Piero Magnanini da Valsavignone, detto il Peccia e la faida di Valsavignone

Di Piero o Pietro Magnanini da Valsavignone si hanno, oltre ai documenti processuali dell'Archivio Storico di Pieve Santo Stefano (vedi qua), altre notizie da tre fonti diverse:

- un estratto del processo degli Otto di Guardia di Firenze dell'Ottobre 1583 per ferimento di una monaca

-la descrizione dell'esecuzione del Peccia da Giuliano De'Ricci (Cronaca 1532-1606).

-una nota dell'esecuzione dal Registro della Compagnia dei Neri.

 

La prima notizia di Piero Magnanini da Valsavignone alias Peccia risale all'Ottobre del 1583 quando viene processato a Firenze dagli Otto di Guardia  (che era una magistratura fiorentina che si occupava degli affari criminali e di polizia del territorio fiorentino).

Definito come "uomo sicario", ha attentato alla vita di Isabella del capitano Niccolò Genovese, monaca alle Convertite. (il Monastero delle Convertite accoglieva le ex prostitute fiorentine. Queste erano distinte in Convertite e Malsposate. Le prime erano donne che di propria volontà avevano esercitato la "professione", e si erano poi pentite. Le seconde erano prostitute indotte a tale "professione" o perchè andate in sposa a mariti che le costringevano ad "esercitare" oppure abbandonate dal marito, per mantenere se e i figli.)

Piero dichiara di non essere stato mosso da "nimicizia alcuna" nei confronti della suora, ma di aver agito "ad istanza di altri". La prima volta, il 19 febbraio, ha fallito l'obiettivo: si è presentato al monastero con una "lettera finta", alcuni fiaschi di vino greco e "un alberello di lattovaro" avvelenato, (il lattovaro, detto anche elettuario, era un preparato farmaceutico composto da una miscela di principî attivi, polveri, parti ed estratti vegetali impastati con miele o sciroppi per mascherarne il sapore sgradevole) consegnando il tutto a Isabella. Ma il veleno della pianta non ha avuto effetto. Piero è tornato così il 23 febbraio, "con un pugnale in una manica e con una zana piena di più robe da mangiare". Fatta chiamare suor Isabella alla porta, le ha consegnato i doni e, subito dopo, le è saltato addosso con l'arma in mano "per ammazzarla". Il sicario ha inferto tre colpi alla monaca ed è fuggito lasciandola "in pericolo di morte", con il pugnale piantato nel petto.

Certamente Piero fu condannato e il fatto che si ritrovi a Settembre dell'anno successivo al Savignone si spiega solo con una sua fuga dal carcere fiorentino delle Stinche.

 

Dalla cronaca Giuliano De'Ricci si ha una descrizione delle vicende del Peccia, forse meno precise, ma più vive. Il De Ricci si impegna nella sua Cronaca  "a dire se non quel che io veggo et che mi perviene a notitia senza domandarne alcuno".

Il De Ricci quasi certamente assistette di persona all'esecuzione del Peccia. Abbiamo così anche una descrizione fisica di Piero "huomo di meno di età di anni 30 o meno, di bellissima dispositione di corpo". De Ricci chiama il Peccia : Antognone da Valsavignone e non usa mai il Peccia o Piero Magnanini. A Firenza era conosciuto popolarmente come Antognone (forse era un soprannome familiare dovuto alla devozione della famiglia a S.Antonio e una sua alta statura).

La cronaca inizia con: "Addì 2 di maggio 1585 fu inpiccato in Firenze uno Antognone da Valsavignone, distretto della Pieve a Santo Stefano".

"Questo huomo fra le altre sceleratezze da lui commesse haveva pochi mesi sono ammazzato all'altare in mentre che celebrava la messa il prete da Valsavignone con una archibusata; " (ci sono alcune imprecisioni rispetto alle testimonianza del processo tenuto a Pieve mancano anche le altre vittime). Continua la cronaca: "anni sono, ad instantia de' cognati et moglie del cavaliere Antonio Serguidi primo segretario di S. A. Serenissima, voluto ammazzare et ferito malamente una donna che da detto cavaliere era stata racchiusa nel monasterio delle Convertite per di poi farla monaca come si fece" (si tratta del caso del processo degli Otto già descritto). Ancora:

Fu preso a Parma et, dato da quel duca al nostro, si scambiò il nome facendosi chiamare Camillo da Cremona; (probabilmente aveva cambiato aria dopo i fatti di Valsavignone. Viene il dubbio di come avrä fatto con l'accento aretino a farsi passare come uno di Cremona).

