Nel 55, quando ormai avevo raggiunto i cinquant'anni e i miei successi in quanto oratore si trovavano ormai alle mie spalle, scrissi il "De oratore" che, insieme al "Brutus" e all' "Orator" fa parte della mia trilogia retorica.
In quest'opera ho voluto simulare un dialogo tra me, Crasso e Marco Antonio, ambientato nella bellissima villa tusculana del nobile Crasso, per potervi parlare di come dovrebbe essere un valido oratore e quali sono le parti fondamentali di un'orazione. Ho voluto dedicare quest'opera al mio amato fratello, Quinto.
Per aiutarvi a comprendere al meglio il mio pensiero, ho deciso di riportarvi l'introduzione di questa mia opera per me così importante, che dedicai al mio amato fratello Quinto.
In questo primo passo mi rivolgo direttamente a lui, rimpiangendo gli anni passati in cui, per motivi personali e politici, dedicai poco tempo allo studio tanto amato sia da me sia dal mio caro fratello.
Cogitanti mihi saepe numero et memoria vetera repetenti perbeati fuisse, Quinte frater, illi videri solent, qui in optima re publica, cum et honoribus et rerum gestarum gloria florerent, eum vitae cursum tenere potuerunt, ut vel in negotio sine periculo vel in otio cum dignitate esse possent; ac fuit cum mihi quoque initium requiescendi atque animum ad utriusque nostrum praeclara studia referendi fore iustum et prope ab omnibus concessum arbitrarer, si infinitus forensium rerum labor et ambitionis occupatio decursu honorum, etiam aetatis flexu constitisset. Quam spem cogitationum et consiliorum meorum cum graves communium temporum tum varii nostri casus fefellerunt; nam qui locus quietis et tranquillitatis plenissimus fore videbatur, in eo maximae moles molestiarum et turbulentissimae tempestates exstiterunt; neque vero nobis cupientibus atque exoptantibus fructus oti datus est ad eas artis, quibus a pueris dediti fuimus, celebrandas inter nosque recolendas. Nam prima aetate incidimus in ipsam perturbationem disciplinae veteris, et consulatu devenimus in medium rerum omnium certamen atque discrimen, et hoc tempus omne post consulatum obiecimus eis fluctibus, qui per nos a communi peste depulsi in nosmet ipsos redundarent. Sed tamen in his vel asperitatibus rerum vel angustiis temporis obsequar studiis nostris et quantum mihi vel fraus inimicorum vel causae amicorum vel res publica tribuet oti, ad scribendum potissimum conferam.
"Quando, frequentemente, rifletto e richiamo con la memoria i tempi andati, Quinto fratello mio, di solito mi sembra che siano stati felici e molto fortunati quegli uomini che, nell'età più fiorente della repubblica, insigni per le cariche rivestite e per la gloria delle loro imprese, riuscirono a condurre il corso della loro esistenza in modo tale da poter partecipare alla vita pubblica senza pericoli e godersi poi con dignità la quiete della vita privata. E ci fu un tempo in cui pensavo che anche a me sarebbe stato, per così dire, concesso da tutti il diritto di cominciare a riposarmi e di volgere l'animo ai nobili studi cari a entrambi noi, una volta che, chiusa la carriera politica e giunto alla soglia della vecchiaia, fossero venute meno le infinite fatiche del foro e le preoccupazioni elettorali. Ma da una parte le tristi condizioni dello stato e dall'altra diverse vicende personali resero vani le speranze e i progetti che nutrivo. Infatti, proprio nel periodo che sembrava dovesse essere il più ricco di pace e di tranquillità, sorsero le più numerose e le più gravi difficoltà e le più violente tempeste e, benché lo desiderassi con tutto il cuore, non mi fu dato il vantaggio del tempo libero per praticare quelle discipline cui fui avviato fin da bambino e per riprenderle assieme a te. Infatti, da giovane mi vidi coinvolto proprio nello sconvolgimento dell'antica costituzione e da console fui trascinato in una lotta decisiva per l'esistenza dello stato, e tutti questi anni successivi al consolato li ho impiegati per oppormi a quei flutti, la cui incombente minaccia fu grazie a me stornata dalla comunità e che su di me dovevano finire per rovesciarsi. Nondimeno, pur in queste condizioni avverse e nonostante il poco tempo a disposizione, mi dedicherò agli studi che ci stanno a cuore, e tutto il tempo libero che mi concederanno l'ostilità degli avversari, gli interessi degli amici e la politica, lo dedicherò soprattutto allo scrivere."
