Intorno al 45 a.C. mi trovavo nella mia villa a Tusculum, allontanato dalla scena politica a causa dei recenti avvenimenti, quali la sconfitta di Pompeo e l'affermazione del potere di Cesare, che si aggiungevano al dolore per la perdita di mia figlia Tullia; decisi così di riperendere nuovamente lo studio della filosofia.
Una delle opere che ho scritto in quegli anni sono le Tusculanae, dedicate a Bruto, che affrontano il problema di liberare l'uomo dai timori e dalle preoccupazioni che turbano inutilmente il suo animo e non gli permettono di raggiungere la felicità, data dalla sola virtù. Come molte altre mie opere sono in forma di dialogo, anche se in questo caso l'interlocutore è sconosciuto e interviene di tanto in tanto per esporre i propri dubbi. Il dialogo è infatti di matrice aristotelica, e in molte parti si rivela in realtà un monologo, in modo che io possa esporre più chiaramente i miei argomenti.
L'opera è divisa in cinque libri, ciascuno dei quali verte su un argomento differente: nel primo tratto l'inutilità del temere la morte, nel secondo e nel terzo la sopportazione del dolore fisico e psicologico, nel quarto dimostro come controllare le passioni e i turbamenti dell'anima e nel quinto indago se la virtù basti da sola al conseguimento della felicità.
Lo scopo dello scritto è diffondere la filosofia stoica a Roma; voglio infatti dimostrare che la filosofia non è un'attività intellettuale che distrae dalla vita pubblica, al contrario può avere la finalità di aiutare chi è al potere a mantenere saldo lo stato.
Roma è già superiore alla Grecia in molti ambiti, ma non ha ancora imparato a utilizzare le discipline artistiche e filosofiche sul piano pratico, per questo è importante diffondere la filosofia anche come mezzo per raggiungere fini politici.
"Cum defensionum laboribus senatoriisque muneribus aut omnino aut magna ex parte essem aliquando liberatus, rettuli me, Brute, te hortante maxime ad ea studia, quae retenta animo, remissa temporibus, longo intervallo intermissa revocavi, et cum omnium artium, quae ad rectam vivendi viam pertinerent, ratio et disciplina studio sapientiae, quae philosophia dicitur, contineretur, hoc mihi Latinis litteris inlustrandum putavi, non quia philosophia Graecis et litteris et doctoribus percipi non posset, sed meum semper iudicium fuit omnia nostros aut invenisse per se sapientius quam Graecos aut accepta ab illis fecisse meliora, quae quidem digna statuissent, in quibus elaborarent.
[...]Philosophia iacuit usque ad hanc aetatem nec ullum habuit lumen litterarum Latinarum; quae inlustranda et excitanda nobis est, ut, si occupati profuimus aliquid civibus nostris, prosimus etiam, si possumus, otiosi."
"Trovandomi finalmente libero, se non completamente, almeno in gran parte, dagli obblighi del patronato giudiziario e dai doveri di senatore, sono ritornato, Bruto, soprattutto per tua esortazione, a quegli studi che, sempre presenti nel mio animo, ma rinviati a causa delle circostanze, ora ho ripreso, dopo averli trascurati per un lungo periodo; e poiché il metodo e linsegnamento di tutte le discipline che riguardano la corretta norma del vivere rientrano nello studio della sapienza, che viene denominata filosofia, ho ritenuto necessario affrontare questo argomento in latino, non certo perché io pensi che la filosofia non possa essere imparata in greco da maestri greci, ma sono sempre stato convinto che in ogni campo i Romani o hanno dimostrato una maggiore sapienza inventiva rispetto ai Greci o hanno saputo perfezionare ciò che avevano appreso da loro, naturalmente nei campi ai quali avessero ritenuto opportuno dedicare i loro sforzi.
[...] La filosofia è rimasta trascurata fino a questi tempi e non ha ricevuto alcuna luce dalla letteratura latina; perciò essa deve essere da me illustrata e divulgata, affinché, se ho giovato in qualche misura ai miei concittadini con la mia attività politica, giovi loro, se posso, anche nel mio tempo libero."