Arrivando al processo degli Otto a Firenze:

 "non ha mai confessato cosa alcuna, ma convinto dell'homicidio del prete et del nome scambiato dalli Otto con la solita participatione del serenissimo gran duca fu condannato alla forca".

Segue infine la descrizione dell'esecuzione:

"alla quale conducendosi, sempre si andò dolendo di essere stato assassinato et ricevere torto. Ma nell'ultimo, quando fu vicino alla Compagnia del Tempio et che gli fu presentato il Crocifisso, mutato pensiero et animo, chiamò il confessoro, confessossi divotamente, et sempre raccomandando l'anima sua a Iddio si condusse al luogo della giustitia fuori della porta alla Croce, et su la scala, udendo tutti i circunstanti, disse che meriteria per li suoi eccessi quella et più aspra morte, et che rendeva la fama alla santa et buona iustitia amministratali".

 

Il registro dei  “Battuti di Santa Maria della Croce al Tempio”, o dei Neri, al numero progressivo 1432 riporta : . "Pietro di Giovanni da Falsovignone, fu impiccato e squartato al solito luogo a dì 11 maggio in sabato, 1585"  da notare il curioso errore nel toponimo e la discordanza di 9 giorni nella data dell'esecuzione con quella della Cronaca. La Cronaca del de Ricci non accenna allo  squartamento che forse avvenne non contemporaneamente all'impiccagione. Sappiamo che fu squartato e come era uso in questi casi una parte del corpo fu esposta nel luogo del delitto cioè vicino alla chiesa di Valsavignone. Immaginiamoci lo strazio della madre ..

Le principali pene, riportate nel registro del Tempio erano:

"attanagliato, dicollato, appeso, appiccato, strangolato, squartato, decapitato, strascinato, propagginato, condotto sul carro, vesti particolari, cartelli, arso, abbruciato".

il luogo delle esecuzioni era il "Pratello fuori Porta la Croce" dove oggi la zona dell' Archivio di Stato e della ex Caserma Carabinieri.

I neri si occupavano della sepoltura dei non cristiani o di quelli che non accettavano i conforti religiosi,  questi venivano sepolti "fuori le mura" soprattutto intorno al Pratello dell'esecuzione Quelli che facevano una "buona morte", così indicavano i Neri nel loro registro i condannati che ricevevano i conforti religiosi, venivano sepolti in una delle chiese fiorentine vicine al luogo dell'esecuzione. Si può ritenere che almeno una parte del corpo del Peccia abbia fatto questa fine. Difficile è sapere che fine facessero i quarti inviati nei luoghi dove era stato commesso il delitto ed esposti  “fino a consumazione”.. Chissà se la madre del Peccia si occupò personalmente.della sepoltura.

 

Il motivo dell'uccisione di Don Michele e dei tre della famiglia Severi è quasi certamente da collegare ad una faida fra clan familiari di Valsavignone.

I Magnanini o Magnani (la famiglia del Peccia) si può ritenere che fossero una delle famiglie principali del paese (o lo erano stato). Questo lo dimostra anche il fatto che avevano fatto costruire, pochi decenni prima dei fatti, l'unico altare di famiglia della chiesa. Nel 1583 ne erano ancora i patroni e facevano recitare una messa settimanale. L'altare era dedicato a Sant'Antonio ma successivamente la famiglia perderà il patronato che passerà, dopo qualche tempo, agli Angioloni. La dedica dell'altare da Sant'Antonio  a San Sebastiano. Nel 1584, al momento dei fatti, della famiglia Magnanini pare fossero  rimasti solo la madre di Piero, che abitava in una casa del Castello, e il Peccia stesso. Si può ritenere che la famiglia fosse stata sterminata "recentemente". (spero che nell'Archivio Storico di Pieve si trovino altre notizie al riguardo). Sarebbe comuque "comprensibile" una vendetta  così feroce da parte del Peccia.

Un'altra famiglia importante era quella  dei Corazzini.  I Corazzini erano riusciti a far nominare prete del Savignone già nel 1552 don Stefano e soprattutto, recententemente (nel 1583), anche il successore don Michele. Inoltre il Fratello di Don Michele era notaio al Savignone.

La famiglia Severi doveva avere una certa importanza. Don Giovanni Battista Severi era il prete di Cananeccia fin da prima del 1574. Don Giovanni era stato anche lo spedalingo dell'Ospedale di San Giuseppe del Savignone. Don Giovanni Battista era il  fratello del Giovanni ucciso davanti alla chiesa e di Aniballe ammazzato alla Pieve.

