La mia opera si presenta come un dialogo in due libri tra me e il mio fratellino Quinto. Non ho messo la dedica che compare solitamente nelle altre mie opere filosofiche e al posto di essa ho aggiunto un proemio espositivo (I, 1-7).
Il de divinatione è, nello stesso tempo, una delle mie opere più artisticamente vive e filosoficamente intelligenti e una miniera di notizie sulle credenze e sui riti della religione romana e sulle dottrine filosofiche greche riguardanti la possibilità o meno di sapere ciò a cui non giunge la pura conoscenza razionale.
Nel primo libro parla mio fratello in difesa della teoria stoica secondo cui era possibile interpretare i segni premonitori degli dèi per prevedere il futuro. Quinto evita l’esposizione trattatistica dei vari generi di divinazione e si presenta come una libera creazione ricca di esempi. Ricorrono frequenti le citazioni poetiche nonché passi di annalisti latini.
Nel secondo libro ho trattato il mio pensiero che confuta ogni argomento di mio fratello riguardo alle credenze e alle pratiche divinatorie, in una forma più strutturata e “dottrinariamente argomentata”.
L’ho scritto tra il 45 e il 44 a.C. durante il mio soggiorno nella villa di Tuscolo dove mi sono ritirato in seguito alla vittoria di Cesare e alla sconfitta definitiva dei pompeiani, anche se Cesare mi aveva perdonato ho comunque deciso di andare via dalla città.
L’opera, insieme con il de fato, rappresenta un’integrazione al dialogo de natura deorum in cui questi argomenti non erano stati sviluppati in maniera completa dal sottoscritto.
Quello che rimane della mia villa a Tuscolo
LIBRO I
Il libro si apre con l’esposizione dell’argomento: Vetus opinio est iam usque ab heroicis ducta temporibus eaque et populi Romani et omnium gentium firmata consensu, versari quandam inter homines divinationem, quam Graeci μαντικήν appellant, id est praesensionem et scientiam rerum futurarum. (È una vecchia opinione, risalente già fin dai tempi eroici e oltretutto confermata dall'unanimità sia del popolo romano sia di tutte le popolazioni, che esista tra gli uomini una qualche capacità divinatoria, che i Greci chiamano mantica, cioè premonizione e conoscenza delle cose future). Ho riferito la vetus opinio, sostenuta dalla filosofia stoica secondo cui era possibile interpretare i segni premonitori degli dèi per prevedere il futuro.
"segni di àuguri: il volo degli uccelli"
Una delle argomentazioni più forti a favore della divinazione stava nel fatto che tutte le popolazioni vi ricorrevano per conoscere il proprio destino. Ho portato a sostegno della mia tesi numerosi esempi che afferiscono al mondo antico, dagli Assiri ai Cilici ai Greci.
Ho osservato quale importanza abbia avuto, presso il popolo romano, la lettura dei segni di àuguri (volo degli uccelli) e aruspici (viscere degli animali sacrificati). Anche i filosofi, da Socrate a Zenone, dall’Accademia antica ai peripatetici e gli Stoici in particolare, sono intervenuti a favore della divinazione.
(IV, 7)Etenim nobismet ipsis quaerentibus quid sit de divinatione iudicandum […] faciendum videtur ut diligenter etiam atque etiam argumenta cum argumentis comparemus (Lo stesso mi sono chiesto quale giudizio si debba dare sulla divinazione […] mi sembra dunque che la cosa migliore sia mettere a confronto più e più volte, con attenzione). Ho dunque posto il problema e l’ho affrontato in un lungo dialogo con mio fratello Quinto, accanito sostenitore della validità della divinazione sia in ambito pubblico sia in quello privato. Secondo Quinto non si può negare ciò che non si comprende: la natura stessa e la storia propongono all’uomo molti esempi in cui si manifesti vis et natura quaedam significans aliquid, per se ipsa satis certa, cognitioni autem hominum obscurior (un potere difficilmente negabile in quanto tale, anche se non ben comprensibile alla ragione umana). Si può obiettare che un evento sia prodotto dal caso ma, se questo si ripete, bisogna ammettere che esista una volontà superiore sconosciuta, che governa le vicende umane.
"Oracoli, sogni, maghi, favole..."
