L’impatto del covid sull’ambiente

Articolo di Gianmarco Mammucari e Giulia Hereni - 6 aprile 2021

Un legame stretto e diretto quello esistente tra la pandemia del Covid-19 e la dimensione ambientale. Il mondo intero studia, ormai da mesi, le cause all’origine della nuova emergenza sanitaria che ha scombussolato l’intero pianeta. Secondo la comunità scientifica internazionale sarebbe stato il comportamento umano a permettere alle malattie degli animali di arrivare fino a noi.

Tra le ipotesi più accreditate quella del contagio partito da un mercato di Wuhan, in Cina, destinato alla vendita della carne di animali selvatici. All’origine del nuovo Coronavirus c’è il fenomeno dello spillover, il “salto” che permette al patogeno di passare da una specie all’altra: in questo caso, dall’animale all’uomo, nello specifico i pipistrelli.

In un recente studio, il WWF ha evidenziato come le malattie trasmesse dagli animali all’uomo, le zoonosi, siano direttamente collegate a comportamenti sbagliati dell’uomo, in particolare alla distruzione di ecosistemi naturali e al commercio di animali selvatici.

Il passaggio è necessariamente legato al commercio di animali: a questo si aggiunge distruzione dell’habitat per mano umana che rompe gli equilibri biologici e annulla ogni tipo di barriera naturale. È il caso della deforestazione: secondo il WWF le modifiche apportate dall’uomo per nuove edificazioni, creazione di nuovi pascoli e produzione di carta e legname, hanno cancellato parte di quelle specie animali che rappresentavano un argine tra i virus e l’essere umano, aumentando i rischi di contagio.

Dello stesso parere Inger Andersen, direttrice esecutiva del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente UNEP, che in un’intervista al The Guardian ha dichiarato: “Non ci sono mai state così tante occasioni per i patogeni di passare dalla natura selvaggia alle persone. La nostra continua erosione della natura ci ha portati pericolosamente vicini agli animali e alle piante che ospitano malattie che possono facilmente passare agli esseri umani.”

I dispositivi di protezione sono diventati parte integrante delle nostre abitudini durante la pandemia di Covid-19 ma, allo stesso tempo, hanno riacceso la sfida con un nemico con cui da poco avevamo iniziato le trattative: la plastica.


La vita moderna sarebbe impensabile senza plastica. L’emergenza sanitaria ha confermato una delle ragioni del suo successo: l’utilità nella tutela della nostra salute e della nostra sicurezza. Del resto, secondo un articolo del New York Times del 23 marzo, già allora in Cina venivano prodotti 116 milioni di mascherine al giorno. Quello delle mascherine rappresenta solo la punta dell’iceberg di un problema ben più grande, il ritorno della plastica monouso: guanti, salviette detergenti, protezioni per i piedi, cuffie, rivestimenti per sedie, kit di abbigliamento per medici e operatori sanitari. Se da un lato siamo di fronte a un’inedita attenzione per l’igiene, Covid-19 porta con sé una serie di effetti collaterali legati all’ambiente. La pandemia, e soprattutto la quarantena, hanno stimolato l’aumento degli acquisti online e con esso gli imballaggi plastici dei prodotti. Le richieste di servizi di consegna di cibo, per esempio, sono aumentate in media del 56%.

Ciò che si è dimostrato vantaggioso, e necessario, per la salvaguardia della nostra salute ha avuto però un caro prezzo. E a pagarlo è stato l’ambiente. L’estate scorsa, sulla rivista Science of the Total Environment, sono stati pubblicati due studi che hanno fornito una panoramica delle politiche in atto contro l’inquinamento causato dalla plastica e dei loro aggiustamenti durante l’emergenza sanitaria. La sconfitta maggiore, si evince, è che le misure preventive hanno messo un freno ai recenti progressi fatti in materia di sostenibilità e gestione dei rifiuti. Per paura di diffondere il virus, in molti casi, si è fatto insomma un passo indietro: alcuni Paesi hanno ritirato i divieti di utilizzo della plastica monouso e ristretto l’uso di articoli riutilizzabili. Solo nel 2018, infatti, l’Unione europea aveva messo al bando i dieci prodotti di plastica monouso più diffusi entro il 2021. L’anno successivo il Canada aveva lanciato un’iniziativa simile nel tentativo di ridurre i rifiuti oceanici.

