Polidoro e la Tracia
Tracia
Enea, esule da Troia, approda in un primo momento in Tracia e fonda una città a cui dà il nome di Eneadi. La Tracia è definita Mavortia in onore del dio Marte, è dunque una terra bellicosa legata alle memorie di un re terribile, Licurgo. Da questi dettagli si comprende immediatamente come questa regione sia segnata da fatis iniquis. Eneadi è con ogni probabilità Aenus (Ainos in greco), città posta alla foce dell’Ebro; sulla base della somiglianza con il nome di Aeneas nacque la leggenda che attribuiva all’eroe virgiliano l’origine della città, in realtà menzionata anche in Iliade IV 520. In questo verso si nomina infatti Piroo, che venne da Eno (ὅς ἄρ᾽Αἰνόθεν εἰληλούθει). Secondo le fonti letterarie (Erodoto e Tucidide) e l’evidenza archeologica (capitelli eolici, statue, iscrizioni e ceramica), questa città venne fondata dagli Eoli. Secondo Plinio in quel luogo sorgeva il sepolcro di Polidoro.
La figura di Polidoro
Il mito di Polidoro ci è narrato in due versioni principali. Secondo la versione omerica egli era figlio di Priamo e di Laotoe ed era stato ucciso in battaglia da Achille. L’altra versione ci è testimoniata per la prima volta dall’Ecuba di Euripide: essa prevede che Polidoro sia figlio di Priamo ed Ecuba e sia stato ucciso dal re di Tracia Polimestore. Polidoro è un nome parlante che significa “l’uomo dai molti doni”: all’inizio della guerra di Troia, infatti, egli venne affidato dal padre a Polimestore con parte dei tesori della città. Il re di Tracia, desideroso di impadronirsi delle ricchezze, uccise il ragazzo e lo gettò in mare; Polidoro quindi non ricevette sepoltura ma, secondo il mito, il vento sospinse il cadavere sulla spiaggia formando una specie di tumulo. Virgilio, per quanto concerne l'impianto esterno della storia (ambientazione geografica, rapporto della morte del giovinetto con la guerra di Troia, ragioni dell’assassinio) segue la versione testimoniata nell'Ecuba di Euripide. I versi che introducono l’episodio sono ricchi di allusioni e prolessi che prefigurano l’esito infausto di quello sbarco: la Tracia è una terra bellicosa (infatti è definita Mavortia in onore di Marte), legata alle memorie di un re terribile (acri…Lycurgo). L’approdo è dunque segnato da fatis iniquis. Enea-narratore si serve di una tecnica di rappresentazione suggestiva e drammatizzata dei fatti. Egli cerca di strappare con tutte le energie rami di mirto e corniolo per coprire l’altare su cui sacrificare un toro a Venere: lo sforzo è sottolineato non solo dal verbo (conatus, ovvero “dopo aver tentato”), ma anche dall’espressione iperbolica per cui il ramo appare come un bosco (silvam), tanto è difficile strapparlo. Accade poi un monstrum, un fatto sorprendente e portentoso, poiché dal ramo strappato escono gocce di sangue fosco che macchiano la terra. Virgilio immagina che i rami di mirto siano spuntati dai dardi che trafissero e coprirono il corpo di Polidoro. L’autore usa l’espressione ferrea seges telorum: secondo alcune fonti come Ditti Cretese, Polidoro sarebbe stato consegnato da Polimestore ai Greci e sarebbe divenuto oggetto di una sfortunata trattativa di scambio: dato che i Troiani rifiutano di consegnare Elena ai Greci in cambio di Polidoro, questi è lapidato davanti alle mura di Troia, sotto lo sguardo dei concittadini. Si tratterebbe pertanto di un omicidio collettivo. Enea cerca per tre volte di svellere gli arbusti da terra: il topos della triplice ripetizione occorre ad accentuare l’incredulità e l’emozione, inoltre dopo due azioni “mute” si ha la rivelazione. La terza volta infatti dall’arbusto proviene un gemito e poi una voce. Questa rivelazione è simultaneamente un riconoscimento che rovescia radicalmente