L’uomo che conosce cento lingue, dall’inglese al manciu

A qualcuno non basta una vita per studiare una lingua e a qualcun altro non bastano le lingue da studiare in una vita. Ad Arnaldo Alberti sessant’anni sono bastati per impararne circa un centinaio, di lingue (il numero esatto non lo conosce neppure lui). E se quelle moderne difettano per numero, le antiche si rivelano fonte prodiga per colmare eventuali lacune: greco antico, ebraico, sanscrito, avestico, pahlavi (persiano medio). Ma per quale ragione uno si met- te a studiare il pahlavi? «Perché è una lingua molto importante dal momento che esistono delle traduzioni dal pahlavi dell’avesta», spiega Alberti. Già, come non pensarci.

Alberti parla il francese, l’inglese, lo spagnolo, il portoghese, il rumeno, il bulgaro, il ceco, il polacco, l’estone, il finlandese, il russo, l’ucraino, il bielorusso, il serbo-croato, il tedesco, il persiano e l’ungherese. Conosce un’ottantina di idiomi, che vanno dal mongolo, al giapponese, dal cinese all’arabo, dall’ebraico al neoelleniké, dall’armeno al gujarati, al turco, al manciu, lingua che neppure il computer pare conoscere dal momento che lo corregge in «mancia». Sua è la traduzione dal kirghiso di una scelta di versi del «Manas», testo epico dell’Asia turca centrale composto di seicentomila versi, edito dalla Mondadori, la traduzione dall’estone de «Il pazzo dello Zar» di Jaan Kross, il massimo scrittore estone, dall’avestico dell’«Avesta», il te- sto sacro dello zoroastrismo, che sarà a breve pubblicato dall’Utet.

Tra una lingua e l’altra, Alberti, trevigiano di origine, laureato alla Ca’ Foscari e oggi residente a Ivrea, ha pure trovato il tempo di studiare medicina a Torino, di laurearsi in antropologia e filologia a Mosca, in etnologia slava a Lubiana. Ha diretto una rivista di ostetricia e ginecologia, una collana di neuropsichiatria e psicoterapia. È critico d’arte, celebre slavista, studioso di religioni orientali. È stato attore e autore di testi, è stato campione di marcia e ha pure una bella moglie. Di tutto, di più. E del resto qualcosa in più deve avere uno che da bambino si svegliava alle 6,45 del mattino per seguire i corsi di lingue alla radio e poi andava a scuola. Uno che, su consiglio del maestro, ha saltato la quarta elementare e che all’esame di quinta ha composto una poesia in francese, traducendola in italiano e commentandola. Uno che a sedici anni si è comprato una grammatica di sanscrito, la prima di una serie di 1500 manuali di lingue straniere, e che a diciassette ha tradotto un testamento dal brasiliano e con i soldi ricavati ha acquistato un dizionario di portoghese, il primo di 970 vocabolari di cui dispone. Uno la cui tesi di laurea, «Lettere senza indirizzo: saggio sull’estetica marxista», inaugura una collana di saggi minimi pubblicata da Silva Editore di Milano («con quel saggio mi sono creato l’ostracismo di molte famose case editrici di sinistra, come l’Einaudi, la Laterza e la Donato, perché in esso confutavo la tesi dell’esistenza di un’estetica marxista, accreditata allora da molti studiosi»). Uno che scrive saggi di etnologia, di filosofia, di arte, che si occupa di tutto perché «tutto mi interessa e non una cosa soltanto».

Eppure imparare cento lingue sembrerebbe impresa impossibile. Ma che cosa ha fatto per riuscirci? «Mi chieda piuttosto che cosa non ho fatto». Qualcosa allora si è perso anche lui. Una piccola consolazione per noi, comuni mortali.

(Estratto da il Giornale del Piemonte del 12.08.2003. Vedi file in pdf qui allegato)