Sibilla Aleramo

Sibilla Aleramo è una scrittrice italiana vissuta tra la fine dell’800 e la metà del ‘900. L’opera che l’ha resa celebre è il romanzo autobiografico Una donna, pubblicato nel 1906. Il romanzo racconta la prima fase della vita della scrittrice, dall’infanzia alla separazione dal marito. L’infanzia e la prima adolescenza di Sibilla sono dominate dalla figura del padre. Sibilla, inizialmente, si identifica con il modello paterno, annullando la propria femminilità sia sul piano fisico sia su quello comportamentale. Il rapporto di complicità tra padre e figlia, trattata alla pari e coinvolta nella gestione della fabbrica da lui diretta, coesiste con l’impronta autoritaria e patriarcale impressa alla famiglia: è il padre che dirige gli studi e le letture dei figli, mentre la madre, che pure ama la poesia e la musica, non ha libertà di espressione.

Figura rozza e brutale è quella del marito di Sibilla, un impiegato conosciuto durante il lavoro in fabbrica, che la seduce ed abusa di lei. Sibilla ha solo quindici anni e, adolescente, viene costretta a sposare il suo stesso stupratore, attraverso il “matrimonio riparatore”. Il giovane manifesta una gelosia tirannica e Sibilla sente di rivivere la stessa vicenda di annullamento sperimentata dalla madre e da tante altre donne. Confinata dal marito alla sfera domestica, vive in modo problematico il suo essere madre: alla felicità per il bambino si contrappone lo sconforto per il sacrificio che la maternità porta con sé. Inoltre, le leggi italiane dell’epoca negano alla donna, in caso di separazione, l’affidamento dei figli, per cui è lo stesso amore per il figlio ad incatenarla ad un marito sempre più violento.

Sibilla, allora, si trova dinanzi alla scelta tra continuare ad essere “madre di sacrificio” ed essere “una donna”: dinanzi alla legge che non le riconosce alcun diritto nei confronti del figlio, considerato “proprietà” del padre, formula la “sua” rivoluzionaria legge, abbandonando il marito e il figlio. Sceglierà così “la donna”, rinunciando alla “madre”.


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A cura della 5CSU

Anno Scolastico 2021/ 2022

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A cura della Prof.ssa Alida Grasso

Anno scolastico 2021/ 2022


La storia di Sibilla Aleramo attraverso il romanzo Una donna

A cura della 5CSU

Anno scolastico 2021/ 2022

Sibilla Aleramo è una scrittrice italiana vissuta tra la fine dell’800 e la metà del ‘900, poetessa, giornalista e attivista per i diritti delle donne. Il romanzo che l’ha resa celebre è Una donna, pubblicato nel 1906. Protagonista del romanzo è la stessa autrice, che nel racconto non nomina mai se stessa ma che noi, per comodità, indicheremo con il nome di Sibilla. Il romanzo racconta la prima fase della vita della scrittrice, dall’infanzia alla separazione dal marito.

La mia fanciullezza fu libera e gagliarda. Risuscitarla nel ricordo, farla riscintillare dinanzi alla mia coscienza, è un vano sforzo. Rivedo la bambina ch’io ero a sei, a dieci anni, ma come se l’avessi sognata. Un sogno bello, che il menomo richiamo alla realtà presente può far dileguare. Una musica, fors’anche: un’armonia delicata e vibrante, e una luce che l’avvolge, e la gioia ancora grande nel ricordo. (S. Aleramo, Una donna, Feltrinelli, Roma 2003, p. 1)

Nell’incipit del romanzo spicca una parola – chiave: la parola “sogno”, che allude al sogno d’amore, nelle sue varie forme (l’infanzia, il padre, il matrimonio, la maternità) miti di volta in volta “sognati”, idealizzati e poi “svelati”, cioè infranti.

L’infanzia e la prima adolescenza di Sibilla sono dominate dalla figura del padre, il “luminoso esemplare”, dotato di forza e fascino straordinari, considerato dalla figlia un emblema di lealtà e di libertà.

Sibilla, inizialmente, si identifica con il modello maschile paterno, annullando la propria femminilità sia sul piano fisico (taglia i capelli in modo da assumere “un’aria da ragazzo” p. 11) sia su quello comportamentale (si impone con il fratello e con le sorelline). In tutto e per tutto cerca di compiacere il padre e di conformarsi ai suoi desideri.

