi dovevamo stare zitti, poi diceva qualcosa e subito Benedetta, mia cognata, concludeva: “Il Sacro Cuore di Gesù, se ci vuole aiutare non manca a lui!”

I mastri impastavano sabbia, ghiaia, cemento senza soste.

Una volta riempite le fondazioni , spianammo il primo solaio.

Quando divenne asciutto ci saltavo sopra.

Molta gente del vicinato ci sentiva a causa della radio accesa a tutto volume.

Parecchi vennero a vedere e giravano intorno curiosi, se la mangiavano, parlavano, domandavano tante cose, c’era allegria e con Nino la sera si brindava.

Poi cominciammo a murare sul serio.

Ci volle la scala, in cima c’era Giuseppe, il capomastro, che chiedeva calce e pietra ed io ero il manovale.

Ma era bello lavorare perchè uno la casa se la vedeva crescere sotto gli occhi.

La mattina puntuale alle nove spuntava Benedetta con la borsa della spesa, stendeva il tovagliolo e batteva le mani per chiamarci.

Con le mani ancora un po’ imbrattate di calce secca, agguantavamo quei panini come lupi affamati, mangiare e bere insieme a quel modo mi piaceva tanto.

Dopo i grandi accendevano la sigaretta, mentre io facevo finta di guardare altrove per non arrossire.

Io non sapevo perdere, ero una testa dura e tutti me lo dicevano.

Nino prese altri uomini, appoggiamo i travetti sui muri e fu fatta la copertura.

Temevo che ci cadesse tutto in testa da un momento all’altro, poi mi pareva un miracolo del cuore di Gesù, come diceva mia cognata Benedetta.

Giuseppe volle metterci pure la bandiera, veniva il vento e l’apriva tutta e chi la vedeva chissà quanto era contento.

Mia cognata mandava in Sicilia le belle notizie, sua madre rispondeva che tutte le mattine andava alla messa di padre Rizzo, nella chiesa di san Francesco di Paola.

Nino, mettendo da parte la sua agendina, diceva che ormai era coperta e che a finirla non ci voleva niente.

Mio padre però era sempre a protestare, dicendo che non voleva entrarci in quel buco di casa perché gli restava la coda di fuori.

Io stavo a guardare la bandiera tricolore di Giuseppe che si  apriva nei suoi tre colori e poi ricadeva.

La casa di Nino era un brandello di Sicilia in Toscana e pensavo che era meglio trovarsi qui piuttosto che dover partire per l’estero o per l’America.

Si fece la maccheronata che se ne andava l’estate, lo ricordo perché a tavola c’era il cocomero.

Al termine dei lavori rientrai a lavorare in un calzaturificio. Calzaturificio è una parola elegante, sa di gente che lavora in maniche di camicia: mentre in realtà non è così, perché calzaturificio vuol dire benzolo, lavorazione delle pelli e del cuoio, lavorazione a catena.

Enzo Vincenzo Bellina

Pubblicato

21/01/2010


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