Busano

BUSANO TOPONIMO LATINO

di Arnaldo Alberti ©


         «L’abitato sta a gradi 43, 19, 33 di latitudine e a 4, 48, 45 di longitudine da Roma; distante da Torino, capo provincia e circondario e diocesi, chilometri 33 e con egual distanza da Ivrea e poco meno da Chivasso e chilometri 3 da Rivara, capo mandamento. Un gruppo di casolari detto Pomatto trovasi sui confini con Favria».  Fin qui  il Bertolotti delle Passeggiate nel Canavese (edizione del 1874, tomo VII, pagg. 245-46).

Il celebrato storico di queste terre, a ben leggere, non mostra però nella sua opera d’aver davvero colto la essenza storica, culturale e architettonica di Busano, come persino la brusca espressione con cui conclude la sua ‘passeggiata’ per il ‘piccolo villaggio’ (così egli lo definisce) sembra ben mostrare: “Non vi sono costumanze speciali in Busano”.

Per molti altri ‘villaggi’ da lui visitati, a dire il vero, Bertolotti si era sforzato di trovarne di caratteristiche; questo, anche quando, in realtà, usanze e costumanze che egli riportava erano lungi dall’essere specifiche di solo quel paese, bensì comuni e diffuse non solo  in tutto il Canavese ma anche altrove nell’Italia antica.

Eppure, a Busano anche allora egli avrebbe potuto trovare bellezza e particolarità, solo se avesse sostato un po’ di più in questo villaggio, e con almeno l’interesse, che egli nutriva nel costruire le vicende di notabili, prevosti e badesse. Egli descrive che Busano ha un aspetto nella parte centrale “non brutto”, ma solo in virtù di una piazza bella soltanto perché abbastanza grande, da cui passa la strada che porta a Rivara. Poi, quasi pentito del mezzo complimento, Bertolotti si affretta a soggiungere che il villaggio è però imbruttito da viuzze irregolari con tracce di mura antiche. Completa la sua cruda descrizione asserendo che: il campanile è «un residuo»; vi è «una specie di torrione», che si presenta assai bene soltanto grazie all’edera che lo ricopre; la chiesa «ha navate basse, scrostate e umide» e che i suoi tre altari sono «meschini».

Detto questo, egli riprende, tutto soddisfatto, la storia che più gli piace: quella dei prevosti che hanno governato le anime di questo villaggio,nato verso l’anno mille, e quella dei redditi delle varie congregazioni, nonché un’imprecisa successione di eventi riguardanti il Monastero delle Benedettine e le sue badesse.

Davvero, di Busano già allora si poteva dire meglio e di più.  Intanto, una sua usanza particolare Busano l’aveva, come il più valido, fin qui, storico e cronista del Canavese, Mario Bertotti, in vari suoi articoli, raccolti in Documenti di Storia Canavesana, ci ricorda. Esisteva un’antica tradizione canavesana detta della ‘pena del pasto’, ossia la punizione inflitta a quei consiglieri comunali che non facevano il loro dovere,  o erano ritardatari o assenteisti, e  consisteva nel loro obbligo di offrire poi la cena a tutti i membri del Consiglio comunale. Ebbene, proprio a Busano nel XVIII secolo, si estese questa punizione a un reato che sarà riconosciuto giuridicamente nel resto del mondo soltanto un secolo e mezzo dopo: la violazione del segreto d’ufficio. Reato ritenuto dalla sensibilità giuridica dei Busanesi, decisamente più grave e lesivo del semplice ritardo o dell’assenza e perciò meritevole di essere punito, in aggiunta alla pena del pasto, anche con la multa di uno scudo d’oro.

Ma v’è di più. Busano aveva già nell’Ottocento una sua attività artigianale specifica, provenientegli dalla buona terra argillosa: la considerevole fabbricazione di tegole e mattoni, che impiegava verso il 1870 oltre trenta operai su una popolazione stimata puntualmente in 796 persone (censimento del 1862). Questo significa che l’attività artigianale coinvolgeva, di fatto, attorno al venti percento della sua popolazione e qualificava il paesino canavesano, già nella seconda metà dell’Ottocento, come un centro artigianale e non solo agricolo. Busano, dunque, presentava già all’epoca di Bertolotti una fisionomia economica e una tipologia lavorativa decisamente specifica rispetto alla stragrande maggioranza delle aree piemontesi e nazionali (il 95 percento della popolazione lavorativa, non militare o impiegatizia, era dedita all’agricoltura o alla pastorizia). 