C’è un rapporto di complicità tra padre e figlia, “confidente” dei progetti del padre, trattata alla pari e coinvolta nel lavoro in fabbrica. Ma evidente è l’impronta autoritaria e patriarcale impressa alla famiglia: è il padre che dirige gli studi e le letture dei figli, mentre la madre, che pure ama la poesia e la musica, non ha libertà di espressione.

La forza del padre contiene tratti di brutalità e sopraffazione ed è costruita sulla sottomissione della moglie sulla mancata accettazione che la figlia si esprima in modo indipendente rispetto alla sua volontà. In particolare, è dopo la scoperta del tradimento ai danni della madre, che crolla per Sibilla il “mito” paterno e l’ammirazione nei confronti del padre si trasforma in “orrore” (p. 24).

Figura ancora più rozza e brutale è quella del marito di Sibilla. Durante il suo lavoro in fabbrica, Sibilla conosce un impiegato che inizialmente si mostra cortese e dolce nei suoi confronti ma che rivela presto una mentalità maschilista: abituato a considerare la donna un essere sottomesso, si stupisce della sua indipendenza.

Il giovane usa verso la ragazza il linguaggio della seduzione, per attirarla a sé, e lei reagisce in modo ambivalente: da un lato prova piacere, dall’altro fastidio. Sibilla ha solo quindici anni ed in lei comincia a germogliare “il sogno d’amore”, ma è un sogno presto spezzato dallo stupro.

Il disgusto per l’atto violento inizialmente sarà affiancato dall’illusione amorosa:

Amarlo, amarlo! Sì, lo volevo tenacemente. E non mi soffermavo su alcuna delle continue impressioni spiacevoli che il mio fidanzato mi procurava. Scoprivo in lui una quantità di difetti, prima insospettati: lo sapevo incolto, ma l’avevo ritenuto più agile di mente: il suo carattere sopra tutto deludeva la mia aspettativa, con qualcosa di sfuggente, di ambiguo; e la piccola ragionatrice ch’io ero pur sempre aveva talvolta dei moti di sorpresa non scevri d’indignazione…Ma li reprimevo tosto. Io volevo credere alla mia felicità, presente ed avvenire; volevo trovare bello e grande quell’amore dei sedici anni che riassume alla fanciulla la poesia misteriosa della vita. E nessuno, vicino a me, mi guardava negli occhi, mi diceva le parole di verità e di forza ch’io avrei ancora saputo comprendere. (p. 32)

La donna “violata”, nella cultura patriarcale, “appartiene” a chi ne ha preso possesso con la violenza, così Sibilla, adolescente, viene costretta a sposare il suo stesso stupratore, attraverso il “matrimonio riparatore” che allora vigeva in Italia (e che sarà abolito soltanto nel 1981).

Il giovane manifesta subito una gelosia tirannica e brutale che si accentua dinanzi al sospetto di un tradimento della moglie. Una violenza “cieca e bestiale” si scatena su di lei:

Rivedo me stessa gettata a terra, allontanata col piede come un oggetto immondo, e risento un flutto di parole infami, liquido bollente come piombo fuso. Colla faccia sul pavimento, un’idea mi balenò. Mi avrebbe uccisa? p. 64

Il viso riceve sputi e baci, il suo corpo è ridotto a “null’altro che un povero involucro inanimato”. Umiliata fisicamente, lo è anche psicologicamente: il marito pretende da lei “mille rinunce”.

Giugno trionfava sui campi dorati. Il mare doveva essere tutto uno scintillìo, un sogno abbacinante; io non lo vedevo perché non uscivo mai di casa, salvo qualche volta la sera: pochi passi con mio marito lungo la deserta via serrata. Nonostante tutto, la gelosia di lui non era scomparsa: al mattino, in grazia della presenza della donna, potevo muovermi per la casa, ma non entrare nelle stanze che davano su strada. Dopo colazione, per tema ch’io ricevessi qualcuno, venivo chiusa a chiave fino al suo ritorno alle sei, sola, col piccino nell’ambiente caldo e ingombro della camera da letto prospiciente sul giardino abbandonato. (pp. 70 – 71)

Inizialmente accettata con rassegnazione e passività, la convivenza con il marito diventa sempre più dolorosa ed insostenibile. Ma per “liberarsi” dalla prigione in cui il marito la reclude, Sibilla deve “attraversare” anche il “sogno” della maternità.