Oracoli, sogni, maghi, favole antiche su greci e persiani e più recenti su importanti personaggi di Roma, vengono elencati da Quinto fino ad arrivare all’esperienza personale di sogni raccontati tra fratelli e reciprocamente interpretati.
A questo punto mio fratello ripete retoricamente l’obiezione “At multa falsa.” Immo obscura fortasse nobis. (“Ma molti sogni sono falsi.” Piuttosto, forse, sono per noi di difficile comprensione) e dichiara di seguire con convinzione Platone e Socrate contro le polemiche di Carneade ed Epicuro che negano la verità dei sogni: (XXX, 63) Cum ergo est somno sevocatus animus a societate et a contagione corporis, tum meminit praeteritorum, praesentia cernit, futura providet; iacet enim corpus dormientis ut mortui, viget autem et vivit animus. Quod multo magis faciet post mortem, cum omnino corpore excesserit. Itaque adpropinquante morte multo est divinior. (Quando, dunque, nel sonno l'anima è sottratta all'unione col corpo e al contagio che ne deriva, allora si ricorda del passato, scorge il presente, prevede il futuro: ché il corpo del dormiente giace come quello d'un morto, mentre l'anima è desta e viva. E in questa condizione si troverà tanto più dopo la morte, quando sarà del tutto uscita dal corpo. Perciò, all'approssimarsi della morte, è molto più dotata di virtù profetica).
Dunque particolarmente malati e vecchi sono dotati di virtù profetica, di capacità, di prae-sagire ovvero di avere la sensazione di qualcosa prima che accada: (XXI, 65) Sagire enim sentire acute est; ex quo sagae anus, quia multa scire volunt, et sagaces dicti canes. Is igitur qui ante sagit quam oblata res est, dicitur praesagire, id est futura ante sentire. (Sagire, difatti, significa aver buon fiuto; donde si chiamano sagae le vecchie fattucchiere, perché pretendono di saper molto, e "sagaci" son detti i cani. Perciò chi ha la sensazione di qualcosa prima che accada, si dice che "pre-sagisce", ossia sente in anticipo il futuro.)
Questa prima forma di divinazione mediante l’arte, di cui abbiamo a lungo parlato, è definita da Quinto come “artificiale”. La seconda forma, invece, è indicata come “naturale” e produce profezie solo se queste dipendono dall’ispirazione divina e non dalla capacità dei soggetti di interpretare il presente sulla base di preconoscenze (politici, medici, naviganti, contadini).
LIBRO II
(I, 1) Quaerenti mihi multumque et diu cogitanti quanam re possem prodesse quam plurimis, ne quando intermitterem consulere rei publicae, nulla maior occurrebat, quam si optimarum artium vias traderem meis civibus; quod compluribus iam libris me arbitror consecutum. (Mi sono chiesto e ho molto e lungamente riflettuto come avrei potuto giovare alla maggior parte dei miei concittadini, per non essere costretto in nessun caso a smettere di agire a vantaggio dello Stato. La soluzione migliore che mi venne in mente fu di render note ad essi le vie per raggiungere le più elevate attività dello spirito. Credo di aver già ottenuto questo scopo con molti miei libri). Qui ho argomentato questa dichiarazione di intenti facendo un excursus sulle mie opere precedenti.
Continuo poi dichiarando le finalità che mi ero proposto nella generalità delle mie opere ovvero di educare i giovani, di informare tutti i cittadini che si accostano alla lettura.
La mia produzione specificamente filosofica appartiene agli ultimi anni della mia vita come risorsa estrema a fronte della mia esclusione dalla lotta politica a conseguenza della guerra civile e della presa del potere da parte di Cesare. E’ un modo per continuare a far sentire la mia voce.
(II, 7) In libris enim sententiam dicebamus, contionabamur, philosophiam nobis pro rei publicae procuratione substitutam putabamus. (Nei miei libri facevo le mie dichiarazioni di voto, pronunciavo i miei pubblici discorsi, consideravo la filosofia come un sostituto di quella che per me era stata l'amministrazione dello Stato).
giardini della villa di Tuscolo
Io e mio fratello, dopo la lunga passeggiata nei giardini della villa di Tuscolo, ci sediamo nella biblioteca del Liceo e io mi accinga a controbattere alla veemente difesa di Quinto.