LIBRO I
Nel dialogo del primo libro, mi proposi quindi di dissuadere il mio interlocutore dal ritenere la morte un male, sia per coloro che sono morti sia per coloro che devono morire. Se la morte fosse un male, infatti, saremmo tutti destinati ad una infelicità eterna, ancor prima di nascere. Per essere infelici, tuttavia, dovremmo esistere, essere in un qualche luogo, e ciò è impossibile poichè gli Inferi non sono altro che favole, frutto di fantasia. Secondo lui, l'infelicità deriverebbe proprio dal non esistere più, ma tale affermazione contiene una contraddizione: bisogna esistere per essere infelici; coloro che sono morti non esistono, pertanto non possono essere nulla, neppure infelici.
L'allievo mi chiese allora di dimostrare che non vi è alcun male neppure nel dover morire, e così iniziai a spiegare non solo che la morte non è un male, ma che è anche un bene; e per fare ciò occorre capire cosa sia la morte stessa.
Alcuni ritengono che essa consista nella separazione dell'anima dal corpo, e questa poi o si disperda subito o viva ancora a lungo, altri che l'anima si estingua nel corpo.
Che cosa è dunque l'anima e da dove viene?
Se essa è il cuore o il sangue o il cervello, come credono alcuni, allora perirà con il corpo; se è soffio vitale, si dissolverà; se è fuoco, si spegnerà; se è l'armonia di Aristosseno, si disperderà. Se invece l'anima si stacca dal corpo e sopravvive, è un errore ritenere che essa vada negli Inferi, che abbiamo già visto essere un luogo inventato, perché sia che essa sia ignea o aeriforme sia che sia quel quinto elemento di Aristotele, è portata verso l'alto, lontano dalla terra.
Inoltre, ricollegandoci alla teoria di Platone, possiamo dimostrare che l'anima è eterna, poiché ciò che si muove sempre è eterno e solo ciò che muove se stesso non cessa mai di muoversi, infatti si dice "animato" di qualcosa che è mosso da un impulso interno e proprio.
La natura dell'anima, poi, è divina, in quanto essa è sede della memoria, che, come la sapienza, l'inventiva, la vitalità, sono prerogative divine.
Gli Stoici invece sostengono che che l'anima rimanga in vita, ma non per sempre, mentre Panezio sostiene la mortalità di essa attraverso la somiglianza delle generazioni, e dicendo che se l'anima prova dolore dunque muore anche; considerazioni facilmente confutabili dato che la somiglianza non comporta un'origine né una fine.
In ogni caso nella morte non c'è alcun male, neppure se l'anima dovesse morire; innanzitutto perché se essa muore come il corpo, non vi rimane alcuna sensibilità, inoltre perché il distacco dal corpo avviene senza che ce ne accorgiamo.
Quanti illustri personaggi, poi, avrebbero evitato grandi mali, se la morte fosse giunta a loro prima! Anche a me conviene morire, "qui et domesticiis et forensibus solaciis ornamentisque privati certe si ante occidemus, mors nos a malis, non a benis abstraxisset." (a me che, privato delle gioie e delle soddisfazioni sia familiari sia forensi, certamente, se fossi morto prima, la morte avrebbe tolto dai mali, non dai beni.)
Se anche fosse privazione dai beni, questo non si potrebbe dire dei morti, perché il 'carere' è proprio di chi avverte la mancanza, ma nel morto non c'è sensibilità: per cui nel morto non ci può essere neppure privazione.
Così come nulla ci riguardava prima della nascita, così nulla ci riguarderà dopo la morte, e questo deve aiutare il sapiente a occuparsi dello Stato, poiché essendo la vita un dono della natura, essa ce la può togliere in ogni momento; noi tuttavia dobbiamo esserle grati, perché, come diceva Socrate, la morte può essere paragonabile ad un lungo sonno, oppure l'anima in cielo potrà parlare con i grandi personaggi della storia.
La morte,quindi, in ogni caso è un bene, e nel dolore può essere considerata come la più grande consolazione.
LIBRO II
Ci tenevo inoltre a sottolineare l'importanza del dedicarsi alla filosofia, non solo trattando certi argomenti, bensì tutti quelli possibili; essa infatti è molto utile perché guarisce gli animi liberandoli da passioni, timori e preoccupazioni, pertanto non deve essere studiata unicamente come esercizio per l'eloquenza.
"Ut ager quamvis fertilis sine cultura fructuosus esse non potest, sic sine doctrina animus; ita est utraque res sine altera debilis. Cultura autem animi philosophia est; haec extrahit vitia radicitus et praeparat animos ad satus accipiendos eaque mandat eis et, ut ita dicam, serit, quae adulta fructus uberrimos ferant."