All’interno del romanzo appare sin dalle prime righe un modello di madre “sacrificale”, che rinuncia alla sua vita di donna, alla sua vita sessuale e sentimentale, che “sacrifica” tutto per mantenere l’integrità del suo ruolo di madre. La madre di Sibilla è una figura debole e sottomessa, troppo “facile al pianto”, priva del rispetto dei figli; il suo sogno d’amore deluso la conduce alla follia.

Sibilla, sposandosi, spera inizialmente di poter avere un destino diverso dalla madre, ma in realtà, uno stesso destino unisce madre e figlia: abusata, picchiata e costretta al “confinamento” domestico sente di rivivere la stessa vicenda di annullamento sperimentata dalla madre e da tante altre donne. Così, lentamente, Sibilla arriva ad intuire come la società patriarcale finisca con il negare l’identità della donna. E comincia a mettere in discussione la dedizione materna.

Come moglie, le poche gioie si erano mutate in infinite pene: come madre non aveva mai goduto della riconoscenza delle sue creature. […]

Amare, sacrificarsi e soccombere! Questo il destino suo e di tutte le donne?” (p. 41)

L’attesa e la nascita del figlio sembrano risvegliare il sogno d’amore che aveva dominato la sua infanzia.

Avevo, alfine, uno scopo nell’esistenza, un dovere evidente. Non solo mio figlio doveva nascere e vivere, ma doveva essere il più sano, il più bello, il più buono, il più grande, il più felice. Io gli avrei dato tutto il mio sangue, tutta la mia giovinezza, tutti i miei sogni: per lui avrei studiato, sarei diventata io stessa migliore. (p. 44)

Tuttavia, Sibilla vive in modo problematico il fatto di essere madre: si contrappongono, da un lato, la felicità per il bambino, dall’altro lo sconforto e il dolore per il sacrificio che la maternità porta con sé. Ed è come se Sibilla non si sentisse adeguata al suo ruolo.

In me la madre non s’integrava nella donna: e le gioie e le pene purissime in essenza che mi venivano da quella cosa palpitante e rosea, contrastavano con un’instabilità, un’alternazione di languori e di esaltamenti, di desideri e sconforti, di cui non conoscevo l’origine e che mi facevano giudicare da me stessa un essere squilibrato e incompleto”. (pp. 51 – 52)

Mancava a me la volontà continua della vera educatrice, la serenità di spirito per guidare la sua piccola esistenza; non potevo assorbirmi intera nella considerazione dei suoi bisogni, prevenirli, soddisfarli. In certi istanti per questa consapevolezza mi odiavo. Che miserabile ero dunque se non riuscivo, una volta accettato il sacrificio della mia individualità, a dimenticare me stessa, a riportare integre le mie energie su quella individualità che mi si formava a lato? (p. 143)

La maternità sostiene Sibilla nei suoi anni più solitari ma la rende anche “schiava”: le leggi italiane dell’epoca negano alla donna, in caso di separazione, l’affidamento dei figli, per cui è lo stesso amore per il figlio ad incatenarla ad un marito sempre più violento.

Sibilla, allora, si trova dinanzi alla scelta tra continuare ad essere “madre di sacrificio” ed essere “una donna”. Ma come arriva alla sua tragica decisione?

Sibilla trova una lettera, scritta dalla madre quando lei era piccola:

Debbo partire…qui impazzisco…lui non mi ama più…Ed io soffro tanto che non so più voler bene ai bambini…debbo andarmene…Poveri figli miei, forse è meglio per loro!...(p. 144)

In questa lettera la madre esprime il proposito di lasciare la casa, un proposito mai realizzato per “dovere”. A quel punto, Sibilla si abbandona ad una delle riflessioni più interessanti del romanzo:

E incominciai a pensare se alla donna non vada attribuita una parte non lieve del male sociale. Come può un uomo che abbia avuto una buona madre divenir crudele verso i deboli, sleale verso una donna a cui non dà il suo amore, tiranno verso i figli? Ma la buona madre non deve essere, come la mia, una semplice creatura di sacrificio: deve essere una donna, una persona umana.