(I, 1-4)
Mi è sembrato di fondamentale importanza fare un'analisi dell'eloquenza dal punto di vista storico; infatti questa è nata in Grecia e si è diffusa fino ad arrivare alla nostra tanto cara Roma. Facendo un confronto con altre arti sono giunto alla conclusione che il numero di poeti validi è sempre più alto di quello degli oratori, questo proprio per via della difficoltà nel maneggiare prontamente l'eloquenza.
Neque enim te fugit omnium laudatarum artium procreatricem quandam et quasi parentem eam, quam philosophian Graeci vocant, ab hominibus doctissimis iudicari; in qua difficile est enumerare quot viri quanta scientia quantaque in suis studiis varietate et copia fuerint, qui non una aliqua in re separatim elaborarint, sed omnia, quaecumque possent, vel scientiae pervestigatione vel disserendi ratione comprehenderint. Quis ignorat, ei, qui mathematici vocantur, quanta in obscuritate rerum et quam recondita in arte et multiplici subtilique versentur? Quo tamen in genere ita multi perfecti homines exstiterunt, ut nemo fere studuisse ei scientiae vehementius videatur, quin quod voluerit consecutus sit. Quis musicis, quis huic studio litterarum, quod profitentur ei, qui grammatici vocantur, penitus se dedit, quin omnem illarum artium paene infinitam vim et materiem scientia et cognitione comprehenderit? Vere mihi hoc videor esse dicturus, ex omnibus eis, qui in harum artium liberalissimis studiis sint doctrinisque versati, minimam copiam poetarum et oratorum egregiorum exstitisse: atque in hoc ipso numero, in quo perraro exoritur aliquis excellens, si diligenter et ex nostrorum et ex Graecorum copia comparare voles, multo tamen pauciores oratores quam poetae boni reperientur.
"Come sai bene, secondo il giudizio delle persone colte, la procreatrice delle arti liberali e, in un certo senso, loro madre è da sempre considerata la scienza che i Greci chiamano filosofia. È quasi impossibile rendersi conto di quanti vi si dedicarono, e di quanto profonda sia stata la loro cultura e di quanto disparati e vasti i loro interessi, capaci come furono di occuparsi non in modo specialistico di un singolo ramo del sapere ma di abbracciare ogni settore della conoscenza, qualunque fosse loro possibile, con l'indagine scientifica o per via dialettica e logica. E chi ignora l'oscurità dei problemi di cui si occuparono i cosiddetti matematici e le difficoltà della loro disciplina astrusa, complessa e rigorosa? Tuttavia, anche fra i cultori di questa disciplina, ve ne furono così tanti valenti da dare l'impressione che quasi tutti quelli che si sono dedicati a questa scienza con zelo e passione abbiano raggiunto l'obiettivo che si erano prefissi. E chi si è mai dedicato a fondo alla musica, oppure a quel genere di studi letterari professato dai cosiddetti grammatici, senza raggiungere una piena conoscenza e padronanza del quasi illimitato complesso di soggetti abbracciati da quelle discipline? Credo, invero, di poter affermare che, fra tutti quelli che si sono rivolti allo studio delle arti e delle discipline liberali, i meni numerosi sono i poeti di grande valore. E anche in questo piccolo numero, nel quale, per quanto assai di rado, emerge qualcuno eccellente, mettendo a confronto con cura il numero dei poeti e degli oratori nostri e greci, si può nondimeno constatare che il numero dei valenti poeti è sempre maggiore di quello dei valenti oratori."
