Agnese che

"va a morire"

L’Agnese va a morire di Renata Viganò è uno dei rari documenti sul ruolo delle donne nella Resistenza italiana. L’opera (pubblicata nel 1949) riflette le vicende biografiche dell’autrice, che aveva preso parte alla Resistenza, seguendo il marito partigiano nelle Valli di Comacchio, in Romagna, luogo in cui è ambientato il romanzo. Protagonista è Agnese, una semplice lavandaia. Un giorno dà ospitalità ad un disertore e tale gesto farà sì che suo marito Palita, denunciato dalle vicine di casa come comunista, verrà arrestato dai tedeschi e non tornerà più a casa.

Dopo l’arresto di Palita, l’Agnese inizia a collaborare con i partigiani amici del marito. La sua non è una scelta ideologica, ma istintiva, dettata da un sentimento di odio nei confronti di chi le ha sottratto il marito, provocandone la morte. Nella brigata partigiana, l’Agnese continua a rivestire il ruolo materno e di cura che la donna ricopre a casa. Nel corso del romanzo, però, la protagonista comincia a maturare una maggiore indipendenza di azione e, ad un certo punto, non è più solo “la mamma dei partigiani”, ma è investita di incarichi importanti, ad esempio pensare ai rifornimenti ed organizzare le staffette.

Inoltre, l’esperienza partigiana fa maturare in lei un interesse politico finora considerato esclusivo degli uomini: la presa di coscienza delle ingiustizie sociali sfocia nella voglia di cambiare il mondo e nel sogno di uguaglianza. Appena prima della sua morte, affrontata con la naturalezza di un ultimo atto di dovere, l’Agnese pronuncia un lungo discorso e ripercorre le vicende che hanno segnato la sua vita, avvicinandola alla lotta partigiana; esprime la volontà di essere utile alla causa ed anche l’ottimismo e la fiducia che questa arriverà a buon fine. Il forte legame tra i compagni e le compagne di lotta partigiana, fondato sulla condivisione di ricordi e di esperienze comuni, costituirà la materia dei racconti del dopoguerra ed anche il terreno su cui fondare in Italia una nuova realtà politica ed una nuova società.


Renata Viganò, L’Agnese va a morire

a cura della 5CSU

Anno scolastico 2021/2022

Sono rarissimi i documenti sulla Resistenza delle donne molto vicini cronologicamente alle vicende di guerra. Uno tra questi è il romanzo L’Agnese va a morire di Renata Viganò, pubblicato nel 1949.

Siamo nell’immediato dopoguerra, negli anni in cui i sopravvissuti sentono il bisogno di comunicare l’esperienza della guerra (quella “smania di raccontare” di cui parla Italo Calvino nell’Introduzione a Il sentiero dei nidi di ragno). Renata Viganò ha preso parte alla Resistenza, seguendo il marito partigiano e lavorando come infermiera in una brigata che agiva nelle Valli di Comacchio, in Romagna. Proprio questa è l’ambientazione del romanzo.

Scrive la Viganò:

La forza della resistenza era questa: essere dappertutto, camminare in mezzo ai nemici, nascondersi nelle figure più scialbe e pacifiche. Un fuoco senza fiamma né fumo: un fuoco senza segno. I tedeschi e i fascisti ci mettevano i piedi sopra, se ne accorgevano quando si bruciavano. (R. Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, Torino 2014, p. 158)

Una di queste figure “scialbe e pacifiche”, ma essenziali per il successo della lotta partigiana, è proprio l’Agnese, la protagonista del romanzo.

Agnese è una popolana, una semplice lavandaia. Un giorno dà ospitalità ad un disertore. Questo gesto farà sì che Palita, il marito dell’Agnese, denunciato dalle vicine di casa come comunista, verrà arrestato dai tedeschi e non tornerà più a casa. Dopo l’arresto di Palita, l’Agnese inizia a collaborare con i partigiani amici del marito. La sua non è una scelta ideologica, ma istintiva: è dettata da un sentimento di odio nei confronti di chi le ha sottratto il marito, provocandone la morte.

Sostenendo i partigiani, l’Agnese si comporta “da uomo", assume ogni incarico generosamente, ma sempre con modestia. Ad ogni proposta di azione risponde sempre “Se sarò buona”. Se mostra titubanza, non è per paura della pericolosità dell’azione che deve compiere, ma per timore di non esserne all’altezza:

Tutti i suoi atti divennero precisi, misurati. Il suo contributo alla lotta clandestina prese il carattere di un lavoro costante, eseguito con semplicità, con disciplina, come se fosse sprovvisto di pericolo. Temeva soltanto di non fare abbastanza, di non riuscire a comprendere, di sbagliare a danno di altri. Era contenta quando le dicevano “brava”, come una scolara promossa. (p. 43)

L’Agnese ospita in casa riunioni di partigiani e collabora come staffetta. La sua posizione, in questa fase, appare marginale: la comprensione dei discorsi dei partigiani è per lei limitata, non interviene oppure, timidamente, azzarda qualche parola, seduta “nel suo angolo” (p. 47).