"Come un campo, per quanto fertile, non può essere fruttuoso senza coltivazione, così l'animo senza cultura; pertanto, ognuna delle due cose è incompleta senza l'altra. Ora la cultura dell'animo consiste nella filosofia; questa strappa i vizi dalle radici e prepare gli animi a ricevere la semenza e gliel'affida e, per così dire, vi semina quelli che saranno i frutti più rigogliosi."
Cominciammo poi il dialogo dall'affermazione dell'allievo: "Dolore existimo maximum malorum omnium" ("considero il dolore come il più grande di tutti i mali"), che confutai immediatamente, poiché non c'è alcun male più grande del disonore. Bisogna sopportare il dolore, come il vero saggio sa fare; invece i poeti (come Sofocle ed Eschilo) ci tramandano i racconti di eroi che si lamentano e piangono per il dolore, e così spezzano il valore della virtù.
Epicuro, invece, pur essendo un filosofo, dice che ogni dolore, anche mediocre, è un male maggiore del disonore; più che chiedersi cosa sia il dolore e se sia un male, bisogna rafforzare l'animo per imparare a sopportarlo.
Il dolore deve essere disprezzato e sopportato, altrimenti non potrebbe esistere la virtù, poichè non si riuscirebbe a dominare l'animo e a essere forti. La fatica e il dolore, inoltre, si differenziano, in quanto la prima è l'adempimento di un compito gravoso, mentre il secondo è "un movimento del corpo in contrasto con i sensi". I due sono comunque in relazione, perché la consuetudine alla fatica rende più facile sopportare il dolore: il saggio infatti deve abituarsi al dolore così come un soldato è capace di sopportarlo in battaglia, grazie all'esercizio.
Se si vuole essere veri uomini, bisogna essere forti e disprezzare il dolore; la parola virtù, infatti, deriva da vir cioè uomo forte. La virtù è il sommo bene, è ciò che è onesto e lodevole; essa si raggiunge comandando se stessi, governando quella parte dell'anima che deve obbedire, cioè quella delle passioni. È vinto dalla vergogna colui che non sa anteporre la ragione.
Il saggio poi si prepara e si arma per resistere al dolore, con la tensione morale, la fermezza e il ragionamento interiore, che sono più facili da mantenere per un obiettivo nobile e onesto. Le azioni virtuose sono più durevoli se avvengono senza ostentazione e lontano dalla gente, affiché più che per la gloria vengano svolte per la propria coscienza.
Infine, la tensione dell'animo che porta alla sopportazione del dolore deve essere costante, perché la coerenza deriva dalla ragione, e l'uso della ragione corrisponde alla virtù, che soffoca il dolore.
LIBRO III
"Quid? qui pecuniae cupiditate, qui voluptatum libidine feruntur, quorumque ita perturbantur animi, ut non multum absint ab insania, quod insipientibus contingit omnibus, is nullane est adhibenda curatio? utrum quod minus noceant animi aegrotationes quam corporis, an quod corpora curari possint, animorum medicina nulla sit? At et morbi perniciosiores pluresque sunt animi quam corporis – hi enim ipsi odiosi sunt, quod ad animum pertinent eumque sollicitant -, ‘animusque aeger’, ut ait Ennius, ‘semper errat neque pati neque perpeti potest, cupere numquam desinit.’
[...]Est profecto animi medicina, philosophia; cuius auxilium non ut in corporis morbis petendum est foris, omnibusque opibus viribus, ut nosmet ipsi nobis mederi possimus, elaborandum est."
"E che? Non si deve prestare alcuna cura a coloro che si lasciano trascinare dalla brama del denaro e dallo smodato desiderio dei piaceri e i cui animi sono turbati a tal punto che non sono molto lontani dalla follia, ciò che capita a tutti gli ignoranti? Forse perché le malattie dell'animo sono meno dannose di quelle del corpo o perché i corpi si possono curare, mentre degli animi non c'è alcuna medicina? Eppure le malattie dell'animo sono più pericolose e più numerose di quelle del corpo - queste infatti sono odiose di per se stesse, poiché riguardano l'animo e lo agitano -, 'e l'animo malato', come dice Ennio, 'è sempre fuori strada e non riesce a sopportare e a tener duro fino all'ultimo, e non cessa mai di bramare'.
[...] Vi è certamente una medicina dell'animo, la filosofia; e il suo aiuto non deve essere cercato fuori, come nelle malattie del corpo, e dobbiamo sforzarci con tutti i mezzi e con tutte le nostre energie, per poterci curare da noi stessi".