(I, 9-11)
Per aprire il dialogo ho scelto di affidare la parola a Crasso, il quale fa un vero e proprio encomio dell'eloquenza, definendola come il motore della civiltà. Questa posizione non viene del tutto confutata dal vecchio giurista Scevola, che fa un elogio della sapienza a dispetto dell'eloquenza, citando la mancanza di abilità oratoria negli eroi fondatori dello stato romano e della sua costituzione (questa tesi verrà confutata poi nel Brutus). A questo punto prende nuovamente la parola Crasso e dimostra le abilità dell'anziano giurista a piegare ai suoi fini gli argomenti, allora interviene Antonio affermando che in realtà queste nozioni sono inutili nelle piazze e nei tribunali e patteggia per l'idea di un oratore più istintivo e che si basa sulle proprie doti naturali. Non ho potuto evitare di inserire una parte in cui Crasso si soffermi su caratteristiche fondamentali per un buon oratore: intelligenza acuta, predisposizione naturale, memoria e passione per l'eloquenza.
Ed è proprio a Crasso che ho affidato l'importante ruolo di spiegare le cosiddette "cinque regole dell'eloquenza". Sono fondamentali quindi segnatele!
Queste cinque regole sono: inventio, guida alla ricerca degli argomenti che servono alla dimostrazione oratoria; dispositio, ordinamento della materia dell'inventio della struttura del discorso suddivisa in exordium (esordio), narratio (narrazione dei fatti), demonstratio (dimostrazione della propria tesi e confutazione di quella avversaria) e peroratio (parte conclusiva del discorso in cui vengono riassunti i temi principali e si cerca di suscitare le emozioni dell'uditorio). Per prima cosa egli deve reperire gli argomenti, quindi organizzarli e disporli non solo secondo criteri di ordine logico, ma anche in base a criteri di importanza e di opportunità; poi rivestirli con gli ornamenti dello stile, fissarli nella memoria, e infine pronunciare il suo discorso con dignità e grazia.
Cumque esset omnis oratoris vis ac facultas in quinque partis distributa, ut deberet reperire primum quid diceret, deinde inventa non solum ordine, sed etiam momento quodam atque iudicio dispensare atque componere; tum ea denique vestire atque ornare oratione; post memoria saepire; ad extremum agere cum dignitate ac venustate. Etiam illa cognoram et acceperam, ante quam de re diceremus, initio conciliandos eorum esse animos, qui audirent; deinde rem demonstrandam; postea controversiam constituendam; tum id, quod nos intenderemus, confirmandum; post, quae contra dicerentur, refellenda; extrema autem oratione ea, quae pro nobis essent, amplificanda et augenda, quaeque essent pro adversariis, infirmanda atque frangenda. [...] Quin etiam, quae maxime propria essent naturae, tamen his ipsis artem adhiberi videram; nam de actione et de memoria quaedam brevia, sed magna cum exercitatione praecepta gustaram.
"E dopo aver imparato che tutta l'energia e l'abilità dell'oratore si applicano a cinque punti (per prima cosa egli deve reperire gli argomenti, quindi organizzarli e disporli non solo secondo criteri di ordine logico, ma anche in base a criteri di importanza e di opportunità; poi rivestirli con gli ornamenti dello stile, fissarli nella memoria, e infine pronunciare il suo discorso con dignità e grazia), seppi e appresi anche che, prima di affrontare l'argomento, bisogna guadagnarsi il favore degli ascoltatori; poi esporre l'argomento; dopo stabilire il motivo di controversia; a questo punto addurre prove a conferma della propria tesi; quindi ribattere le argomentazioni degli avversari; alla fine del discorso sviluppare ed enfatizzare i punti a nostro favore e destituire di solidità e fondamento gli elementi a favore della parte avversa. [...] Ho avuto modo di constatare che perfino a quelle doti che più dipendono da una disposizione naturale si applicano le regole dell'arte della retorica; ho potuto infatti apprezzare riguardo all'actio e alla memoria, l'utilità di precetti bensì sbrigativi ma che richiedono un grande esercizio."