L’Agnese non riusciva a tener dietro ai loro discorsi. Si sedeva in disparte, con la calza in mano, e se afferrava un argomento, una frase che le apparivano comprensibili, dopo ci meditava sopra, approvando, per tutto il tempo che essi occupavano in altre cose, oscure per lei. (p. 45)

Questa donna semplice comincia pian piano ad assumere sempre più importanza nel corso del racconto.

Una notte un tedesco ubriaco uccide senza ragione la gatta di Palita. L’Agnese allora uccide il tedesco, lascia la casa e si unisce alla lotta clandestina dei partigiani.

Lei stessa si rende conto che l’uccisione del tedesco rappresenta un cambiamento drastico della sua vita:

Poi era la prima notte, da quando, con lo stesso gesto violento, aveva spaccato la testa al tedesco e diviso in due la sua vita. La prima parte, la più semplice, la più lunga, la più comprensibile, era ormai di là da una barriera, finita, conclusa. Là c’era stato Palita, e poi la casa, il lavoro, le cose di tutti i giorni, ripetute per quasi cinquant’anni: qui cominciava adesso, e certo era la parte più breve; di essa non sapeva che questo. (p. 68)

Nella brigata partigiana, l’Agnese continua a rivestire il ruolo che la donna ricopre a casa, un ruolo materno, di cura:

Era stata con loro come la mamma, ma senza retorica, senza dire: io sono la vostra mamma. Questo doveva venir fuori coi fatti, col lavoro. Preparargli da mangiare, che non mancasse niente, lavare la roba, muoversi sempre perché stessero bene. Neppure loro dicevano molte parole, ma erano contenti, la tenevano volentieri. (p. 92)

All’interno di questo ruolo materno, però, l’Agnese comincia a maturare una maggiore indipendenza di azione.

Ad un certo punto i partigiani dovranno spostarsi dalla loro postazione, alla ricerca di un luogo più sicuro in cui muoversi. Nella nuova postazione L’Agnese non è più solo “la mamma dei partigiani”, ma è investita di un incarico importante: pensare ai rifornimenti ed organizzare le staffette, essere “responsabile di tutto” (p. 114). Ed avverte tutto il peso della responsabilità:

Si sentiva orgogliosa e impaurita, ma decisa a metterci l'anima per riuscire, sicura che non si sarebbe sbagliata, pensandoci giorno e notte. (p. 115)

Classici pensieri da donna! Si vede sia la tenacia che la paura, l'ansia di non saper affrontare le cose nella maniera giusta. Allo stesso tempo, l’Agnese è consapevole del fatto che ragionandoci su e, quindi, prendendo più consapevolezza di sé stessa, sarebbe andato tutto bene.

Oltretutto, il senso del dovere per lei è fondamentale: Agnese vive la sua vita e fa le cose come se fossero una sorta di obbligo, anche se vanno contro lei stessa: "Quello che c'è da fare, si fa” (p. 142).

Nel corso del romanzo assistiamo anche ad una “crescita” del personaggio sul piano della consapevolezza politica.

Inizialmente, appare chiaro che la donna è disinteressata alla politica, come se non fosse una cosa che la riguardi, successivamente, venuta a fare parte della lotta partigiana l’Agnese fa delle considerazioni importanti, parlando di sé e del marito.

Non avevano mai grandi cose da dire.

Adesso, invece, potrebbe parlare con Palita. Sapeva molto di più. Capiva quelle che allora chiamava “cose da uomini”, il partito, l’amore per il partito, e che ci si potesse fare ammazzare per sostenere un’idea bella, nascosta, una forza istintiva, per risolvere tutti gli oscuri perché, che cominciano nei bambini e finiscono nei vecchi quando muoiono. – Perché non posso avere una bambola? – Perché le ragazze dei signori vanno a ballare con un vestito nuovo e io non posso andarci a causa del vestito vecchio? – Perché il mio bambino porta le scarpe solo la domenica? Perché mio figlio va a morire in Africa e quello del podestà resta a casa? – Perché non potrò avere un funerale lungo, con fiori e candele? – Lei adesso lo sapeva, lo capiva. I ricchi vogliono essere sempre più ricchi e fare i poveri sempre più poveri, e ignoranti, e umiliati. I ricchi guadagnano nella guerra, e i poveri ci lasciano la pelle. (p. 164)

L’esperienza da partigiana fa maturare nell’Agnese un interesse politico finora considerato esclusivo degli uomini: la consapevolezza delle ingiustizie sociali sfocia nella voglia di cambiare il mondo e nel sogno di uguaglianza. “Sapere”, “capire” come vanno le cose permetteranno all’Agnese di passare dal “femminile” silenzio, alla “parola” che muove l’azione. L’Agnese troverà il coraggio di parlare anche al cospetto del Comandante e di esprimere opinioni diverse da quelle di lui, orientandone anche alcune scelte. E, a sua volta, il Comandante, in alcune circostanze, la tratterà alla pari, la renderà partecipe delle decisioni e, soprattutto, ne riconoscerà il coraggio ed il ruolo indispensabile:

