Omero, Odissea, XII, vv. 80-110
Μέσσῳ δ᾽ ἐν σκοπέλῳ ἔστι σπέος ἠεροειδές, 80
πρὸς ζόφον εἰς Ἔρεβος τετραμμένον, ᾗ περ ἂν ὑμεῖς
νῆα παρὰ γλαφυρὴν ἰθύνετε, φαίδιμ᾽ Ὀδυσσεῦ.
Οὐδέ κεν ἐκ νηὸς γλαφυρῆς αἰζήιος ἀνὴρ
τόξῳ ὀιστεύσας κοῖλον σπέος εἰσαφίκοιτο.
Ἔνθα δ᾽ ἐνὶ Σκύλλη ναίει δεινὸν λελακυῖα. 85
Τῆς ἦ τοι φωνὴ μὲν ὅση σκύλακος νεογιλῆς
γίγνεται, αὐτὴ δ᾽ αὖτε πέλωρ κακόν: οὐδέ κέ τίς μιν
γηθήσειεν ἰδών, οὐδ᾽ εἰ θεὸς ἀντιάσειεν.
Τῆς ἦ τοι πόδες εἰσὶ δυώδεκα πάντες ἄωροι,
ἓξ δέ τέ οἱ δειραὶ περιμήκεες, ἐν δὲ ἑκάστῃ 90
σμερδαλέη κεφαλή, ἐν δὲ τρίστοιχοι ὀδόντες
πυκνοὶ καὶ θαμέες, πλεῖοι μέλανος θανάτοιο.
Μέσση μέν τε κατὰ σπείους κοίλοιο δέδυκεν,
ἔξω δ᾽ ἐξίσχει κεφαλὰς δεινοῖο βερέθρου,
αὐτοῦ δ᾽ ἰχθυάᾳ, σκόπελον περιμαιμώωσα, 95
δελφῖνάς τε κύνας τε, καὶ εἴ ποθι μεῖζον ἕλῃσι
κῆτος, ἃ μυρία βόσκει ἀγάστονος Ἀμφιτρίτη.
Τῇ δ᾽ οὔ πώ ποτε ναῦται ἀκήριοι εὐχετόωνται
παρφυγέειν σὺν νηί: φέρει δέ τε κρατὶ ἑκάστῳ
φῶτ᾽ ἐξαρπάξασα νεὸς κυανοπρῴροιο. 100
Τὸν δ᾽ ἕτερον σκόπελον χθαμαλώτερον ὄψει, Ὀδυσσεῦ.
πλησίον ἀλλήλων: καί κεν διοϊστεύσειας.
τῷ δ᾽ ἐν ἐρινεὸς ἔστι μέγας, φύλλοισι τεθηλώς:
τῷ δ᾽ ὑπὸ δῖα Χάρυβδις ἀναρροιβδεῖ μέλαν ὕδωρ.
Τρὶς μὲν γάρ τ᾽ ἀνίησιν ἐπ᾽ ἤματι, τρὶς δ᾽ ἀναροιβδεῖ 105
δεινόν: μὴ σύ γε κεῖθι τύχοις, ὅτε ῥοιβδήσειεν:
οὐ γάρ κεν ῥύσαιτό σ᾽ ὑπὲκ κακοῦ οὐδ᾽ ἐνοσίχθων.
Ἀλλὰ μάλα Σκύλλης σκοπέλῳ πεπλημένος ὦκα
νῆα παρὲξ ἐλάαν, ἐπεὶ ἦ πολὺ φέρτερόν ἐστιν
ἓξ ἑτάρους ἐν νηὶ ποθήμεναι ἢ ἅμα πάντας. 110
Nel mezzo dello scoglio c’è una caverna tenebrosa 80
rivolta verso le tenebre dell’Erebo, a occidente; lì voi
dovrete dirigere la vostra nave profonda, splendido Odisseo.
Se dalla nave un uomo robusto mirasse con l’arco
il fondo della grotta non potrebbe raggiungerlo;
lì dentro abita Scilla che latra in modo orribile; 85
la sua voce è quella di un cucciolo di cagna,
ma in realtà è un mostro crudele: nessuno
sarebbe felice di incontrarla, neppure un dio.