(III, 8) Atque ego: "Adcurate tu quidem", inquam, "Quinte, et stoice Stoicorum sententiam defendisti, quodque me maxime delectat, plurimis nostris exemplis usus es, et iis quidem claris et inlustribus. Dicendum est mihi igitur ad ea quae sunt a te dicta, sed ita nihil ut adfirmem, quaeram omnia, dubitans plerumque et mihi ipse diffidens. Si enim aliquid certi haberem quod dicerem, ego ipse divinarem, qui esse divinationem nego. (E io dissi: "Con impegno, Quinto, e da vero stoico hai difeso la dottrina degli stoici; e, con mio grandissimo piacere, ti sei servito di moltissimi esempi tratti da cose romane: esempi famosi e gloriosi. Io devo dunque rispondere alle cose che hai detto; ma in modo da non affermare nulla dogmaticamente, da porre sempre dei problemi, esponendo per lo più dei dubbi e diffidando di me stesso. Se, infatti, avessi da dire qualcosa di sicuro, anch'io, che nego l'esistenza della divinazione, mi comporterei come un indovino!)
Le fonti filosofiche di questo II libro fanno per lo più riferimento alle argomentazioni anti-divinatorie di Carneade (214 – 229 a.C.). Ma questi non ha lasciato nulla di scritto e io stesso né conosco il pensiero attraverso le opere di Clitomaco di Cartagine (187 – 110 a.C.) né mi rifaccio ad altri neoaccademici più recenti. Al contrario Quinto fa riferimento a filosofi storici più recenti come Apollonio (135 – 150 a.C.).
Tra i due libri del de divinatione, quindi, si produce una sfasatura temporale: la difesa della divinazione è più aggiornata della polemica contro la divinazione.
La divinazione non si può applicare a ciò che si percepisce con i sensi, né alle questioni filosofiche, né alla politica: non ha nessun campo di competenza, quindi non esiste.
Già Quinto aveva sottolineato la differenza tra indovini ed esperti, ora ribalto il ragionamento per concludere che (V, 14) “Talium ergo rerum, quae in fortuna positae sunt, praesensio divinatio est.” (La divinazione è dunque il presentimento di eventi di questo genere, dipendenti solamente dalla sorte.)
Mi pongo dunque il problema dell’essenza del caso: se la divinità lo conosce (e lo suggerisce all’indovino) non si tratta più di caso ma di evento predeterminato, ineluttabile, non modificabile da nessuno. Dal che si evince l’inutilità della divinazione, non solo di inutilità ma anche di danno si potrebbe parlare se, tramite essa, ogni uomo fosse a conoscenza fin dall’infanzia del proprio destino e da questa conoscenza fosse negativamente condizionato.
A questo punto ho inserito una riflessione che contraddice il percorso del mio stesso ragionamento:
(XII; 28) Ut ordiar ab haruspicina, quam ego rei publicae causa communisque religionis colendam censeo - sed soli sumus; licet verum exquirere […] (Incominciamo dall'aruspicìna, che io ritengo si debba osservare per il bene dello Stato e della religione professata da tutti ma qui siamo soli, e possiamo ricercare la verità).
Dunque se l’auruspicina è risibile sul piano teorico, assume però valore per la sua funzione sociale e politica. Mi sono appellato poi agli antichi popoli, a Democrito, alle scienze naturali per demolire e irridere gli esempi riferiti da Quinto e, di conseguenza, ricollegabili al pensiero di Posidonio e Crisippo.
Ho ripreso punto per punto le proposizioni di mio fratello e le ho capovolte, riferendo altrettanti esempi uguali ma contrari nell’esito, ho smontato gli auspici e la scienza degli àuguri. Attenzione particolare ho riservato ai Caldei e alle loro “produzioni natalizie”.