le prospettive dell’azione dall’atto di ktísis alla decisione di fuggire. Dalle parole di Polidoro emerge immediatamente la qualità che contraddistingue Enea: la pietas, la sua devozione erga deos et erga parentes. La prima preoccupazione del dilacerato è per il suo consanguineo che non può trattenersi in quella dannata terra: Heu fuge crudelis terras, fuge litus avarum. Enea, rappresentante di un mondo frugale, leale e devoto, viene contrapposto a Polimestore, che non esita a compiere un omicidio a causa dell’auri sacra fames: le parole di Polidoro sono pertanto una denuncia alla malvagità e crudeltà di Polimestore il quale tradì i Troiani per impossessarsi dei loro beni. Emerge inoltre un’implicita sollecitazione rivolta a Enea il quale è invitato a tumulare secondo il rito quel corpo lasciato allo scoperto sulla spiaggia (tumulus infatti non va inteso come tomba, ma come un monticello di sabbia, casualmente accumulato dai venti). La pietas di Enea si rivela dunque quando egli si prodiga con i compagni per recare gli opportuni onori funebri al conterraneo: questa scena risulta l’instauratio del rito funebre. L’episodio di Polidoro è una zona di transizione tra la lotta a Troia e il nóstos verso l’Italia: il monumentale funus dell’ultimo dei Priamidi è quindi la chiusura ideale del ciclo troiano. La figura di Polidoro è stata rivisitata numerose volte nel corso della storia. Nel canto XIII dell’Inferno, Dante riprende in modo massiccio il libro III dell’Eneide: nella selva dei suicidi, in cui dimorano le Arpie “che cacciar de le Strofade i Troiani / con tristo annunzio di futuro danno”, Dante spezza una “fraschetta” da una pianta e da quest’ultima escono parole e sangue. Si tratta di dannati trasformati in piante: la condizione di questi spiriti è disumana poiché sono costretti a essere una pianta ma a pensare come uomini. Pier della Vigna, stretto collaboratore di Federico II, nel suo discorso definisce le mani di Dante pie: è questo un netto richiamo verbale virgiliano. Anche Polidoro infatti parla di “mani pie” ma nell’Eneide il significato di questo termine è più intimamente religioso. Il canto XXII del Purgatorio inoltre riprende due versi che denunciano l’avidità di Polimestore: Quid non mortalia pectora cogis, auri sacra fames!. Nel poema dantesco tuttavia il significato di questa espressione è diverso: il poeta ne fa una denuncia alla prodigalità vista come un eccesso e una volontà di esibizionismo. Dante con la frase “Per che non reggi tu, o sacra fame / de l’oro, l’appetito de’ mortali?” si rammarica che gli uomini non siano guidati da un desiderio di ricchezze moderato appellandosi alla concezione aristotelica della virtù come medietà. Giovan Battista Gelli, autore cinquecentesco, scrisse un’Ecuba a partire dalla traduzione latina della tragedia euripidea a opera di Erasmo da Rotterdam. Egli si rifiuta di effettuare una traduzione letterale e preferisce compiere un processo di rinnovamento della lingua adattando l’originale al fiorentino. Nella tragedia “dipoi morta Polissena, Ecuba manda una sua ancilla al mare per l’acqua, per lavare di quella il morto corpo, la quale truova il corpo di Polidoro morto in sul lito iacere”. L'autore dunque rivisita queste vicende privilegiandone gli aspetti lirici e patetici in linea con le tendenze di quel periodo. Anche più recentemente il mito di Polidoro è stato ripreso per esempio da alcuni spettacoli teatrali come l’Ecuba della drammaturga irlandese Marina Carr: in quest’opera l’autrice rielabora il capolavoro euripideo attualizzandolo e dandogli nuova vita e voce. I personaggi diventano i narratori di una vicenda di guerra e sopraffazione terribile che si ripete senza fine nella storia umana.