Anche questa, a nostro vedere, era una particolarità di Busano da approfondire e evidenziare nel corso della passeggiata. Il saper far tesoro di tutte le risorse della natura. E oltre alla buona argilla, l’area offriva un dono che non era solo pittoresco: le pure e precipitose acqua del torrente Viana, proprio quel rivo che il Bertolotti, guarda con disprezzo e classifica “povero di pesci”. Gli avveduti artigiani di Busano, come quelli di Rivara e di Forno (è certo che furono proprio questi ultimi a iniziare) videro quello che l’ovvietà impediva ad altri di vedere: un torrente che scorreva puro e veloce dal monte Solio e poteva rappresentare l’elemento necessario per raffreddare il ferro incandescente, anche quando aveva dimensioni maggiori di un chiodo o di un ferro di cavallo.

Questo spirito imprenditoriale di Busano, stava già, a guardar bene, in coloro che avevano imparato a “raccogliere” la terra come una messe e a darle forma e venderla sotto forma di mattone o altro manufatto edile. Lo stesso spirito che alleggiava a Forno e a Rivara, e che ha consentito di avviare in quest’area del Canavese una delle più rinomate industrie italiane: lo stampaggio a caldo dei metalli, creando nella zona del Viana una piccola Ruhr italiana.

È importante ricordare come il legame tra Busano, Forno e Rivara  abbia origini remote. Già un documento del 1240 univa questi tre paesi, che tra l’altro avevano uno stesso Statuto, in una comunità, quella della “Vianencia Riparia”. Davvero una profetica denominazione per questi tre paesi che un torrente ha unito in un solo destino umano ed economico. 

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Prima d’inoltrarci in una più puntuale storia di Busano, tuttavia, dobbiamo accennare almeno alla vessata questione dell’origine del suo nome della lunga controversia sulla sua etimologia. Quello che rimane certo è che nessuna delle spiegazioni fin qui offerte sembra essere non solo definitiva, ma nemmeno soddisfacente, poiché comunque rimanda a un termine iniziale, a una radice che non è verificata o verificabile e di cui non si conosce l’origine.

La prima seria etimologia fornita alla Scienza è quella, peraltro un po’ sbrigativa, dovuta all’eminente dialettologo Olivieri, solitamente molto puntuale, esauriente e perspicace su altre etimologie di toponimi piemontesi. L’Olivieri nel suo Dizionario di toponomastica  piemontese (Brescia, 1965) fa derivare Busano dal nome personale latino Busius, un presunto proprietario fondiario d’epoca imprecisata, ma che si suppone dei primi secoli d.C. Occorre subito dire che questo antroponimo risulta un tantino fatto ‘ad orecchio’, in quanto esso non risulta nella maggiore raccolta di tutte le iscrizioni latine, il rinomato CIL, ossia il Corpus Inscriptionum Latinarum, la raccolta delle iscrizioni in lingua latina, avviata a Berlino nel 1893 e tuttora in corso. Né il nome Busius risulta come voce latina nell’Onomasticon, o raccolta di nomi latini, del Perin, complemento e allegato al pregiato dizionario di Egidio Forcellini, Lexicon totius latinitatis del 1771. Busius non compare nemmeno in nessun atto notarile medioevale, cosa possibilissima, considerato che la prima volta che il toponimo Buxanus viene riportato da un qualche documento è soltanto nel 1198. Appena venticinque anni dopo, tuttavia,  la sua forma scritta è già mutata e ha un aspetto grafico molto vicino a quello attuale: Buzanus.

Rossebastiano, una delle maggiori studiose di linguistica e tradizioni canavesane, cerca di superare l’ostacolo dell’antroponimo poco documentato e va a pescare nell’onomastica latina dell’area racchiusa tra Orco e Stura il gentilizio Aibutius e un suo corrispondente Aebutius, che compaiono, peraltro anche in toponimi di località limitrofe.

Debitamente decapitato, ovvero toltogli la prima sillaba (i linguisti raffinatamente chiamano questa comoda operazione ‘aferesi’), e aggiuntogli un suffisso prediale o etnico in -anus, dal signor Aibutius o Aebutius sarebbe nato l’aggettivo butianus, poi – con un’altra operazione meno evidente, ma di cui vengono accuratamente riportate analogie, il dittongo -iu- sarebbe stato assorbito di modo che il risultato finale sarebbe Buzanus.

Occorre dire che, mentre si è prodighi di magia della trasformazione si è altrettanto riservati sullo spiegare ai poveri mortali quale ne sia stato mai il significato o l’etimo di Aibutius. Insomma, che cosa significava quel nome proprio o quel gentilizio, e quindi che cosa c’è nel cuore più intimo del toponimo Busano? 

