di Rosa Purpurea
«Mi sono spesso domandato che ne sarebbe stato di me se fossi nato in una città chiassosa e illuminata, in una tranquilla famiglia borghese. Ma sono nato nel silenzio di un paese medioevale, sulle pendici di un vulcano spento e in una cornice umana dove era difficile discernere il confine tra la realtà e la fiaba. Sono cresciuto avvolto in un silenzio che mi dava spavento e mi avvezzava ai contatti col mistero. E’ stata una grazia? È stata una circostanza casuale che ha condizionato la mia libertà per sempre? Queste domande si spengono nel silenzio e cioè nel giusto posto».
(E. Balducci, “Il cerchio che si chiude”, intervista autobiografica a cura di Luciano Martini, Edizioni Piemme, Casale Monferrato – 2000)
Ad-meata, ovvero alle sorgenti sembra sia la locuzione latina che abbia dato origine al toponimo Amiata, vulcano buono e sonnacchioso dove dalla vetta, si può vedere il mare; creando quella continuità ideale che dalla sorgente conduce l’acqua al suo naturale punto di sbocco, attraverso un cammino lungo e tortuoso. Ciclo dell’acqua che può esser preso come paradigma da chi volesse intraprendere l’Opera, ovvero un viaggio in terra che attiva la coscienza del pellegrino fino a farlo entrare sotto la protezione dell’arcangelo Michele; il Miles (soldato, veterano, seguace e per traslato testimone) delle virtù celesti. Portando a termine l’opera si raggiunge quel particolare stato mentale in cui è possibile riconfigurare il proprio agire terrestre in accordo con la volontà del padre celeste, facendo del drago il bastone da passeggio (come fece il profeta dell’ Amiata Davide Lazzaretti) cioè, si utilizza il fuoco del drago per eliminare le scorie, rettificando quello che la natura ha lasciato in balia di forze che degradano e imbarbariscono lo spirito dell’uomo, fino a renderlo più simile alle bestie che al suo creatore. Nel cammino dell’Opera è impossibile prescindere dalla tappa che prevede l’addomesticamento del drago; simbolicamente espresso dalla lotta tra l’angelus (il principe delle milizie celesti) e l’anguis (il serpente), che rappresenta l’energia materiale e generatrice dell’ aspetto femminile della divinità che si sposa con gli ideali spirituali di una società patriarcale che per ignoranza e mire politiche fece cadere nell’oblio il sacro femminino. Tale mutismo non era però presente in passato dove l’elemento femminile del divino è stato personificato da Artemide, Venere, Diana Arianna, Demetra, Anath, Uni, Iside, Isthar, Era, le quali non sono altro che molteplici rappresentazioni di un'unica entità presente nella cultura indoeuropea e nel bacino del mediterraneo, fù venerata come la triplice dea e spesso raffigurata con il trigramma rappresentante le tre fasi della luna. Era chiamata la generatrice incorruttibile o grande madre poiché la luce dell’astro che la rappresentava non diminuiva nonostante i mesi da essa generati con le sue fasi; la stessa luce, tenue ma inesorabile, penetrando le tenebre più fitte (mezzanotte è anche l’ora simbolica in cui le streghe, vestigia delle antiche sacerdotesse della grande madre, svolgevano i loro riti) rendeva la dea luna formidabile cacciatrice di belve feroci, facendola il nume tutelare di quella conoscenza che partendo da una visione notturna, a contorni sfumati delle cose poteva giungere alla visione d’insieme della realtà circostante (il processo di conoscenza per intuizione è ascrivibile alle facoltà lunari); connessa con i cicli biologici della donna e della natura in generale la Luna è protettrice delle partorienti (Diana assistette sua madre Latona durante la nascita di Apollo); le acque controllate dalla triplice dea nella sua personificazione di Ecate o Diana Necatrix potevano essere anche latrici di morte come narra il mito di Narciso: Artemide irata per l’insensibilità del giovane all’amore lo attira ad un laghetto di acqua pura, incontaminata, dal colore argenteo, nel quale Narciso specchiandosi s’innamora della sua stessa immagine; resosi conto dell’impossibilità di quest’amore sceglie di morire trafiggendosi con una spada. Sul punto dove morì, dopo aver espletato il motto nosce te ipsum, nacque l’omonimo fiore. Il mito si è prestato agli alchimisti che hanno individuato col fiore del narciso il simbolo dello zolfo vivo, il seme metallico risvegliato, ottenuto mediante lo scioglimento del metallo nelle acque mercuriali (chiamate anche calamita dei saggi, o magnesia, questo è uno dei tre mercuri che s’incontrano quando si entra nel teatro alchemico); in alchimia la luna nella figura della sorella, rappresenta