La pandemia, invece, ha ostacolato l’ambizione globale di ridurre la plastica. Alcuni Paesi, tra cui il Regno Unito, hanno sospeso l’addebito obbligatorio per i sacchetti di plastica per le consegne online. Negli USA molti Stati hanno limitato la possibilità di usare sacchetti per la spesa portati da casa, altri hanno reso gratuiti quelli forniti dai negozi. Anche alcune catene di cibo e bevande hanno vietato l’uso di bicchieri e contenitori riutilizzabili e sono temporaneamente passati a quelli usa e getta.

E ovviamente c’è chi ne approfitta: nella sezione Covid-19 della Plastics Industry Association, un'associazione di categoria che rappresenta l'industria delle materie plastiche, si legge che questo materiale “diventerà sempre più vitale per aiutare a mantenere le nostre famiglie sane, il nostro cibo fresco e protetto e il nostro personale sanitario al sicuro”.

Abbiamo il diritto di tutelarci ma allo stesso tempo il dovere di non compromettere l’integrità dell’ambiente più di quanto non sia già successo. Sono bastati pochi mesi dall’inizio della pandemia, perché il sistema di gestione dei rifiuti si trovasse sull’orlo del collasso. A Wuhan, per esempio, già a marzo i rifiuti sanitari erano aumentati dal livello normale di 40 tonnellate al giorno a circa 240, superando di cinque volte la capacità massima dell’inceneritore di provincia, che è di 49 tonnellate al giorno.

Il fattore più critico è costituito dalla pericolosità di alcuni rifiuti: a causa della persistenza e della contagiosità dei virus, quelli sanitari e quelli domestici provenienti da case di persone positive o in quarantena obbligatoria sono stati classificati come infetti. Per ridurre il timore di trasmissione involontaria e a causa della composizione mista della plastica, il riciclaggio è stato disincentivato; al contrario, accumulo in discarica e incenerimento hanno avuto la priorità. Ancora una volta l’effetto è duplice: contenimento del rischio per la nostra salute e aumento dell’impatto ambientale. Seppellire o bruciare materiali plastici si traduce in perdita dell’energia usata per produrli, emissioni significative di gas serra e dispersione nel suolo di sostanze nocive. Inoltre, i sistemi di raccolta e smaltimento spesso si sono rivelati inadeguati alla gestione di ingenti quantità di rifiuti – anche per mancanza di personale a causa della stessa pandemia. Il risultato è stato un aumento della dispersione nell’ambiente.

Non sono state ancora fatte delle stime numeriche accurate, ma previsioni e reportage fotografici sì. Già ad aprile, il WWF ha rilasciato un report in cui si legge che se anche solo l’1% delle mascherine prodotte venisse disperso si tratterebbe di ben 10 milioni di pezzi. Considerando che il peso di ognuna è di circa 4 grammi, significherebbe caricare sulle spalle della natura 40mila chilogrammi di plastica. Da febbraio l’organizzazione OceansAsia documenta la loro presenza sulle spiagge delle Isole Soko, a largo di Hong Kong. E non è tutto, perché la sperata ripresa da questa malattia globale potrebbe aumentare anziché ridurre il problema. Minori restrizioni significa maggior circolazione di persone e con esse plastica monouso e dispositivi di protezione. Inoltre, la ripresa economica, in nome del recupero della produttività persa, potrebbe non prevedere strategie a basso impatto ambientale.

Serve un piano d’azione globale perché questa rinascita possa essere un’opportunità e non una minaccia. Dipenderà dagli investimenti stabiliti per il decennio 2020-2030. Per quando riguarda l’industria della plastica, per esempio, una delle strategie possibili è quella di disaccoppiare la produzione dalle risorse non rinnovabili, sia come materia prima che come fonte di energia. Oltre che da un capo, quello economico e politico, il cambiamento può originare dall’altro: quello dei consumatori. Cambiando le nostre norme sociali (l’insieme di regole di comportamento non scritte) cambieranno le nostre abitudini e di conseguenza le alternative offerte dal mercato. Per passare all’azione, dobbiamo esserne consapevoli: la risoluzione della crisi causata da Covid-19 non può avvenire a discapito di altre questioni che l’umanità fronteggia ormai da parecchio tempo. Se prima della pandemia ogni tre tonnellate di pesce nuotava nel mare una tonnellata di plastica, pensare a quello che potrebbe succedere in un mondo post-coronavirus mette i brividi. Come intitolato da un articolo del Guardian uscito nell’estate 2020, in futuro non lontano nel mare potrebbero esserci “più mascherine che meduse”.