Il 18 gennaio del 52 a.C ho scritto un'orazione giudiziaria chiamata "Pro Milone", cercando di chiarire le dinamiche dello scontro avvenuto tra Tito Annio Milone e Publio Pulcro Clodio lungo la via Appia. Milone era in viaggio con la moglie e parecchi schiavi, quando si imbatté in un corteo guidato da Clodio, composto da una trentina di servi armati. Si originó uno scontro violento tra i due schieramenti, in cui Clodio e i suoi ebbero la peggio. Questo fatto segnò la conclusione di un lungo e sanguinoso conflitto, che aveva visto quell'anno Milone candidarsi al consolato e Clodio alla pretura. Quest'ultimo non aveva risparmiato frodi e corruzione per sostenere i competitori di Milone nella corsa al consolato. Milone dal canto suo poteva vantare del mio appoggio, poiché ero sostenitore dei suoi medesimi ideali.
Le opposte passioni politiche precipitarono dunque nella sanguinosa mischia della via Appia in cui Clodio perse la vita per mano di uno dei servi di Milone. Le circostanze della sua morte non sono certe perché ci sono pervenute due versioni: la prima riportata nella mia orazione Pro Milone, l'altra nel commento di Asconio alla stessa, nella quale lascia intendere che Milone fosse da condannare in quanto avesse infierito su Clodio quand'era già ferito. Il contraccolpo per l'uccisione di Clodio fu terribile per la città: si susseguono guerriglie e assedi che portano all'elezione dei due rivali di Milone. La strage della via Appia che di per sé è di poco rilievo, contribuisce all'irrimediabile crisi della repubblica. Pompeo decretò due leggi tese a colpire Milone, accusato della morte di Clodio: la legge de ambitu e la legge de vi.
Questo é l'inizio della mia orazione:
Sed ante quam ad eam orationem venio quae est propria vestrae quaestionis videntur ea mihi esse refutanda quae et in senatu ab inimicis saepe iactata sunt et in contione ab improbis et paulo ante ab accusatoribus, ut omni errore sublato rem plane quae veniat in iudicium videre possitis. Negant intueri lucem esse fas ei qui a se hominem occisum esse fateatur. In qua tandem urbe hoc homines stultissimi disputant? Nempe in ea quae primum iudicium de capite vidit M. Horati, fortissimi viri, qui nondum libera civitate tamen populi Romani comitiis liberatus est, cum sua manu sororem esse interfectam fateretur. An est quisquam qui hoc ignoret, cum de homine occiso quaeratur, aut negari solere omnino esse factum aut recte et iure factum esse defendi? Nisi vero existimatis dementem P. Africanum fuisse qui, cum a C. Carbone tribuno plebis seditiose in contione interrogaretur quid de Ti. Gracchi morte sentiret, responderit iure caesum videri. Neque enim posset aut Ahala ille Servilius aut P. Nasica aut L. Opimius aut C. Marius aut me consule senatus non nefarius haberi, si sceleratos civis interfici nefas esset. Itaque hoc, iudices, non sine causa etiam fictis fabulis doctissimi homines memoriae prodiderunt, eum qui patris ulciscendi causa matrem necavisset variatis hominum sententiis non solum divina sed etiam sapientissimae deae sententia liberatum.
Traduzione:
III. [7] Ma prima di passare alla parte del mio discorso attinente al vostro processo, ritengo di dover confutare quelle voci, che più volte sono state divulgate in senato dagli avversari, nell'assemblea popolare dai disonesti e poco fa dagli accusatori, perché, dissipato ogni motivo d'errore, siate in grado di scorgere in modo chiaro la questione che è sottoposta al vostro giudizio. Sostengono che non è consentito dagli dei, che contempli la luce del sole, chi confessa d'aver ucciso un uomo: ma in quale città degli uomini stoltissimi sostengono un tale principio? Nella città, per l'appunto, che vide come primo processo capitale quello contro Marco Orazio, uomo valorosissimo che, quando ancora Roma non era stata liberata, fu tuttavia assolto dai comizi del popolo romano, benché confessasse di aver ucciso di sua mano la sorella.
[8] Ma forse qualcuno non sa che, quando si celebra un processo di omicidio, si è soliti o affermare che il fatto non è avvenuto o sostenere che è avvenuto con piena legittimità? A meno che non giudichiate insensato Publio Africano, il quale, interrogato in maniera demagogica nell'assemblea popolare dal tribuno della plebe Gaio Carbone su cosa pensasse della morte di Tiberio Gracco, rispose che riteneva pienamente legittima la sua uccisione. Sarebbe impossibile, infatti, non considerare criminale il ben noto Servilio Ahala, né Publio Nasica né Lucio Opimio né Gaio Mario né il senato al tempo del mio consolato, se fosse un delitto uccidere cittadini scellerati. Di conseguenza, giudici, non senza ragione poeti dottissimi anche in opere letterarie hanno immortalato la vicenda di colui che, uccisore della madre per vendicare il padre, di fronte al discorde verdetto dei mortali, fu assolto da un verdetto divino, anzi della più saggia fra le dee.
Concluso l’exordium, piuttosto che passare alla narratio sviluppai una confutatio (parr. 7-23), che conduce all’esposizione di un praeiudicium. Il mio obiettivo era dimostrare che non era vero quanto sostenuto a vario titolo in senato, nelle assemblee popolari e durante il processo che un reo confesso di omicidio per ciò stesso debba essere condannato seduta stante. Così, al fine di stornare dal capo dell’imputato una pericolosa posizione pregiudiziale, ho elaborato una meticolosa e appassionata difesa che potremmo definire di tipo storico-culturale. Il processo ebbe inizio il 4 aprile con interrogatori e deposizioni dei servi di Clodio
Ci furono tumulti e incidenti, e la situazione precipitò quando presi la parola. Il clamore dei clodiani insorse contro di me col proposito di strappare la condanna di Milone. L'orazione si conclude con me che chiedevo misericordia ai giudici e li imploravo a mio nome. Per convincerli ad assolverlo descrissi l'ipotetica reazione dei giudici all'idea che Clodio, potesse tornare in vita e prospetta ai loro occhi la perdita della proprietà privata che avrebbe in tal caso accompagnato il successo di Clodio. Inoltre non è irrilevante ai fini dell'orazione che io mi sia rivolto ai giudici come se tutti fossero appartenuti al rango senatorio, compiacendo, dunque, chi effettivamente non vi apparteneva.
Non ho rivolto a Pompeo dei semplici elogi ma sottolineai che le misure di sicurezza prese da quest'ultimo non avrebbero colpito il suo assisitito. Tuttavia di fronte alle guerriglie insorte e il malumore della folla che richiede l'intervento dell'esercito, ho pronunciato un'orazione claudicante, breve ed inefficace. Il tema principale di quest'orazione è la contrapposizione fra paura e coraggio: la prima è un sentimento che mi colpisce mentre il secondo è quello di Milone (salvatore della patria). In questa orazione dissi alcune frasi che sarebbero successivamete diventate piuttosto celebri, ovvero: "Liberae sunt nostrae cogitationes" (i nostri ragionamenti sono liberi) e "Silent enim leges inter arma" (le leggi sono silenziose in tempo di guerra)