Enea e i suoi, giunti a Delo, consultano l’oracolo di Apollo, il quale rivolge loro ambigue parole: “Antiquam exquirite matrem”, "cercate l’antica madre". Chi sia quest’antica madre se lo domandano tutti, finché Anchise fornisce la sua interpretazione, che poi si rivelerà erronea (i Penati, apparsi in sogno ad Enea, sveleranno che questa antiquam matrem è l’Italia): l’antica madre è Creta, detta Iovis magni insula (in quanto luogo scelto dalla madre Rea per nasconderlo al crudele padre Crono), sede del mons Idaeus (il monte Ida, designato mediante l’aggettivo derivante dal sostantivo proprio) e gentis cunabula nostrae (luogo d’origine della nostra gente, ove cunabula indicherebbe, nel senso più letterale, l’oggetto fisico della culla, il cui senso è poi estendibile). Anchise la considera “culla” del suo popolo a causa del suo fondatore Teucro, primo re della Troade che, secondo la tradizione che segue Virgilio, sarebbe stato originario proprio di Creta. Circa questa origine cretese di Teucro, comunque, le fonti non sono concordi (e pure Virgilio forse ne era a conoscenza, come parrebbe segnalare dicendo “si rite audita recordor”, “se ben ricordo i racconti”): secondo alcuni Teucro era autoctono, per altri era appunto originario di Creta, mentre altri ancora ponevano come più antico di lui Dàrdano. Di lui Anchise inspiegabilmente pare dimenticarsi, benché sia proprio a Dàrdano che la profezia allude.
Escludendo questa breve parentesi introduttiva, al v. 111 compare un personaggio misterioso e affascinante: la mater cultrix Cybeli, “Madre cultrice del Cibelo”, seguendo la traduzione di Fo. Ancora oggi esistono molteplici incertezze circa questa divinità, ma proveremo a tracciarne un’identità seguendo i dati lessicali rinvenibili negli esametri virgiliani. Anzitutto l’appellativo di Magna Mater, usato parallelamente a quello di Cibele, indica il suo ruolo, concorde a ogni fonte, di grande madre feconda, ritenuta simbolo ambivalente della forza e distruttrice e creatrice della Natura e Πότνια Θηρῶν (signora degli animali), usando l’espressione omerica, inizialmente riferita ad Artemide, con cui si indicava il potere di una divinità femminile sopra tutte le bestie. L’altro nome, Cibele (Κυβέλη, Cibelis), deriva quasi certamente da Κύβελα o Κύβελον, nome di un monte situato in Frigia, oggi comunque difficilmente individuabile. A questa origine frigia se ne intreccia un’altra presunta, che individua l’origine del culto della Magna Mater in Creta, e che compare proprio qui, nelle parole di Anchise. Hinc, da qui, dunque, provengono Corybantiaque aera, hinc fida silentia sacris, et iuncti currum dominae subiere leones, tutti gli elementi tipici del culto della dea. Esaminiamoli brevemente. Anzitutto i sacerdoti della dea, i Corybantes (Κορύβαντες), che secondo le fonti veneravano la Magna Mater esibendosi in danze orgiastiche, le quali comprendevano spesso pratiche autolesionistiche. In queste sfrenate esibizioni di venerazione comparivano spesso, come conferma Virgilio, aera, dei bronzi. Ma quali bronzi? Quasi certamente i cimbali, delle sorta di strumenti musicali bronzei, spesso usati in combinazione ad altri strumenti, quali flauti o altri tamburi, per generare ritmi ossessivi e sfrenati. Interessante anche, oltre all’Idaeumque nemus (il bosco del monte Ida), legato come detto all’origine presunta presso Creta del culto, i fida silentia sacris, il fidato silenzio dei riti sacri. Ci si riferisce qui al carattere segreto, riservato, addirittura misterico di questo culto: i misteri di Cibele non andavano rivelati, carattere comune con molti altri culti settari dell’antichità. Infine compare un elemento di notevole interesse iconografico: iuncti currum dominae subiere leones, “il carro della signora coi suoi leoni aggiogati”, come traduce Fo. In effetti Cibele era solitamente raffigurata su un carro trainato da due leoni (o talora due leopardi), che rappresentavano il suo carattere di divinità selvaggia, legata alla natura e alle bestie (come detto, era in un certo senso ella stessa Πότνια Θηρῶν).