Quando mi ritrovai a passeggiare tra le vaste tenute della Sicilia, riscontrai un certo malcontento tra i suoi abitanti. Decisi di impegnarmi a capire la causa di tutto quello sgomento e chiesi qua e là delle informazioni. Tutti mi dicevano che la motivazione dei loro mali era quel Verre, il loro governatore. Subito decisi di prendere le loro parti e decisi di portare quel disonesto in tribunale. Per affrontarlo composi le Verrine, sette orazioni, risalenti al 70 a.C., nelle quali ho accusato Verre de repetundis (concussione).
Ho fatto in modo che il processo si tenesse prima dell' interruzione estiva per far sì che Verre perdesse già il primo vantaggio : quello di essere giudicato da giudici amici. Molti si sono recati nel foro per ascoltarmi, infatti, quel processo è stato un autentico punto di non ritorno nella vita della res publica. Esso è stato un' occasione imperdibile per la riaffermazione di una legalità ormai sempre più disattesa. Grazie alle Verrinae sono riuscito anche a sopraffare Ortensio e la conseguenza di ciò è stata la mia consacrazione come oratore di primo piano e anche il trionfo di un nuovo stile, dominato da mezzi espressivi e caratterizzato da un armonioso periodare.
Ho iniziato a scaldare il terreno con la divinatio in Caecilium, nella quale ho chiesto ad ogni costo il diritto di sostenere l'accusa per conto dei Siciliani, a discapito di un certo Cecilio, il quale era intenzionato a favorire Verre. Non nascondo che ho voluto fortemente portare avanti quest'accusa anche per far politica del mio partito, giustificandomi con l'intento di preservare il bene dello stato, e anche per promuovere la mia figura nello scenario politico di quegli anni.
Poi ho pronunciato l'actio prima in Verrem che è la recquisitoria che tenni nel primo dibattito giudiziario, dopo il quale Verre partì già in esilio. Qui un breve assaggio di come ho sottolineato che il momento era particolarmente critico per la reputazione dell’ aristocrazia romana, ma ho aggiunto anche che proprio la condanna di Verre avrebbe portato una ricaduta positiva sull’ immagine del Senato :
Quod erat optandum maxime, iudices, et quod unum ad invidiam vestri ordinis infamiamque iudiciorum sedandam maxime pertinebat, id non humano consilio, sed prope divinitus datum atque oblatum vobis summo rei publicae tempore videtur. Inveteravit enim iam opinio perniciosa rei publicae, vobisque periculosa, quae non modo apud populum Romanum, sed etiam apud exteras nationes, omnium sermone percrebruit: his iudiciis quae nunc sunt, pecuniosum hominem, quamvis sit nocens, neminem posse damnari. Nunc, in ipso discrimine ordinis iudiciorumque vestrorum, cum sint parati qui contionibus et legibus hanc invidiam senatus inflammare conentur, [reus] in iudicium adductus est [C. Verres], homo vita atque factis omnium iam opinione damnatus, pecuniae magnitudine sua spe et praedicatione absolutus. Huic ego causae, iudices, cum summa voluntate et expectatione populi Romani, actor accessi, non ut augerem invidiam ordinis, sed ut infamiae communi succurrerem = sembra che l’occasione che soprattutto si doveva scegliere, o giudici, e che sola era utile a placare l’ostilità del vostro ordine e il discredito dei giudici, non fosse data da una decisione umana, ma quasi da una volontà divina, e fosse stata offerta a voi nel più critico momento della repubblica. Infatti ormai questa opinione dannosa per la repubblica pericolosa per voi, che va spargendosi non solo presso il popolo romano, ma anche presso le nazioni estere mediante il vociare di tutti, si è radicata: che in questi processi che ora vi sono, nessun uomo provvisto di denaro, sebbene sia dannoso (per lo stato), possa essere condannato. Ora, nella crisi stessa dell’ordine e dei vostri giudici, essendo preparati coloro che tentano di infiammare questa ostilità del senato mediante assemblee e proposte di legge, fu addotto in giudizio l’imputato Caio Verre, uomo già condannato dalla vita e dalle azioni secondo l’opinione di tutti, assolto secondo la (sua) speranza e il (suo) parlare per la sua grande quantità di denaro. Io, giudici, mi sono presentato come actor [pubblico ministero] di questa causa, con grandissimo volere e aspettativa del popolo romano, non per accrescere l’ostilità dell’ordine (senatorio), ma per venire in aiuto al discredito comune (I,1-3).
