Nell'ultimo periodo della mia vita mortale decisi di dedicarmi alla composizione di queste due opere per fare una riflessione approfondita sulla finalità che un buon oratore deve avere, vale a dire il bene pubblico, quindi quello dello Stato e non quello individuale che porta a dittature e tirannie. Il mio impegno in questo fu anche dato dal fatto che, mentre scrivevo le opere retoriche, l’impegno nella vita politica mi era impossibilitato dal regime dittatoriale creato da Cesare che, ovviamente, limitava la libertà di parola e di conseguenza l’attività oratoria per scopi pubblici.
Scrissi il Brutus quasi alla fine della mia vita, nel 46, ma già nella mia giovinezza avevo composto un’opera retorica, il De Inventione, che però successivamente considerai alquanto infelice e non lo riconobbi nemmeno più tanto come mio, ma di questo ho già parlato nel De Oratore. Strutturai l’opera come un dialogo tra me, il mio caro amico Attico e Bruto.
In quest’opera, così come nell’Orator, decisi di presentarvi una carrellata di oratori, sia greci che latini, su cui esprimo il mio giudizio critico. Sin da subito nell’opera feci riferimento a modelli dell’eloquenza greca e sottolineai alcuni concetti di essa che mi permisero di dire e consolidare le mie posizioni già dall’inizio: la conquista del periodo ritmico nella prosa da parte di Isocrate, mi permise di criticare lo stile attico e neoattico che in quel periodo stava spopolando a Roma. Presi Pericle e Demostene come modelli di oratori capaci di dominare tutte le sfumature dell’arte oratoria, in modo da presentare così un preciso modello di eloquenza:
Nam plane quidem perfectum et quoi nihil admonum desit Demosthenem facile dixeris.
"Giacché proprio compiuto alla perfezione, uno al quale non manca praticamente niente, può essere senz’altro detto Demostene."
(Cicerone, Brutus, 35)
Ripresi Demostene anche per dimostrare come l’eloquenza attica e neoattica non sia stato soltanto uno stile puro, conciso e sobrio, ma che anche esso fu caratterizzato dalla vis, dalla magnificenza e dall’abbondanza. Tutto lo ciò lo trovai appunto in Demostene che fu l’unico in grado di padroneggiare perfettamente tutti i generi e gli stili dell’eloquenza:
Nam quid est tam dissimile quam Demosthenes et Lysias, quam idem et Hyperides, quam horum omnium Aeschines?
"Perché, cosa c’è di così diverso quanto Demostene e Lisia, o sempre Demostene ed Iperide, o Eschine da tutti questi?"
(Cicerone, Brutus, 285)
In questo video viene fatta una rapida spiegazione dell'oratoria nel corso della storia, partendo dalla sua nascita in Grecia arrivando fino ai giorni nostri
Decisi di tirare in causa Lisia perché fu uno dei principali modelli cui facevano riferimento gli atticisti insieme a Tucidide; entrambi autori che reputai scarni e scabri. Usai questi esempi anche per difendermi dalle accuse che mi vennero mosse dagli atticisti di essere ridondante nell’abuso dei verbi e delle figure, di essere troppo attento agli effetti del ritmo e delle sonorità; fui infatti accusato di usare uno stile asiano, come Quinto Ortensio Ortalo, l’oratore più in voga prima della mia ascesa. Ortalo era noto per il suo stile asiano, rimasto immacolato nel tempo, io invece mi impegnai nel compiere un lungo processo per rinnovare il mio stile, soprattutto con il mio soggiorno di due anni in Grecia.
In quest’opere volli rivendicare la superiorità del grande oratore rispetto a quei comandanti e a quelle imprese militari di poco conto (le uniche ad essere superiori infatti, secondo me, erano quelle che salvarono Roma), mi pare di esserci riuscito anche grazie ad un complimento che Cesare, il più grande capo militare di Roma, aveva rivolto alla rinnovazione della tradizione oratoria da me operata. Questo equivalse, a mio modo di vedere, ad un riconoscimento del posto che spetta all’oratoria all’interno della società.
Affidai ad Attico il compito di elogiare Cesare, utilizzando lo stratagemma tecnico della praeteritio, con una descrizione elogiativa della mia maniera di fare discorsi.
In questo passo decisi di riportare le parole di Cesare, non solo, come detto prima, per restituire all’oratoria il posto che merita nella scala dei diritti sociali, ma anche per elogiare mie scelte stilistiche.
La rassegna è molto ricca e nutrita e ritenni opportuno esporla in ordine rigorosamente cronologico. Non mi sembrò necessario parlare di oratori a me contemporanei, fatta eccezione per Cesare, di cui però feci parlare Attico, e per me stesso. L’ultimo oratore che infatti decisi di trattare nell’opera sono io stesso, onestamente mi vedo come il punto di arrivo di un lungo processo di perfezionamento e affinamento dell’eloquenza romana. Ritenni opportuno smettere di rievocare la mia carriera da dopo le Verrinae: da lì in poi non penso che ci sia mai più stato un serio competitore sull’arte oratoria; decisi di trattare in modo del tutto generale le caratteristiche di quello che ritengo sia stato lo stile oratorio più originale che Roma abbia mai conosciuto: la varietà dei toni, la capacità di esporre le implicazioni generali delle cause in questione, il ricorso alla filosofia, alla storia, etc.:
Nemo qui animus eius, quod unum est oratoris maxume proprium, quocumque res postularet impellere.
"Nessuno- e questa è, da sola, la caratteristica principale di un oratore vero- che sapesse spingere l’animo in qualunque direzione le cose richiedessero."
(Cicerone, Brutus, 322)
Considerai giusto inoltre sottolineare quali sono le tre capacità che un oratore deve avere per essere considerato un buon oratore, ovvero informare chi lo ascolta sulla materia di cui sta trattando, rendere il discorso piacevole per chi lo ascolta e suscitare emozioni in coloro che lo ascoltano. Questi tre risultati che si devono ottenere con l’uso delle parole, li ho espressi in questi termini:
Tria sunt enim, ut quidem ego sentio, quae sint efficienda dicendo: ut doceatur is apud quem diceretur, ut delectetur, ut moveatur vehementius.
"Tre sono infatti, a mio parere, i risultati che con la parola si dovevano ottenere: informare l’uditorio, dilettarlo, suscitarne le emozioni più forti."
(Cicerone, Brutus, 185)
In questo video viene riportato il famoso discorso di Martin Luther King "I have a dream". E' un ottimo esempio per capire che ancora oggi i risultati che si devono ottenere con l'oratoria sono simili a quelli che spiegava Cicerone.
Dopo di ciò decisi di focalizzare la mia attenzione sul fatto che un oratore per essere giudicato eccellente deve avere l’approvazione non solo del popolo, che non è esperto dell’arte retorica, ma anche di coloro che sono esperti di oratoria, di coloro che se ne intendono, e che quindi giudicano anche in base al piano stilistico formale il discorso fatto:
Cum multi essent oratores in vario genere dicendi, quis umquamex his eccellere iudicatus est volgi iudicio, qui non idem a doctis probaretur?
"Tra i molti oratori dei vari indirizzi, chi è mai stato giudicato eccellente dal giudizio del volgo, senza incontrare anche l’approvazione degli intenditori?"
(Cicerone, Brutus, 189)
Fonti:
"Cicerone: Bruto" saggio introduttivo di Emanuele Narducci. Classici della Bur 1995