Il fatto è che, inspiegabilmente, nella ricerca dell’origine del nome Busano si è tralasciato di approfondire una sua possibile derivazione dal mondo vegetale, per esempio da buxus, ‘bosso’, di cui buxanus, avrebbe potuto tranquillamente essere l’aggettivo appellativo, con il significato di per ‘quel (posto) del boschetto di bosso’. Una siffatta provenienza avrebbe anche il pregio di non comportare alcun acrobatismo linguistico, nessuna aferesi di -ai- e nessuna assimilazione di –i-, ma di presentare un usuale passaggio di s sorda in sonora (Buxa in Buza), come del resto succede in molti altri toponimi piemontesi e non solo in toponimi. Tale nome di luogo è presente in Piemonte: Bosia, località nella Valle del Belbo e  Bosio, paese nell’alessandrino, che come si vede entrambi hanno cambiato la –x- sorda intermedia di buxus in una –s- sonora.

Volendo, tuttavia, considerare Busano  come un derivato da un suffisso prediale in –anus, si può allora fare ricorso all’antichità romana e trovare davvero, senza bisogno di fantasie, nella cronaca dei Fasti capitolini dell’anno 507 dalla fondazione di Roma (corrispondente all’anno 247 a.C.) il nome gentilizio Buteus o Butius ; questo sì compatibile sul piano fonetico con il nome citato dall’Olivieri Busius. Finalmente di questo nome avremmo la sua bella etimologia, poiché i nomi di persona Buteus e Butius derivavano rispettivamente da būteō, -tiōnis, ‘poiana’, uccello augurale, dal cui volo si traevano gli auspici, e da būtiō, -ōnis, ‘tarabuso’, un uccello della famiglia delle cicogne, ovvero il butio dal suono aspro e forte come un taurus ‘toro’.  La voce buteo e butio hanno origine onomatopeica e vogliono riprodurre il verso basso e sgradevole d’entrambi i volatili.

Con questa parimenti possibile derivazione etimologica, tra l’altro, non occorrerebbe nemmeno far tanta strada per i sentieri tortuosi della linguistica; basterebbe soffermarsi su come si sia trasformato in italiano il nome (tara)buso, e come si sia cambiata la sua -ti- (butius) latina in una bella e sonora esse italiana (buso), senza alcuna delle peripezie linguistiche, cui anche la brava Rossebastiano è costretta a ricorrere per spiegare come sul piano fonetico da un Aibutius sia saltato fuori un busanus.

Ci basterà ancora ricordare come già in lingua latina būteō significasse anche ‘villico’, ‘rustico’, proprio per lo sgraziato verso dei due animali e, soprattutto, per la poca considerazione che il cives romanus ha sempre mostrato verso il mondo contadino e per chi conduceva l’aratro per la bure, il ‘burino’. Tra l’altro, tale passaggio semantico da volatile a contadino si è conservato tuttora anche in francese.

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Ritorniamo a Busano, paese cui fin qui gli studiosi ufficiali non sembrano aver dato il valore e l’importanza che esso merita.

Potremmo cominciare con la considerazione non peregrina che Busano è il vero centro geografico e strategico dell’Alto Canavese Occidentale, grazie alla sua equidistanza da tutte e tre le città sopra ricordate (Torino, Ivrea e Chivasso). Ma su Busano è maturo anche il tempo di correggere gli opachi giudizi quanto alla sua bellezza  e importanza architettonica e alla sua specificità. Percorriamo, allora, con maggiore attenzione i suoi monumenti, cominciando, magari, con il ricordare come la chiesa parrocchiale di San Tommaso, così vilipesa dal Bertolotti venga invece, grazie a una pacata analisi, rivalutata da un’altra guida del Canavese, quella diretta da Piero Pollino nella sua felice e lodevole serie Il Piemonte e le sue valli .

Pollino scorge subito come le absidi di questa chiesa siano tre autentici gioielli dell’arte romanica e come le sei nicchie dell’abside centrale  non siano casuali, ma servano a ingentilire le linee architettoniche del complesso. Anche le tre navate della chiesa sono, a suo giudizio, tutt’altro che ‘basse, scrostate e umide’ (i due ultimi aggettivi evidentemente denunciano una situazione di degrado dell’epoca, ma era scorretto usarli riferiti alla struttura architettonica),  ma proporzionate e decorate con gusto e semplicità. Di ancor maggiore eleganza e coerenza di stile, uno tra i migliori e più puri esemplari di  barocco piemontese è la chiesa della Confraternita della Santissima Trinità.