Ho concluso poi con l'actio secunda in Verrem, la quale comprende cinque orazioni che non pronunciai mai. I titoli delle cinque orazioni sono: De praetura urbana, De praetura Siciliensi, De frumento, De signis, la quale è considerata la più celebre tra esse, e infine la De suppliciis. Questa actio era in favore della riforma giudiziaria compiuta in quei mesi da Cotta, importante esponente della gens aurelia, ed è un resoconto dei misfatti di Verre. Infatti gli argomenti precisi di queste orazioni sono i misfatti di Verre prima che diventasse governatore in Sicilia, le numerose empietà che commise in Sicilia, le illegalità commesse nell' esazione e nella recquisizione delle granaglie, i furti di opere d'arte di cui Verre era uno sfrenato appassionato e le ingiustizie che riservava a persone innocenti. Trattando delle sottrazioni illegali di opere d'arte, compiute da quel poco di buono, ho voluto anche rivelare a tutti la mia grande passione e competenza in campo artistico. Di questi furti è sicuramente degno di nota quello relativo alla statua di Cerere, sottratta da un santuario vicino ad Enna. Per parlare del mio attacco a Verre, voglio riportare alcune delle mie parole che riassumono tutto ciò di cui ho appena trattato:
Venio nunc ad istius, quem ad modum ipse appellat, studium, ut amici eius, morbum et insaniam, ut Siculi, latrocinium; ego quo nomine appellem nescio; rem vobis proponam, vos eam suo non nominis pondere penditote. Genus ipsum prius cognoscite, iudices; deinde fortasse non magno opere quaeretis quo id nomine appellandum putetis. Nego in Sicilia tota, tam locupleti, tam vetere provincia, tot oppidis, tot familiis tam copiosis, ullum argenteum vas, ullum Corinthium aut Deliacum fuisse, ullam gemmam aut margaritam, quicquam ex auro aut ebore factum, signum ullum aeneum, marmoreum, eburneum, nego ullam picturam neque in tabula neque in textili quin conquisierit, inspexerit, quod placitum sit abstulerit. Magnum videor dicere: attendite etiam quem ad modum dicam. Non enim verbi neque criminis augendi causa complector omnia: cum dico nihil istum eius modi rerum in tota provincia reliquisse, Latine me scitote, non accusatorie loqui = Vengo ora alla passione di costui, come egli stesso la chiama, alla morbosa mania come la chiamano i suoi amici, al ladrocinio come la chiamano i Siculi. Non so con quale nome chiamarla. Vi esporrò il fatto: voi valutatelo non con il peso del nome (non in base al nome). Cercate di capire innanzitutto lo stesso genere, giudici, poi forse non cercherete con grande impegno con quale nome ritenete che ciò debba essere chiamato. Io dico che in tutta la Sicilia, provincia tanto ricca e antica, con tante città, e tante famiglie tanto ricche, non c’è stato nessun vaso d’argento, alcuno corinzio o delio, nessuna gemma o perla, nessuna cosa fatta di oro o di avorio, nessuna statua di bronzo, di marmo, di avorio, dico di nuovo (non c’è stato) alcun dipinto né su quadro né su tessuto che abbia esaminato, indagato e che non abbia portato via se gli fosse piaciuto. Sembra che io esageri: prestate attenzione anche a come lo dico. Infatti non abbraccio tutte le cose per accrescere il discorso né il crimine. Quando dico che costui in tutta la provincia non ha lasciato nulla di questo tipo, sappiate che io parlo Latino e non in modo accusatorio (II,4,1-2). Tengo particolarmente anche a quest'altre parole nelle quali parlo di come gli antichi generali si comportavano bene: haec ego,iudices,non auderem proferre, ni verer ne forte plura de isto ab aliis in sermone quam a me in iudicio vos audisse diceretis. Quis enim est qui de hac officina, qui de vasis aureis, qui de istius pallio non audierit? Quem voles e conventu Syracusano virum bonum nominato; producam; nemo erit quin hoc se audisse aut vidisse dicat. O tempora, o mores! Nihil nimium vetus proferam. Sunt vestrum aliquam multi qui L. Pisonem cognorint, huius L.Pisonis, qui praetor fuit, patrem. Ei cum esset in Hispaniapraetor, qua in provincia occisus est, nescio quo pacto, dum armis exercetur, anulus aureus quem habebat fractus et comminutus est. Cum vellet sibi anulum facere, aurificem iussit vocari in forum ad sellam Cordubae et palam appendit aurum; hominem in foro iubet sellam ponere et facere anulum omnibus praesentibus. Nimium fortasse dicet aliquis hunc diligentem; hactenus reprehendet, si qui volet, nihil amplius. Verum fuit ei concedendum; filius enim L. Pisonis erat, eius qui primus de pecuniis repetundis legem tulit = io , giudici, non oserei dirvi questo se non temessi che mi potreste dire che in privato avete sentito raccontare molto più di quello che avete ascoltato da me in questo giudizio. Infatti chi non ha sentito parlare di questa bottega, dei vasi d'oro, del mantello e della tunica bruna? Nomina, Verre, qualunque uomo dabbene, quello che tu vuoi, dei Siracusani : io lo produrrò . Non vi sarà nessuno che dica di non avere visto o sentito parlare di queste cose. O tempi, O costumi! Io non voglio addurre nessun esempio troppo antico. Molti di voi, giudici, hanno conosciuto Lucio Pisone, padre di questo Lucio che fu pretore. Costui, essendo pretore in Spagna, provincia in cui fu ucciso, ed esercitandosi un giorno nelle armi, non so in che modo, l' anello che egli portava al dito , gli si ruppe e andò in pezzi. Volendo farsi rifare questo anello, sedendo nel tribunale, fece venire nel suo palazzo in Cordova un orefice e , presente ognuno, gli consegnò l'oro e gli impose che facesse l'anello alla presenza di tutti. Qualcuno forse dirà che costui portò il suo scrupolo all' eccesso. Ma lo riprenda di ciò chi vuole : egli altro non fece . Questo a lui si doveva concedere: infatti era figlio di quel Pisone che fece la legge contro la concussione. (II,4,55-56).
Ho anche parlato di figure femminili realmente esistite con lo scopo di condannare Verre anche dal punto di vista morale. Nel corso delle orazioni ho spesso attribuito all' amante di turno di Verre l' appellativo denigratorio di meretrice (meretrix) sia per squalificare l'azione della donna presa in considerazione ,che sembrava prendere il posto di Verre in ambito decisionale durante la pretura, sia per sottolineare la tendenza ai vizi del mio avversario. Infine ci tengo solo più a dire che nella peroratio finale ho contrapposto la mia impeccabile virtus ai suoi vizi disonesti.