Le figure delle Arpie vengono per antonomasia ritenute creature negative, plurimi sono dunque gli episodi letterari che le vedono protagoniste. Vengono qui riportati solo alcuni fra i più rilevanti.
Esiodo, Teogonia
vv.266-269
(...) ἣ δ᾽ ὠκεῖαν τέκεν Ἶριν
ἠυκόμους θ᾽ Ἁρπυίας Ἀελλώ τ᾽ Ὠκυπέτην τε,
αἵ ῥ᾽ ἀνέμων πνοιῇσι καὶ οἰωνοῖς ἅμ᾽ ἕπονται
ὠκείῃς πτερύγεσσι: μεταχρόνιαι γὰρ ἴαλλον.
Ed Iri veloce die' questa alla luce, ed Occhipète e Procella, le Arpie dalle fulgide chiome, che a pari errano a volo coi soffi dei venti e g li uccelli, sopra veloci penne, ché in alto si lanciano a corsa.
Esiodo cita le Arpie quali figlie di Iri nominando però solo Aello e Occhipete.
Omero, Odissea, I
vv. 234-243
νῦν δ' ἑτέρως ἐβόλοντο θεοὶ κακὰ μητιόωντες,
οἳ κεῖνον μὲν ἄϊστον ἐποίησαν περὶ πάντων 235
ἀνθρώπων, ἐπεὶ οὔ κε θανόντι περ ὧδ' ἀκαχοίμην,
εἰ μετὰ οἷσ' ἑτάροισι δάμη Τρώων ἐνὶ δήμῳ,
ἠὲ φίλων ἐν χερσίν, ἐπεὶ πόλεμον τολύπευσε.
τῶ κέν οἱ τύμβον μὲν ἐποίησαν Παναχαιοί,
ἠδέ κε καὶ ᾧ παιδὶ μέγα κλέος ἤρατ' ὀπίσσω. 240
νῦν δέ μιν ἀκλειῶς Ἅρπυιαι ἀνηρέψαντο·
οἴχετ' ἄϊστος ἄπυστος, ἐμοὶ δ' ὀδύνας τε γόους τε
κάλλιπεν·
Altro ora vollero gli dei, che contro di lui tramarono il male,
cosicché egli scomparve; e di nessuno si persero tanto le tracce. 235
Ché della sua morte non avrei tanto strazio,
se tra i compagni fosse caduto, in terra dei Teucri,
o tra le braccia dei suoi, dopo aver dipanato la guerra:
tomba gli avrebbero fatto tutti insieme gli Achei,
e al figlio gran fama avrebbe acquistata in futuro. 240
Invece l’hanno travolto le Arpie, senza gloria;
non visto, ignoto e scomparso: e a me gemiti e pene
ha lasciato.
Le figure delle Arpie sono qui associate alla morte violenta, il lamento di Telemaco indica la rilevante connessione fra le creature presentate e il verbo ἁρπάζειν legato inevitabilmente anche alla scomparsa di eroi “rapiti” dal Fato.
Omero, Odissea, XX
vv. 73-78
Εὖτ' Ἀφροδίτη δῖα προσέστιχε μακρὸν Ὄλυμπον,
κούρῃσ' αἰτήσουσα τέλος θαλεροῖο γάμοιο,
ἐς Δία τερπικέραυνον, - ὁ γάρ τ' ἐῢ οἶδεν ἅπαντα, 75
μοῖράν τ' ἀμμορίην τε καταθνητῶν ἀνθρώπων,
τόφρα δὲ τὰς κούρας Ἅρπυιαι ἀνηρέψαντο
καί ῥ' ἔδοσαν στυγερῇσιν Ἐρινύσιν ἀμφιπολεύειν·
Quando la luminosa Afrodite salí all'alto Olimpo,
a chiedere per le fanciulle sorte di nozze felici
a Zeus, che scaglia la folgore, perché lui sa tutto, 75
fortuna e sfortuna degli uomini mortali,
ecco che le fanciulle le Arpie rapirono in aria,
e in balía delle Erinni odiose le diedero.
La derivazione etimologica del nome delle creature emerge nuovamente nella preghiera di Penelope che supplica Artemide di poter perire per ricongiungersi, come sognato, all’amato marito. La donna in una similitudine si riferisce alle Arpie sottolineando infatti il rapimento delle figlie di Pandareo a favore delle Erinni da loro compiuto.
Virgilio, Eneide, VI
vv. 282-294
In medio ramos annosaque bracchia pandit
vlmus opaca, ingens, quam sedem Somnia vulgo
vana tenere ferunt, foliisque sub omnibus haerent.
multaque praeterea variarum monstra ferarum, 285
Centauri in foribus stabulant Scyllaeque biformes
et centumgeminus Briareus ac belua Lernae
horrendum stridens, flammisque armata Chimaera,
Gorgones Harpyiaeque et forma tricorporis umbrae.
corripit hic subita trepidus formidine ferrum 290
Aeneas strictamque aciem venientibus offert,
et ni docta comes tenuis sine corpore vitas
admoneat volitare cava sub imagine formae,
inruat et frustra ferro diverberet umbras.