L'interlocutore affermava che il sapiente cade nell'afflizione, ma ciò è impossibile perché questa è una debolezza ed è contraria alla fortezza, che è propria del sapiente. Le debolezze non capitano all'uomo forte, e l'uomo forte è il sapiente, perciò al sapiente non può capitare l'afflizione. Inoltre, poiché essa è un turbamento dell'animo, significa che questo non si sta servendo bene della ragione, cosa che non può capitare a un sapiente o non sarebbe più tale. Allo stesso modo il sapiente né si adira, né prova compassione o invidia, poiché anche queste emozioni turberebbero il suo animo.
Per curare questa afflizione nell'animo bisogna indagarne la causa, come bisogna scoprire l'origine della malattia nel corpo.
La causa di tutti i turbamenti è l'opinione, che provoca la falsa rappresentazione di un bene o di un male: il piacere esagerato e la libidine sono provocati dalla falsa rappresentazione di certi beni, invece la paura e l'afflizione da falsa rappresentazione di certi mali. Esse si manifestano, infatti, quando ci sembra che un grande male stia per colpirci.
I Cirenaici ritengono che l'afflizione non sia provocata da tutti i mali, ma solo da quelli inaspettati; dunque è vero che la previsione di mali futuri mitiga il loro arrivo, tuttavia non basta la preparazione dell'animo a scacciare del tutto l'afflizione, ma bisogna indagare le vicende umane e pensare sempre che non c'è nulla che non possa accadere, così da essere pronti a qualsiasi avvenimento.
Non ha per niente ragione Epicuro quando dice che pensare ad un male che potrebbe accadere comporta un'afflizione inutile, perché se poi non accadesse ci saremmo procurati un'infelicità volontaria. Infatti, "nihil est quod tam optundat elevetque aegritudinem quam perpetua in omni vita cogitatio nihil esse quod non accidere possit, quam meditatio condicionis humanae, quam vitae lex commentatioque parendi, quae non hoc adfert, ut semper maereamus, sed ut numquam. Neque enim qui rerum naturam, qui vitae varietatem, qui inbecillitatem generis humani cogitat, maeret cum haec cogitat, sed tum vel maxime sapientiae fungitur munere; utrumque enim consequitur, ut et considerandis rebus humanis proprio philosophiae fruatur officio et adversis casibus triplici consolatione sanetur, primum quod posse accidere diu cogitaverit, quae cogitatio una maxime molestias omnis extenuat et diluit, deinde quod humana humane ferenda intellegit, postremo quod videt malum nullum esse nisi culpam, culpam autem nullam esse, cum id quod ab homine non potuerit praestari evenerit."
"Non c'è nulla che attutisca e allegerisca l'afflizione tanto quanto il continuo pensiero in tutta la vita che non c'è nulla che non possa accadere, quanto il meditare sulla condizione umana,quanto la legge della vita e la preparazione ad obbedire, che non comporta questo, cioè che siamo sempre afflitti, ma che non lo siamo mai. Né infatti chi pensa alla realtà delle cose, alla varietà della vita, alla debolezza del genere umano, si rattrista quando pensa a queste cose, ma proprio allora adempie propriamente il dovere del sapiente; infatti, consegue entrambi gli scopi, sia di trarre vantaggio dal dovere proprio della filosofia, considerando le cose umane, sia di guarire nelle avversità con una triplice consolazione, prima, perchè ha pensato a lungo che un male potesse accadere, pensiero che, esso solo, attenua e stempera massimamente i disagi, in secondo luogo, perché capisce che le cose umane devono essere sopportate con rassegnazione, infine, perché vede che non c'è male che non sia una colpa, ma che non c'è colpa quando sia accaduto ciò che dall'uomo non poteva essere garantito che non avvenisse."
Inoltre (di nuovo mi rivolsi contro Epicuro) né si può obbligare l'animo a guardare solo i beni, e, anche se ciò fosse possibile, non avrebbe di certo efficacia se si intende il sommo bene con il piacere.
Credo anche che sia sbagliato ritenere che l'afflizione sia una causa della natura, contro cui non possiamo niente. Chi infatti vorrebbe rattristarsi di propria volontà?Nessuno, dunque l'afflizione non ha origine dalla natura, ma, come ho già detto, nella falsa opinione.