Nel 1577 la Compagnia del Bigallo nominò il nuovo spedalingo dell'Ospedale di San Giuseppe nella persona di Giovanni Fondati che andava quindi a sostituire il Don Giovanni. Giovanni Fondati entrato in carica si accorse che parte delle terre dell'ospedale erano state assegnate ad Aniballe Severi attraverso false testimonianze. Il Fondati intentò una causa lunga e costosa (1578 a 1583). Sette citazioni dei fratelli Severi  non ebbero alcun esito. Dagli atti del processo per l'uccisione di don Michele risulta che il Fondati lasciò ben presto  il Savignone prima della conclusione della causa in quanto il nuovo Spedalingo Niccolò di Piero de Suara era già presente dal 1581 .

Un altro evento utile a percepire il livello di violenza nel paese: Aniballe l’anno precedente la sua uccisione ebbe una causa penale con Britio di Valsavignone per una lite iniziata con arme bianche e   terminata con gli archibugi

 

Riguardo alle faide occorre ricordare che la vendetta fino a pochi decenni prima era, in certi casi, del tutto legale ovvero i parenti del morto ammazzato avevano il diritto-dovere di fare altrettanto con uno dei familiari dell'assassino. Nel 1469 Filippo da Valsavignone ferì mortalmente a Firenze Cherubino degli Alberti. Per anni temette per la vita dei due suoi fratelli che abitavano al Savignone, più che per la propria. Per diversi anni scrisse a Lorenzo il Magnifico chiedendo d'intercedere per una "pace" con la famiglia degli Alberti. La "pace" era l'unico modo per evitare una catena di vendette.

Molto probabilmente si può collegare alla faida di Valsavignone anche l'omicidio avvenuto alla Pieve nel Maggio del 1584 di Aniballe da Valsavignone. Aniballe Severi sappiamo era il fratello di Giovanni Severi.  Dalla dinamica del fatto pare abbastanza chiaro che l'obbiettivo degli aggressori fosse Aniballe. All'aggressione oltre ai due fratelli Resi parteciparono altri quattro sconosciuti  e non è da escludere che uno di questi fosse il Peccia. Comunque si può ritenere che il Peccia fosse il mandante.

Il fratello di Don Michele, Ser Bernardino di Stefano Corazzini da Valsavignone si rifugiò alla Pieve dopo poco l'assassinio del fratello. Due settimane dopo l'omicidio Ser Bernardino mandò alcuni uomini della Pieve a prendere delle sue cose al Savignone. Questi furono assaliti da un gruppo di banditi armati di archibugi. Anche questo fatto è probabilmente da collegare alla faida di Valsavignone. Prima della rapina i banditi chiesero di chi fossero le cose e saputo che apparenvano a Ser Bernardino attuarono la rapina.

 

Sarebbe interessante capire qualcosa del contesto sociale dell'epoca al Savignone.

Dagli atti del processo a Pieve si hanno alcune informazioni.

Colpisce l'assoluta omertà dei testimoni. Lionebra, moglie di Giovanni, a cui avevano appena ucciso il marito e due figli non ha niente da dire al "sindico". Fiore sua cognata a cui avevano ucciso oltre il cognato e due nipoti  pochi mesi prima il marito. Fiore ripetutamente dichiara di non sapere niente e di non essere stata nemmeno presente, nonostante il "sindico" avesse dichiarato che lo era e aveva visto e riconosciuto il Peccia.

Nessuno degli altri testimoni ammise di sapere o aver visto qualcosa. Diversi finirono in carcere ma continuarono a negare di sapera qualcosa.

 

Significative le poche affermazioni generiche della gente del Savignone.

"perché v'è poca gente a Valsavignone et quella poca tutta tribulata  e non vi cerca queste cose”

Ancora più interessante

"perché in questi paesi ogniuno ha paura e se bene qualcuno vede alle volte qualche cosa non s'arrischia in ogni modo a dirlo"

Un altro fatto accaduto settanta anni dopo mostra come poco fosse cambiato.Il prete del Savignone  Don Pasquino Brizi una notte sentì che qualcuno era entrato in canonica.  Scappò alla pieve di Corliano scalzo e come si trovava.

Il Vescovo Ludovico Malaspina volle che fosse fatta chiarezza sul fatto ma l'indagine non dette risultati perchè nessuno dei testimoni ammise di sapere qualcosa.

Si può concludere una società del Savignone condizionata dalla  paura, dalla prepotenza dei più forti dove non c'è spazio per la legge simile ad una società mafiosa.


Qua trovate gli altri articoli sul Peccia ecc.