Nel mezzo spande i rami, decrepite braccia,
un olmo oscuro, immenso, dove si dice che abitino
a torme i Sogni fallaci, e aderiscono sotto ciascuna foglia.
Inoltre numerosi prodigi di diverse fiere, 285
i Centauri s'installano alle porte e le Scille biformi
e Briareo dalle cento braccia e la belva di Lerna,
e orribilmente stridendo, armata di fiamme, la Chimera,
e le Gorgoni e le Arpie, e la forma del fantasma dai tre corpi.
Allora Enea, tremante d'improvviso terrore, 290
afferra la spada, e ne oppone la punta ai venienti,
e se l'esperta compagna non lo ammonisse che si tratta di vite
che volteggiano tenui, incorporee, fantasmi in cavo sembiante,
irromperebbe, e invano col ferro squarcerebbe le ombre.
[trad. L. Canali]
Virgilio inserisce nuovamente la figura delle Arpie nel Libro VI durante la descrizione del vestibolo alle porte dell’antro infernale durante la catabasi di Enea. Non è chiara la doppia presenza delle creature nel regno dei vivi e in quello dei morti. Il legame con l’oltretomba ritorna nella Cantica infernale dantesca.
Dante Alighieri, Inferno, Canto XIII
vv. 10-12
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno. 12
vv. 100-102
Surge in vermena e in pianta silvestra:
l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra. 102
Dante riprende le figure delle Arpie ricollegandole all’episodio di Polidoro (si veda quanto detto a proposito del passo di Inferno XIII nei “Riferimenti in altri autori” dedicati al personaggio) adattato alla pena dei dannati morti a causa di suicidio. Rilevante il riferimento all’episodio virgiliano della “cacciata” dei Troiani dalle Strofadi e all’ “annunzio di futuro danno” evidente allusione alla profezia di Celeno. La negatività delle creature, già evidenziata dalla sozzura dei loro corpi, ritorna infine al v.102 con l’anafora del termine dolore.
Apollonio Rodio, Argonautiche, II
vv. 178-235
Ἔνθα δ’ ἐπάκτιον οἶκον Ἀγηνορίδης ἔχε Φινεύς,
ὃς περὶ δὴ πάντων ὀλοώτατα πήματ’ ἀνέτλη
εἵνεκα μαντοσύνης, τήν οἱ πάρος ἐγγυάλιξεν 180
Λητοΐδης· οὐδ’ ὅσσον ὀπίζετο καὶ Διὸς αὐτοῦ
χρείων ἀτρεκέως ἱερὸν νόον ἀνθρώποισιν.
Τῶ καί οἱ γῆρας μὲν ἐπὶ δηναιὸν ἴαλλεν,
ἐκ δ’ ἕλετ’ ὀφθαλμῶν γλυκερὸν φάος· οὐδὲ γάνυσθαι
εἴα ἀπειρεσίοισιν ὀνείασιν, ὅσσα οἱ αἰεὶ 185
θέσφατα πευθόμενοι περιναιέται οἴκαδ’ ἄγειρον.
Ἀλλὰ διὰ νεφέων ἄφνω πέλας ἀίσσουσαι
Ἅρπυιαι στόματος χειρῶν τ’ ἀπὸ γαμφηλῇσιν
συνεχέως ἥρπαζον. ἐλείπετο δ’ ἄλλοτε φορβῆς
οὐδ’ ὅσον, ἄλλοτε τυτθόν, ἵνα ζώων ἀκάχοιτο. 190
Καὶ δ’ ἐπὶ μυδαλέην ὀδμὴν χέον· οὐδέ τις ἔτλη
μὴ καὶ λευκανίηνδε φορεύμενος, ἀλλ’ ἀποτηλοῦ
ἑστηώς· τοῖόν οἱ ἀπέπνεε λείψανα δαιτός.
Αὐτίκα δ’ εἰσαΐων ἐνοπὴν καὶ δοῦπον ὁμίλου
τούσδ’ αὐτοὺς παριόντας ἐπήισεν, ὧν οἱ ἰόντων 195
θέσφατον ἐκ Διὸς ἦεν ἑῆς ἀπόνασθαι ἐδωδῆς.
ὀρθωθεὶς δ’ εὐνῆθεν, ἀκήριον ἠύτ’ ὄνειρον,
βάκτρῳ σκηπτόμενος ῥικνοῖς ποσὶν ᾖε θύραζε,
τοίχους ἀμφαφόων· τρέμε δ’ ἅψεα νισσομένοιο
ἀδρανίῃ γήραι τε· πίνῳ δέ οἱ αὐσταλέος χρὼς 200
ἐσκλήκει, ῥινοὶ δὲ σὺν ὀστέα μοῦνον ἔεργον.