Vi sono infine tre rimedi per la consolazione: il primo è dimostrare che non c'è alcun male o se c'è è molto piccolo, il secondo riflettere sulla condizione della vita e in particolare di quella di colui che è afflitto, il terzo che è una stoltezza consumarsi nella tristezza e non porta nessun vantaggio. L'afflizione, quindi, è lontana dal sapiente "quod inanis sit, quod frustra suscipiatur, quod non natura exoriatur, sed iudicio, sed opinione, sed quadam invitatione ad dolendum, cum id decreverimus ita fieri oportere."
("perché è vana, perché ci si sobbarca ad essa senza motivo, perché non nasce dalla natura, ma da una valutazione, da un'opionione, da una sorta di autoinvito a dolersi, quando abbiamo deciso che bisogna comportarsi così."
LIBRO IV
Come prima ho dimostrato che il sapiente è privo dell'afflizione, così ora mi proposi di dimostrare che egli è privo di qualsiasi turbamento dell'animo. Poiché la paura è afflizione per i mali lontani, l'abbiamo eliminata con l'afflizione stessa; rimangono quindi la gioia smisurata e la libidine.
Partendo dalle definizioni degli Stoici, secondo cui il turbamento è un moto dell'animo estraneo alla ragione, si può dire che quando l'animo desidera qualcosa con "equilibrio e prudenza" è chiamata volontà, quando invece possiede quel desiderio sfrenato contro ragione si chiama brama o libidine. Allo stesso modo, se è toccato da un'emozione razionale, con equilibrio, si chiama gioia sana, altrimenti è una gioia eccessiva.
Da ogni passione poi ne derivano diverse specie (invidia, gelosia, compassione, vergogna, ira..), ma poiché tutte si possono identificare come vizi, cioè come qualcosa che agita l'animo contrariamente alla ragione, ne deriva che la cura per essi è la virtù, cioè la capacità dell'animo di dominarsi attraverso la temperanza e la moderazione.
Hanno torto i Peripatetici quando dicono che è inevitabile che l'animo sia turbato, ma bisogna porre un limite oltre al quale non bisogna spingersi. Non si può porre un limite al vizio, perché un animo agitato e turbato non può fermarsi dove vuole.
"Qui modum igitur vitio quaerit, similiter facit, ut si posse putet eum qui se e Leucata praecipitaverit sustinere se, cum velit."
"Chi cerca dunque un limite per il vizio fa la stessa cosa che se credesse che uno, precipitato dalla rupe di Leucade, possa fermarsi nella caduta a suo piacimento."
Hanno torto anche quando affermano che alcuni turbamenti ci sono stati dati dalla natura per la nostra utilità. Dicono infatti che l'ira è uno strumento della fortezza, l'afflizione serve a scontare le colpe, la compassione aiuta ad alleviare il dolore a chi non lo merita.
Non è vero che l'uomo forte non è coraggioso se non si fa prendere dall'ira; lo dimostrano gli esempi di Aiace, Scipione l'Africano, Lucio Bruto, Ercole e Teseo, che di certo non sconfissero i loro nemici combattendo in preda all'ira.
"Mediocritates autem malorum quis laudare recte possit? [...]Nam quod aiunt nimia resecari oportere, naturalia relinqui, quid tandem potest esse naturale, quod idem nimium esse possit? Sunt enim omnia ista ex errorum orta radicibus, quae evellenda et extrahenda penitus, non circumcidenda nec amputanda sunt."
"E poi chi potrebbe lodare giustamente dei mali, anche se modesti?[...] Infatti, quanto a quello che dicono, che bisogna tagliare ciò che è di troppo, lasciare ciò che è conforme a natura, ebbene, che cosa può esservi di conforme a natura che possa essere al tempo stesso di troppo? Infatti, tutte codeste opinionin sono nate dalle radici degli errori e quindi bisogna estirparle e sdradicarle dal profondo, non sfoltirle e tagliarle."
La cura per questi turbamenti consiste innanzitutto nel dimostrare che dalla gioia smodata e dalla libidine non deriva un bene, così come dalla paura e dall'afflizione non deriva un male, e poi nel dimostrare che in ogni caso tutti i moti dell'animo contro la ragione sono viziosi. Non bisogna tanto chiedersi se sia un bene o meno ciò che provoca la libidine, quanto concentrarsi sull'eliminarla in quanto turbamento, a prescindere dalla sua natura.