Dodici sono i suoi piedi, tutti deformi;
ha sei colli lunghissimi e ognuno ha una testa 90
spaventosa: ogni bocca ha tre fila di denti
fitti e numerosi, pieni del nero della morte.
Metà del suo corpo sprofonda nella grotta
e dal baratro sporgono le teste.
Scilla, frugando intorno allo scoglio, pesca ed afferra 95
(se gli riesce) delfini, pescicani e mostri ancora
più grandi, tra quelli che nutre la risonante Anfitrite.
Nessun navigante è passato incolume di lì
con la sua nave; Scilla con ogni bocca porta via
un uomo; lo afferra sopra la nave dalla prora scura. 100
Vicino vedrai un altro scoglio, Odisseo, ma più in basso
e vicino al primo (alla distanza di un tiro di freccia):
là c’è un grande fico selvatico, ricco di foglie;
sotto, la divina Cariddi ingoia l’acqua scura:
tre volte al giorno rigurgita l’acqua, tre volte l’inghiotte 105
in modo spaventoso. Non trovarti là quando inghiotte!
Neppure lo Scuotitore della terra potrebbe salvarti dalla morte.
Tu dovrai accostare allo scoglio di Scilla e portare
subito la nave lontano: è molto meglio perdere
sei compagni che piangerli tutti! –. 110
Ovidio, Metamorfosi, XIV, vv. 37-74
Talia temptanti 'prius' inquit 'in aequore frondes'
Glaucus 'et in summis nascentur montibus algae,
Sospite quam Scylla nostri mutentur amores.'
indignata dea est et laedere quatenus ipsum 40
non poterat (nec vellet amans), irascitur illi,
quae sibi praelata est; venerisque offensa repulsa,
protinus horrendis infamia pabula sucis
conterit et tritis Hecateia carmina miscet
caerulaque induitur velamina perque ferarum 45
agmen adulantum media procedit ab aula
oppositumque petens contra Zancleia saxa
Region ingreditur ferventes aestibus undas,
in quibus ut solida ponit vestigia terra
summaque decurrit pedibus super aequora siccis. 50
parvus erat gurges, curvos sinuatus in arcus,
grata quies Scyllae: quo se referebat ab aestu
et maris et caeli, medio cum plurimus orbe
sol erat et minimas a vertice fecerat umbras.
hunc dea praevitiat portentificisque venenis 55
inquinat; hic pressos latices radice nocenti
spargit et obscurum verborum ambage novorum
ter noviens carmen magico demurmurat ore.
Scylla venit mediaque tenus descenderat alvo,
cum sua foedari latrantibus inguina monstris 60
adspicit ac primo credens non corporis illas
esse sui partes, refugitque abigitque timetque
ora proterva canum, sed quos fugit, attrahit una
et corpus quaerens femorum crurumque pedumque
Cerbereos rictus pro partibus invenit illis: 65
statque canum rabie subiectaque terga ferarum
inguinibus truncis uteroque exstante coercet.
Flevit amans Glaucus nimiumque hostiliter usae
viribus herbarum fugit conubia Circes;
Scylla loco mansit cumque est data copia, primum 70
in Circes odium sociis spoliavit Ulixem;
mox eadem Teucras fuerat mersura carinas,
ni prius in scopulum, qui nunc quoque saxeus exstat,
transformata foret: scopulum quoque navita vitat.
Circe lo tenta, ma Glauco risponde: «Fronde nasceranno in mare,
alghe sulla cima dei monti, prima che per Scilla
muti questo mio amore, finché lei vive».
La dea si sdegna e, non potendo nuocergli direttamente, 40
né lo vorrebbe, innamorata com'è, s'adira con la donna
che le è stata preferita. Offesa dal rifiuto del suo amore,
s'affretta a tritare erbe maligne dai succhi spaventosi
e nel tritarle le impregna di formule infernali.
Poi indossa un velo azzurro e, passando tra lo stuolo 45
servile delle sue fiere, esce dal palazzo.