E come può diventare una donna, se i parenti la danno, ignara, debole, incompleta, a un uomo che non la riceve come sua eguale, ne usa come d’un oggetto di sua proprietà; le dà dei figli coi quali la abbandona sola, mentr’egli compie i suoi doveri sociali, affinché continui a baloccarsi come nell’infanzia? […]

Perché nella maternità adoriamo il sacrifizio? Donde è scesa a noi questa inumana idea dell’immolazione materna? Di madre in figlia, da secoli, si tramanda il servaggio. È una mostruosa catena. […] Se una buona volta la fatale catena si spezzasse, e una madre non sopprimesse in sé la donna, e un figlio apprendesse da lei un esempio di dignità? […] Per quello che siamo, per la volontà di tramandare più nobile e più bella in essi la vita, devono esserci grati i figli, non perché, dopo averli ciecamente suscitati dal nulla, rinunziamo all’essere noi stessi. (pp. 144 – 145)

Grazie dunque al ritrovamento della lettera della madre ed alle riflessioni che seguono, Sibilla prende la sua decisione: dinanzi alla legge che non le riconosce alcun diritto nei confronti del figlio, considerato “proprietà” del padre, formula la “sua” legge, abbandonando il marito e il figlio. Sceglierà così “la donna”, rinunciando alla “madre”.

***

Sibilla, partendo dall’esperienza della propria madre, fa una riflessione generale sulla figura della donna, ritenuta responsabile di trasmettere ai figli, con il proprio sacrificio e la propria soggezione, la “legge dell’uomo”, una legge di sopraffazione e di violenza che si perpetua nel tempo. Inoltre, con estrema lucidità, Sibilla individua la responsabilità sociale collettiva che fa della donna una figura inferiore ed “incompleta”, una “minorenne” relegata alla sfera domestica ed esclusa dai “doveri sociali”, riservati all’uomo. Molti degli argomenti da lei usati trovano eco sia negli scritti di importanti femministe a lei contemporanee sia in quelli degli anni ’60 – ’70, fino a culminare nel Manifesto di rivolta femminile di Carla Lonzi (1970).

La storia di Sibilla Aleramo raccontata in Una donna è stata definita una “storia di liberazione femminile”. Ma da cosa si libera Sibilla? A cosa reagisce?

Si libera di un uomo violento che interpreta l’amore come possesso sulla donna e quest’ultima come oggetto da sottomettere, anche sessualmente.

Si libera di un ruolo che la società patriarcale da tempi immemorabili ha assegnato alle donne e che le identifica con la casa e con la cura dei figli, sacrificandone l’identità.

Si libera del sogno d’amore e delle sue mistificazioni.

Abbandonando la casa, Sibilla compie una scelta coraggiosa e per svariate ragioni: innanzitutto perché assolutamente divergente e nettamente in contrasto con le norme sociali consolidate (i cosiddetti mores); in secondo luogo, perché separarsi dal marito comportava nella società borghese dell’epoca anche la perdita di una sicurezza economica e di una “rispettabilità” che solo la donna sposata poteva avere garantite. Sibilla Aleramo vivrà del suo lavoro intellettuale ma patirà sempre una situazione di ristrettezza economica.

La sua è una scelta per certi aspetti “eroica” (nel senso di eccezionale e non comune), ma, allo stesso tempo, è estremamente tragica e dolorosa, come emerge nelle ultime pagine del romanzo, in cui spiccano, nella loro amara crudezza, il distacco dal figlio e la consapevolezza di non rivederlo mai più.

Come avevo potuto? Oh non ero stata una eroina! Ero il povero essere dal quale una mano di chirurgo ne svelle un altro per evitare la morte di entrambi. […]

Un giorno avrà vent’anni. Partirà, allora, alla ventura, a cercare sua madre? o avrà già un’altra immagine femminile in cuore? Non sentirà allora che le mie braccia si tenderanno a lui nella lontananza, e che lo chiamerò, lo chiamerò per nome?

O io forse non sarò più. Non potrò più raccontargli la mia vita, la storia della mia anima…e dirgli che l’ho atteso per tanto tempo!

Ed è per questo che scrissi. Le mie parole lo raggiungeranno. (p.161; p. 165)