In conclusione, "et aegritudinis et reliquorum animi morborum una sanatio est, omnis opinabilis esse et voluntarios ea reque suscipi, quod ita rectum esse videatur. Hunc errorem quasi radicem malorum omnium stirpitus philosophia se extracturam pollicetur. Demus igitur nos huic excolendos patiamurque nos sanari. His enim malis insidentibus non modo beati, sed ne sani quidem esse possumus. Aut igitur negemus quicquam ratione confici, cum contra nihil sine ratione recte fieri possit, aut, cum philosophia ex rationum conlatione constet, ab ea, si et boni et beati volumus esse, omnia adiumenta et auxilia petamus bene beateque vivendi."
"Sia per l'afflizione che per le altre malattie dell'anima il rimedio è uno solo: dimostrare che dipendono tutte dall'opinione e dalla volontà e che vengono accolte perché si crede sia giusto così. Questo errore che costituisce per così dire la radice di tutti i mali, la filosofia promette di estirparlo completamente. Affidiamoci dunque alle sue cure e permettiamole di guarirci. Finché infatti tali mali risiedono dentro di noi, non possiamo non dico essere felici, ma neppure sani. In conclusione, o affermiamo che con la ragione non si può raggiungere nessun risultato - quando, in realtà, senza ragione non c'è nulla che possa avvenire correttamente - oppure, visto che la filosofia consiste nell'apporto di principi razionali, chiediamo ad essa, se vogliamo essere onesti e felici, ogni aiuto e sostegno per una vita onesta e felice”
LIBRO V
Stiamo per giungere alla conclusione di queste discussioni, e credo sia doveroso ringraziare la filosofia per i doni che ci ha fatto, perché senza di essa la vita umana sarebbe praticamente nulla.
Per dimostrare che la virtù basta da sola a garantire la felicità seguirò i ragionamenti degli Stoici, che pongono in essa l'unico e sommo bene. Non posso tuttavia trovarmi d'accordo con Bruto, Antioco e Aristo, che ritengono ci siano beni minori che possono rendere l'uomo felice, anche se non felicissimo. Questo è impossibile, perché non si possono considerare beni elementi che dipendono dal caso, e, che una volta sottratti, ci procurerebbero infelicità. Invero non solo gli Stoici credevano che la virtù basta da sola per la felicità, ma già Platone affermava che nulla fuori della virtù si può definire bene.
Io credo che "nisi stabili et fixo et permanente bono beatus esse nemo potest" (nessuno può essere felice se non per un bene certo, stabile e duraturo) e questo non può essere che la virtù sola, poiché se ci fossero beni del corpo o dell'anima o della fortuna, cioè beni che mutano e si estinguono, nel momento in cui avremo paura di perderli non saremo più felici. L'unico modo per esserlo è possedere qualcosa che dipenda esclusivamente dal nostro controllo, ovvero la virtù.
Per quanto vi sia discordanza tra i filosofi sull'identificazione del sommo bene, ciò non toglie che tutti manifestano comportamenti virtuosi. Persino Epicuro per il quale niente è bene se non il piacere conduceva una vita sobria e parsimoniosa, o anche Senocrate rifiutò i cinquanta talenti offertigli dagli ambasciatori di Alessandro.
Potrei aggiungere ancora molti esempi di uomini sapienti che disprezzavano gli onori, il denaro, la popolarità perché nessuna di queste cose poteva modificare la loro felicità.
Nemmeno l'esilio è un male, dato che il disonore non tocca il sapiente, ed egli può essere felice in qualsiasi città. Se poi consideriamo il mio amico Diogene, che era cieco, o Marco Crasso, che fu sordo, nemmeno i dolori fisici impedirono loro di raggiungere la felicità.
Anche se ogni scuola ha opinioni diverse, sicuramente concordano sul fatto che il sapiente può vivere sempre felice.
"Stoicorum quidem facilis conclusio est; qui cum finem bonorum esse senserint congruere naturae cumque ea convenienter vivere, cum id sit in sapientis situm non officio solum, verum etiam potestate, sequatur necesse est ut, cuius in potestate summum bonum, in eiusdem vita beata sit; ita fit semper vita beata sapientis."
"La conclusione degli Stoici è invero facile; avendo essi inteso che il sommo bene consiste nell'essere d'accordo con la natura e vivere in armonia con essa, ed essendo ciò posto non solo nel dovere ma anche nel potere del sapiente, ne consegue necessariamente che la vita felice è nel potere dello stesso nel cui potere è il sommo bene. Così la vita del sapiente è sempre felice."
Si conclusero così questi dialoghi a Tuscolo, spero dunque vivamente di poter giovare agli altri con questa mia opera, così che come me trovino conforto dai dolori e dalle sventure della vita.