Pensa che è lei la più brava, anche se ha sbagliato, povera vecchia. Anzi appunto perché ha sbagliato, sempre un errore di troppo coraggio, sempre meravigliosa. […] Sai, mi pento di non averle detto quello che penso di lei. Non le ho mai dato molta soddisfazione. Farle capire almeno quanto ci ha servito, di che utilità vera è stata; che cosa ha fatto per la compagnia, per il partito, per noi. Dovevo dirglielo, adesso che saremo lontani. E dirle anche che quando saremo liberi, la zona intera dovrà saperlo. Lo dirò io chi è l’Agnese (pp. 225 – 226).

Appena prima della sua morte, affrontata da lei con la naturalezza di un ultimo atto di dovere, l’Agnese pronuncia un lungo discorso e ripercorre le vicende che hanno segnato la sua vita, avvicinandola alla lotta partigiana; esprime la sua volontà di essere utile alla causa ed anche l’ottimismo e la fiducia che questa arriverà a buon fine.

Noi non finiamo, siamo troppi. Più ne muore e più ne viene. Più ne muore e più ci si fa coraggio. Invece i tedeschi e i fascisti, quelli che muoiono si portano via anche i vivi. […] E i compagni, vivi o morti, saranno sempre compagni. Anche quelli che non erano niente, come me, dopo saranno sempre compagni, perché potranno dire ti rammenti questo, e quest’altro? (pp. 228 - 229)

Un forte legame si crea tra i compagni e le compagne di lotta partigiana, fondato sulla condivisione di ricordi e di esperienze comuni. Sarà questa la materia dei racconti dopo la guerra ed anche il terreno su cui fondare una nuova realtà politica ed una nuova società.

***

L’8 settembre 1943 è la data ufficiale di inizio della Resistenza italiana dei partigiani contro fascisti e nazisti. Su un totale di circa 240.000 partigiani (uomini e donne insieme), 70.000 erano le donne attiviste, organizzate in Gruppi di difesa della donna, e 35.000 erano le combattenti. Tuttavia nella storia ufficiale della Resistenza italiana, dopo la fine della guerra, il ricordo della partecipazione delle donne è stato a lungo taciuto. Per quale motivo? "Si cercò di normalizzare il ruolo delle donne, che proprio durante la guerra avevano sperimentato un’emancipazione di fatto dai ruoli tradizionali” (Simona Lunadei). Donne comuni come l’Agnese uscivano dalla casa, ritenuta dalla società la loro “naturale” dimensione e, anche a prezzo di sofferenza, ricoprivano ruoli tradizionalmente attribuiti agli uomini.

Sarà a partire dagli anni ’60 che si comincerà a riconoscere il ruolo delle donne nella Resistenza e nella storia della Repubblica italiana. Si raccolgono allora testimonianze, si stendono memorie ed autobiografie di donne partigiane.

In un articolo pubblicato su “l’Unità” nel novembre del 1949, Renata Viganò, raccontando dei suoi incontri con l’Agnese, “o quella che nel mio libro porta il nome di Agnese”, scrive:

Quando arrivò l’Agnese per rimanere con noi, e ci riconoscemmo e parlammo insieme perché era un giorno calmo, non crediate che ci si dicesse frasi eroiche. Nessuno nella guerra partigiana diceva mai frasi eroiche. Tutt’al più gridava: “Viva i partigiani!” o cantava “Bandiera rossa” e questo è già molto per uno che sta per morire. Ma spesso cadeva in silenzio col rumore dei mitra che spengono tutte le parole. […]

Così era il clima di allora nella vita partigiana, antiretorico, antidrammatico, casalingo e domestico anche se eravamo alla macchia e la morte girava lì intorno, si nascondeva nello scialle dell’Agnese, negli scarponi dei barcaioli o nei capelli del mio bambino. In quel clima abbiamo vissuto diciannove mesi e poi l’ho creato – o tentato di creare – nel mio libro. Tutto esiste: azioni ed uomini, orizzonti e paesi, colori e temperatura. Tutto come è detto, anche se ho voluto mutare il fisico del comandante e l’ho reso piccolo e grigio, mentre era robusto e bruno, anche se ho inventato nomi di battaglia e posposto i fatti e alterato le età, fu per aver moto più libero nell’acqua corrente del racconto. Ma nella stessa atmosfera ancora viviamo, noi che uscimmo salvi dalla lotta; dentro quel circolo siamo rimasti e forse mai potremo venirne fuori: era il circolo, l’atmosfera dove camminava l’Agnese, ora morta, dove hanno camminato tanti altri, ora pure morti, ma rinchiusi vivi nel mio libro con lei.