(I,142-143-145)
Il libro secondo inizia con una discussione che avviene nel corso di una passeggiata sotto il portico della meravigliosa villa tusculana di Crasso. Ho voluto mettere come personaggio principale di questo libro Antonio, che ho deciso di presentarvi in un modo particolare, costui sta volta infatti non è più animato dallo spirito polemico che lo caratterizza, ma vuole presentarsi nel migliore dei modi ed esporre le sue convinzioni più genuinamente possibile ai due nuovi arrivati nella compagnia, Lutazio Catulo e Cesare Strabone, uomini dalla grande autorità. Antonio decide di trattare l'elocutio, l'inventio e la memoria, parti che lui per primo ritiene fondamentali, difende poi l'importanza della pratica nel foro e l'imitazione dei modelli. Se leggete questa seconda parte con attenzione è chiaro l'accordo tra Antonio e Crasso sia per quanto riguarda l'elogio dell'eloquenza, infatti il discorso del giovane sembra ricalcare quello pronunciato da Crasso, sia per quanto riguarda lo statuto gnoseologico dell'arte dell'oratore. Ho voluto attribuire ad Antonio un atteggiamento di stampo pragmatico, attento agli aspetti riguardanti la persuasione dell'eloquenza stessa. Entrambi però concordano sul fatto che la retorica non possa essere definita come una vera e propria ars ma piuttosto come una quasi-ars. In seguito si concentra su una lunga digressione sulla storiografia che ha come obbiettivo riportare il lettore ai filoni principali della sua argomentazione. Man mano che si avanza nella lettura si può facilmente notare la vasta cultura del giovane, che però rimane umile e non si vanta mai delle sue conoscenze. Mi è sembrato d'obbligo, nel momento in cui componevo l'opera, inserire una parte sull'ethos e sul pathos; infatti personalmente ritengo che l'uditorio debba essere placato dall'ethos e allo stesso tempo travolto dal pathos. Alla diversità delle passioni coinvolte da ethos e pathos corrispondono la diversità dei registri stilistici: al primo s'addice lo stile medio e piano, mentre al secondo il tono solenne e grandioso. Vi faccio notare il fatto che Antonio fa riferimento esclusivamente all'oratoria giudiziaria, questo perché essa nella sua concezione costituisce il modello di tutte le altre forme di eloquenza.
In questo passo di fondamentale importanza, Antonio parla di quello che, per lui, dovrebbe essere il compito dell'oratore: egli infatti sostiene che l'oratore abbia un ruolo fondamentale ossia esprimere con autorevolezza il proprio pensiero. Egli può portare alla rovina i colpevoli e salvare gli innocenti esercitando la propria capacità nell'arte dell'eloquenza che è indipendente da ogni altra.
Huius est in dando consilio de maximis rebus cum dignitate explicata sententia; eiusdem et languentis populi incitatio et effrenati moderatio eadem facultate et fraus hominum ad perniciem et integritas ad salutem vocatur. Quis cohortari ad virtutem ardentius, quis a vitiis acrius revocare, quis vituperare improbos asperius, quis laudare bonos ornatius, quis cupiditatem vehementius frangere accusando potest? Quis maerorem levare mitius consolando? Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis, qua voce alia nisi oratoris immortalitati commendatur?