la gradualità e la costanza nel lavoro dell’alchimista (il sole) che lo porta a vincere le proprie passioni, a sottomettere la propria volontà e a risvegliare lo spirito imprigionato dalle scorie terrene che culmina dopo una graduale trasformazione interiore nell’apertura della coscienza. L’astro argenteo inoltre riflette e media la luce del suo sposo/fratello sole divenendo il simbolo dell’anima, quella parte sottile dell’essere che tiene legati lo spirito al corpo e mediante il quale i due possono interagire, facendo dei due un unico essere. Attraverso il controllo esercitato sulle acque la luna è strettamente collegata alla memoria (l’elemento liquido è l’unico che non avendo una forma propria, mantiene fedelmente la forma del contenitore), ed alla capacità di ricordare, di riportare in vita mediante l’emotività ciò che è passato ciò che è morto (importanti divinità lunari sono anche signore della morte, o sono protagoniste di misteri che parlano di rinascite o resurrezioni di divinità maschili defunte). Anche nel simbolismo cristiano, si ritrovano accenni alla tradizione lunare (in particolare Isiaca) nella figura di Maria (dall’ ebraico Myriam ovvero la Signora delle acque del mare) i cui epiteti sono: la nave sicura con la quale solcare le acque (il Carrum Navalis con il quale i seguace di Iside si mettevano alla ricerca del defunto Osiride), Stilla Maris (goccia di mare) che poi muterà in Stella Maris (stella del mare), inoltre il fiore mariano per eccellenza è la rosa che come ci insegna Apuleio nelle Metamorfosi era sacra anche ad Iside; ed infine come madre di Dio sole di verità (la Mérelle è la conchiglia con la quale si distinguevano i pellegrini che si accingevano ad iniziare l’opera, ma attraverso un gioco di parole si può scomporre anche in Mere EL ovvero Madre di EL, dove EL è uno dei nomi del Dio ebraico, inteso nella sua forma di emanatore e dunque per traslato del Sole) ed anche come vergine concepisce senza intervento dell’uomo o il cui compagno muore. L’iconografia egizia mostra come Iside (dea della triade lunare, assieme a Nefti e Athor), presenti sul copricapo il simbolo solare, facendone una dea della luna piena, ed è allo steso tempo sposa e sorella del verde Osiride. Il mito egiziano ha avuto anche una valenza alchemica: la dea innalzando lo specchio lunare in tutto il suo splendore (secondo mercurio alchemico ma anche simbolicamente O), raccolga grazie ad un processo di attrazione da parte del simile verso il simile ciò che è stato sparso (le membra del dio erano andate disperse e dunque possono esser viste come sole nero, zolfo vivo estremamente volatile, simbolicamente . ); facendo si che le qualità ignee del mercurio attraggano le qualità ignee dello zolfo volatile offre in questo caso un nuovo corpo allo spirito del defunto e permette che dall’unione Osiride Iside si possa generare Horus-Ra (il cui simbolo era ʘ, venerato in Eliopoli dove strettamente legata al culto di Ra si ritrova anche la figura mitologica del Bennu, araldo del disco solare più conosciuta in occidente come l’ araba Fenice). Nel caso degli alchimisti si otteneva il terzo mercurio, la pietra filosofale, nel caso di un seguace dei misteri la promessa della resurrezione, nell’ambito del misticismo l’unione dello spirito risvegliato con l’anima per la generazione di un corpo di luce che avrebbe permesso la riunione col vero Sole, portando a termine l’opera che la natura aveva interrotto. L’alchimista ed il pellegrino pongano l’attenzione sugli dei delle tradizioni scomparse o viventi, sugli attributi divini del logos solare (angeli dei monoteismi) secondo la prospettiva non dualista propria di una forma diconoscenza chiarificatrice (ricerca tipica della gnosi che èfrutto del vissuto personale e di un percorso di ricerca della Verità)ravvisando in essi aspetti differenti dell’Unità ricercata dai pitagorici. Non cercando qualcosa di diverso dal sé (si virerebbe verso l’idolatrica ricerca dell’ oro volgare, che voglio ricordare era solamente un accidente in cui si incorreva durante la ricerca della pietra) ma rimanendo nell’ambito della Theoria greca (contemplazione, speculazione, visione e ascolto interiori effettuate col cuore) che, per tramite della meditazione sui simboli, individua stati interiori da realizzare, mondi interni da visitare, palazzi da costruire per poi abitarvi.
tratto da : La dea bianca di Robert Graves
I miti Greci di Robert Graves
Le dimore filosofali Fulcanelli
Due passi nel mistero (articolo riguardante La pieve ad lamulas)
Una teologia della speranza Edizioni Effigi