(XLII, 89) Etenim cum tempore anni tempestatumque caeli conversiones commutationesque tantae fiant accessu stellarum et recessu, cumque ea vi solis efficiantur quae videmus, non veri simile solum, sed etiam verum esse censent, perinde utcumque temperatus sit aÎr, ita pueros orientis animari atque formari, ex eoque ingenia, mores, animum, corpus, actionem vitae, casus cuiusque eventusque fingi. (Inoltre, poiché nel corso di un anno e delle varie stagioni avvengono così notevoli rivolgimenti e mutamenti del cielo per l'avvicinarsi e l'allontanarsi delle stelle, e poiché questi fenomeni che vediamo sono causati dall'influsso del sole, gli astrologi ritengono non solo verosimile, ma vero, che, a seconda della composizione dell'aria, i bambini che nascono siano animati e conformati in un certo modo, e che da essa risultino plasmati i caratteri, le qualità morali, l'anima, il corpo, lo svolgersi della vita, i casi e gli eventi di ciascuno.)
Molto interessanti le argomentazioni che portano a confutarne la validità in toto. Quinto mi ha ascoltato con attenzione e si dice d’accordo con me riguardo alla dottrina stoica sulla divinazione, ma (XLVIII, 100) haec me Peripateticorum ratio magis movebat, et veteris Dicaearchi et eius, qui nunc floret, Cratippi, qui censent esse in mentibus hominum tamquam oraclum aliquod, ex quo futura praesentiant, si aut furore divino incitatus animus aut somno relaxatus solute moveatur ac libere. (Mi seduceva di più quest'altra teoria, quella dei peripatetici: del vecchio Dicearco e di Cratippo che attualmente è nel pieno fiore della sua fama. Essi ritengono che vi sia nelle menti degli uomini una sorta di oracolo che faccia presentire il futuro, quando l'anima o è esaltata da una divina follia o, rilassatasi nel sonno, può muoversi liberamente e senza vincoli corporei.)
Stelle, astrologia, aria...
Ho poi ripreso il discorso già affrontato sull’esistenza egli dei, sulla loro preconoscenza degli eventi, sulla funzione del caso, sul ruolo degli oracoli e dei sogni.
(LXIII, 129) Venit enim iam in contentionem, utrum sit probabilius, deosne inmortalis, rerum omnium praestantia excellentis, concursare omnium mortalium, qui ubique sunt, non modo lectos, verum etiam grabatos, et, cum stertentem aliquem viderint, obicere iis visa quaedam tortuosa et obscura, quae illi exterriti somno ad coniectorem mane deferant, an natura fieri ut mobiliter animus agitatus, quod vigilans viderit, dormiens videre videatur. Utrum philosophia dignius, sagarum superstitione ista interpretari an explicatione naturae? (È venuto ormai il momento di discutere quale di queste alternative sia più probabile: che gli dèi immortali, superiori a qualsiasi altro essere, scorrazzino e vadano a visitare non solo i letti ma anche i miseri giacigli di tutti i mortali, dovunque essi si trovino, e, ogni qual volta vedono uno che russa, gli ispirino delle visioni confuse e oscure, che quel tale, svegliatosi in preda al terrore, la mattina dopo riferisca all'interprete, oppure che per un fenomeno naturale l'anima, continuamente mossa, abbia l'impressione di vedere mentre dorme ciò che ha visto da sveglia. Che cosa si addice di più alla filosofia, interpretare questi fatti ricorrendo alla superstizione delle fattucchiere o alla spiegazione secondo la natura?).
Pur ammettendo che i sogni fossero reali messaggi degli dei, non esiste uomo in grado di decodificarli, quindi non può essere attribuito loro nessun valore.
Tuttavia con la negazione della divinazione non si nega la religione, fondamento del mos maiorum che sta profondamente a cuore a me che sono conservatore.
La peroratio finale l’ho rivolta contro i filosofi.
Gli stoici non sono nominati, ma ancora una volta è particolarmente efficace l’accusa rivolta ad essi, <<specialisti di logica>> (in primis acuti ecc.), di aver preso sotto la loro tutela la credulità nei sogni e, s’intende, nella divinazione in generale. Senza questo accreditamento da parte dei filosofi più ammirati e seguiti sarebbe molto più facile dissolvere la superstizione. Mi sono presentato come rivendicatore delle ragioni di Carneade, in un tempo in cui l’Accademia nuova era ormai ben poco seguita (o, con Antioco d’Ascalona, era ritornata al dogmatismo). Conforme allo spirito di Carneade è la dichiarazione finale di <<probabilismo>>, che tuttavia non menoma la forza della polemica anti-divinatoria.