“Compito dell'oratore è esprimere con autorevolezza il suo pensiero nel dare consigli su questioni importantissime, e, ancora, incitare il popolo inerte e moderarlo se è scatenato; sempre la sua eloquenza porta alla rovina gli scellerati e salva gli innocenti. Chi può incitare in modo più appassionato alla virtù, chi distogliere con più energia dai vizi, chi biasimare i malvagi con più asprezza, chi tessere lodi più belle degli onesti, chi reprimere con più vigore le passioni con le sue accuse? Chi può alleviare il dolore consolando con più dolcezza? Quale altra voce, se non quella dell'oratore, può consegnare all'immortalità la storia, testimone dei tempi, luce di verità, vita della memoria, maestra di vita, rivelazione del passato?"
(II, 35)
Nel terzo libro Crasso risponde nuovamente a ciò che è stato detto da Antonio, e afferma che un buon oratore deve avere, sì, tutte quelle caratteristiche ma a queste vanno associate l'elocutio (lo stile) e l'actio (il linguaggio, la dizione e il tono della voce adatto). Egli tuttavia, prima di rispondere, parla dell'eloquenza e sostiene che essa "costituisce una realtà unitaria, dove la forma è inseparabile dal contenuto" (III, 19). Costui procede giudicando duramente l'esagerato tecnicismo di alcuni retori, infatti secondo lui non dovrebbero concentrarsi sugli aspetti formali nei lor componimenti, ma tenere a mente il ruolo che svolgono: devono reggere e guidare lo Stato (mi è sembrato importante evidenziare l'insistenza da parte di Crasso sulle basi di un oratore perché, in caso contrario, rappresenterebbe per tutti un pericolo enorme). Ponete l'attenzione su quello che è il punto fondamentale dell'argomentazione di Crasso: l'identificazione di un importante precedente della sua concezione di eloquenza nell'unità di pensiero e di parola dei greci e dei romani. Per lui Fenice, il fede compagno di Achille è l'archetipo della saggezza che insegna sia a bene vivere che a bene dicere. Sono molti altri i personaggi che cita tra cui Solone, Catone, Scipione, Temistocle e Pericle. L'obiettivo del discorso di Crasso è quello di identificare “la filosofia più adatta a fecondare l'eloquenza“, questa indagine lo porta a prediligere la tradizione accademica e peripatetica, le cui indagini abbracciano interamente la vita della comunità (la scuola di Filone è fondamentale).A proposito di figure importanti, non posso negare di aver dato una certa importanza a Pericle e, sarò sincero con voi, mi rivedo molto in lui perché entrambi abbiamo la capacità di rendere ben accette al popolo idee sviluppate proprio per contrastare l'azione demagogica e "popolare". Per lui l'oratore deve essere filosofo, giurista e uomo di Stato anche per custodire con la propria auctoritas le istituzioni e le tradizioni. Nonostante, rifacendosi alla definizione isocratea della filosofia, i termini filosofo e retore siano interscambiabili secondo lui, egli rifiuta ogni ricerca autonoma in campo filosofico; si riferisce infatti ad un impiego della filosofia in ambito retorico. Ho voluto rivendicare la dignità dell'eloquenza in quanto forma di espressione. affermare la dimensione artistica e indagare le condizioni che rendono possibile il suo realizzarsi. Afferma poi che lo stile si affina grazie ad una vasta formazione culturale che privilegi la lettura degli scritti antichi retori e poeti, questo è possibile perché crede l'eloquenza sopravviva nel tempo grazie agli scritti e non alle parole. Importantissima è anche la capacità del retore di alternare toni e registri diversi e per farlo deve imparare da poeti e musicisti. Per lui l'actio ha la funzione di manifestare i moti dell'animo, o almeno di imitarli; questo è motivo di lamentela nei confronti di coloro che non danno la giusta considerazione a quest'aspetto di un'orazione e sono invitati ad imparare dagli attori il modo di parlare e il movimento.
Vi lascio qui sotto un discorso tenuto dallo scrittore Valeri Magrelli, scrittore contemporaneo, che parla dell'importanza della retorica nella società, dategli un'occhiata!
Fonti:
"Cicerone: dell'Oratore", presente un saggio introduttivo di Emanuele Narducci, 1994, Biblioteca Universale Rizzoli.