Diretta a Reggio che sta dirimpetto agli scogli di Zancle,
s'inoltra sul mare che ribolle per le correnti,
posandovi i piedi sopra come se fosse terraferma,
e corre sul filo dell'acqua senza bagnarsi le piante. 50
C'era una piccola cala dai contorni sinuosi,
dove Scilla amava riposare per ripararsi
dalle burrasche o dalla canicola, quando al culmine del cielo
il sole a picco riduceva le ombre a un filo.
La dea la contamina inquinandola con veleni 55
pestiferi: vi sparge liquidi spremuti da radici
malefiche, mormorando, nove volte per tre, una cantilena
incantata, groviglio oscuro di misteriose parole.
Scilla arriva e non appena s'immerge con metà del corpo in acqua,
vede i suoi fianchi deformarsi in orribili mostri 60
ringhianti. Non potendo credere che quei cani appartengano
al suo corpo, tenta terrorizzata di schivarne e di respingerne
le fauci furiose. Ma anche quando fugge li trascina con sé
e quando cerca nel suo corpo cosce, stinchi e piedi,
al loro posto altro non trova che musi di Cerbero. 65
Si regge su cani rabbiosi e col ventre che sporge
sull'inguine mozzo, schiaccia, sotto, il dorso di quelle fiere.
Pianse Glauco che l'amava, sfuggendo agli amplessi di Circe,
che del potere delle erbe con troppo livore s'era servita.
Bloccata in quel luogo, alla prima occasione Scilla sfogò 70
il suo odio per Circe privando Ulisse dei suoi compagni.
Poi avrebbe affondato anche le navi dei Troiani,
se prima non fosse stata mutata in scoglio, in una roccia
che ancora sporge sul mare: uno scoglio dai marinai evitato.
Iginio, Fabulae, 199
Scylla Crat<aeid>is fluminis filia uirgo formosissima dicitur fuisse. Hanc Glaucus amauit, Glaucum autem Circe Solis filia. Scylla utem cum assueta esset in mari lauari, Circe Solis filia propter zelum medicamentis aquam inquinauit, quo Scylla cum descendisset, ab inguinibus eius canes sunt nati atque ferox facta; quae iniurias suas exsecuta est, nam Vlixem praenauigantem sociis spoliauit.
Raccontano che Scilla, figlia del fiume Crateide, fosse una fanciulla bellissima. Di lei si innamorò Glauco, che a sua volta era amato da Circe, figlia di Sole. Scilla aveva l’abitudine di lavarsi in mare; e Circe, gelosa, avvelenò l’acqua con i suoi filtri. Quando Scilla s’immerse, dai suoi inguini spuntarono dei cani e divenne un mostro selvaggio. Ella poi si prese la rivincita delle offese patite: infatti divorò i compagni di Ulisse che le sfilava vicino sulla nave.
Catullo, carme 64, vv. 154-157
Quaenam te genuit sola sub rupe leaena,
quod mare conceptum spumantibus expuit undis, 155
quae Syrtis, quae Scylla rapax, quae vasta Charybdis,
talia qui reddis pro dulci praemia vita?
Quale mai leonessa generò te sotto una rupe solitaria,
quale mare sputò fuori (te) una volta concepito, dalle onde spumeggianti, 155
quale Sirti, quale Scilla trascinatrice, quale devastatrice Cariddi,
te che rendi tali regali invece di una vita piacevole?
Alexandre Dumas, Messina la nobile e Taormina, p. 11
Del resto, da un istante all'altro, tutte le asperità movimentate della costa ci apparivano più visibili: i villaggi si stagliavano bianchi e nitidi sul fondo verdastro del terreno; cominciavamo a scorgere l'antica Scilla, quel mostro dal busto di donna e con la vita cinta da cani famelici, talmente temuta dagli antichi marinai e che l'indovino Eleno aveva così tanto raccomandato a Enea di rifuggire. Per quanto ci concerneva, fummo meno prudenti dell'eroe troiano; benché, come lui, appena scampati a una tempesta. Il mare era ritornato completamente calmo, l'abbaiare del cani era cessato per lasciare posto al rumore delle onde che s'infrangevano contro la riva.