Vero monumento di Busano è, tuttavia, la Torre-porta del ricetto, il più consistente e massiccio resto del Ricetto busanese, di un ricetto che, come vedremo, presenta delle sue particolarità e che mette conto di soffermarvisi un po’ di più di quanto non abbia fatto il Bertolotti, come del resto ha saggiamente fatto una relazione storico-descrittiva, dovuta allo Studio Architettura di Favria.

La Torre-porta del ricetto è una costruzione databile del XIII-XIV secolo, su una precedente struttura dell’XI secolo, alta oggi 19 metri, costruita con pietre squadrate e pietrame di fiume.  Sulla parte esterna  della Torre-porta sono ancora visibili i segni del ponte levatoio, praticamente le feritoie da cui fuoriuscivano le catene e le funi che guidavano, nella calata e nell’alzata, la passerella. Inoltre, sulla parte interna della Torre-porta si apriva un’altra uscita, a circa otto metri di altezza, che immetteva nel camminamento per le sentinelle.  La Torre-porta, la principale, era volta ad oriente, mentre una seconda torre-porta, oggi inglobata in case e casette, la più recente delle quali risale alla seconda metà del 1800, era rivolta verso sud. In pratica, da entrambe si potevano controllare bene tutte le direzioni da cui poteva giungere il maggior pericolo per la gente che si raccoglieva nel Ricetto.

Il Ricetto di Busano, pure, che rappresenta ancor oggi il complesso strutturale architettonico su cui si è sviluppato il paese, presenta delle particolarità che lo distinguono dagli altri ricetti canavesani; particolarità che risiedevano principalmente nella sua destinazione, che  –  come mostrano la sua struttura e la sua forma molto elaborata della casa centrale -  doveva essere quella di accogliere in caso di necessità parte del contado busanese, attorno alla casa centrale, probabilmente quella dei signori Mollo, a sua volta ben fortificata. Si trattava, dunque, di un ricetto consortile, in cui avevano accoglienza solo le pertinenze del signore.

La Torre-porta era un tempo ricoperta anche di interessanti affreschi tardo-gotici, a riprova della chiara appartenenza longobarda dei suoi costruttori. La qualcosa si riallaccia alla fondazione stessa del Monastero di Busano, punto principale d’esordio di ogni trattazione storica riguardante il simpatico e attivo Comune sul Viana. Alludiamo al Monastero di Benedettine fatto costruire ad hoc , nella prima metà dell’XI secolo, da Hemerich, signore d’origini longobarde, feudatario di Rocca, Rivara e Barbania, per dare appropriato asilo alla figlia Libania, fattasi suora, così che ne potesse presto divenire badessa. Monastero che viene ripetutamente saccheggiato e distrutto nel corso dei primi suoi secoli, tanto da trasferire definitivamente le sue suore al Santuario di Belmonte, pur mantenendo, le suore ivi accolte, la giurisdizione della chiesa parrocchiale di Busano. Nel 1317 i signori di Valperga ricevono in feudo anche Busano, ma vengono nel tempo a patti con una potente famiglia busanese dei Mollo, con la quale, di fatto, governano il paese fino al suo passaggio sotto al governo sabaudo, nel 1631.

Un piccolo giallo irrisolto riguarda il corpo di quella che potremmo chiamare la fondatrice di Busano, Libania, morta nel 1159 dopo essere santamente vissuta quarant’anni nel Monastero delle Benedettine, nella cui chiesa, oggi parrocchiale, avrebbe dovuto trovarsi sepolta e come una una epigrafe sulla lapide, nel suo elegante latino, attestava. Aperto il sepolcro, ivi il corpo della Santa Libania non c’era. Ne colà, né altrove. Di più, facendo, finalmente, un po’ di attenzione, ci si accorgeva che la lapide era notevolmente posteriore di alcuni secoli  alla morte di Libania. La soluzione del giallo, però, sta forse nell’attenta lettura dell’epigrafe, e proprio nel suo esordio:  “Accogli, o terra, le ceneri della vergine badessa Libania…”. Non immurata, dunque, in qualche convento o chiesa riposa per un eterno  la santa Libania, dal nome così vicino alla fiaba o al mito. Non chiusa in uno angusto spazio, ma ritornata in grembo a quella terra busanese che l’aveva generata.

Nei tre secoli che succedono all’incorporazione di Busano nel regno sabaudo, le sue vicende importanti sono quelle dei molti altri comuni del Canavese, salvo quella particolarità lavorativa e imprenditoriale, di cui abbiamo fatto cenno, che ha legato e continua a legare a filo doppio Busano a Rivara e Forno, i tre grandi paesi della “Vianencia Riparia”.