ἐκ δ’ ἐλθὼν μεγάροιο καθέζετο γοῦνα βαρυνθεὶς
οὐδοῦ ἐπ’ αὐλείοιο· κάρος δέ μιν ἀμφεκάλυψεν
πορφύρεος, γαῖαν δὲ πέριξ ἐδόκησε φέρεσθαι
νειόθεν, ἀβληχρῷ δ’ ἐπὶ κώματι κέκλιτ’ ἄναυδος. 205
οἱ δέ μιν ὡς εἴδοντο, περισταδὸν ἠγερέθοντο
καὶ τάφον. αὐτὰρ ὁ τοῖσι μάλα μόλις ἐξ ὑπάτοιο
στήθεος ἀμπνεύσας μετεφώνεε μαντοσύνῃσιν·
«Κλῦτε, Πανελλήνων προφερέστατοι, εἰ ἐτεὸν δὴ
οἵδ’ ὑμεῖς, οὓς δὴ κρυερῇ βασιλῆος ἐφετμῇ 210
Ἀργῴης ἐπὶ νηὸς ἄγει μετὰ κῶας Ἰήσων.
ὑμεῖς ἀτρεκέως. ἔτι μοι νόος οἶδεν ἕκαστα
ᾗσι θεοπροπίῃσι. χάριν νύ τοι, ὦ ἄνα, Λητοῦς
υἱέ, καὶ ἀργαλέοισιν ἀνάπτομαι ἐν καμάτοισιν.
Ἱκεσίου πρὸς Ζηνός, ὅτις ῥίγιστος ἀλιτροῖς 215
ἀνδράσι, Φοίβου τ’ ἀμφὶ καὶ αὐτῆς εἵνεκεν Ἥρης
λίσσομαι, ᾗ περίαλλα θεῶν μέμβλεσθε κιόντες,
χραίσμετέ μοι, ῥύσασθε δυσάμμορον ἀνέρα λύμης,
μηδέ μ’ ἀκηδείῃσιν ἀφορμήθητε λιπόντες
αὔτως. οὐ γὰρ μοῦνον ἐπ’ ὀφθαλμοῖσιν Ἐρινὺς 220
λὰξ ἐπέβη, καὶ γῆρας ἀμήρυτον ἐς τέλος ἕλκω·
πρὸς δ’ ἔτι πικρότατον κρέμαται κακὸν ἄλλο κακοῖσιν
Ἅρπυιαι στόματός μοι ἀφαρπάζουσιν ἐδωδὴν
ἔκποθεν ἀφράστοιο καταΐσσουσαι ὄλεθρου.
ἴσχω δ’ οὔτινα μῆτιν ἐπίρροθον. ἀλλά κε ῥεῖα 225
αὐτὸς ἑὸν λελάθοιμι νόον δόρποιο μεμηλώς,
ἢ κείνας· ὧδ’ αἶψα διηέριαι ποτέονται.
τυτθὸν δ’ ἢν ἄρα δήποτ’ ἐδητύος ἄμμι λίπωσιν,
πνεῖ τόδε μυδαλέον τε καὶ οὐ τλητὸν μένος ὀδμῆς·
οὔ κέ τις οὐδὲ μίνυνθα βροτῶν ἄνσχοιτο πελάσσας, 230
οὐδ’ εἴ οἱ ἀδάμαντος ἐληλάμενον κέαρ εἴη.
ἀλλά με πικρὴ δῆτα καὶ ἄατος ἴσχει ἀνάγκη
μίμνειν καὶ μίμνοντα κακῇ ἐν γαστέρι θέσθαι.
Su quella riva abitava Fineo, figlio di Agenore,
che fra tutti gli uomini subì le pene più atroci,
per l’arte profetica che gli donò un tempo il figlio di Leto; 180
non ebbe alcun ritegno nemmeno a rivelare agli uomini
precisamente il sacro pensiero del figlio di Crono.
E perciò il dio gli assegnò una vecchiaia lunghissima,
e gli tolse la dolce luce degli occhi e non gli permise
di gustare i molti cibi che gli portavano a casa i vicini, 185
chiedendogli una profezia; perché, piombando
attraverso le nuvole, le Arpie glieli strappavano sempre
dalle mani e dalla bocca coi loro rostri e talvolta
non gli lasciavano nulla, talaltra pochissimo cibo,
perché continuasse a vivere e a soffrire. 190
Però vi spargevano un odore schifoso e nessuno poteva
non solo portarlo alla bocca, ma sopportarlo
da lontano, tale fetore esalavano i resti del pranzo.
Ma quando sentì la voce, il frastuono di un gruppo di uomini,
capì ch’eran giunti quelli che gli avrebbero dato, 195
secondo i vaticini di Zeus, la gioia del cibo.
Si alzò dal suo letto, come un fantasma nel sogno,
appoggiato al bastone, coi piedi contratti giunse fino alla porta,
tastando i muri, e camminando le membra tremavano
di fragilità e di vecchiaia: il corpo era secco, e duro di sudiciume, 200
e la pelle teneva insieme soltanto le ossa.
Uscito di casa, piegò le ginocchia sfinite e sedette
sulla soglia dell’atrio; l’avvolse una scura vertigine
e gli parve che la terra girasse intorno a lui dal profondo;
senza parole cadde in un torpore spossato. 205
Come lo videro, gli eroi gli si raccolsero intorno
stupiti, ed egli, traendo a fatica il respiro
dal profondo del petto, disse parole profetiche:
«Ascoltatemi, voi che siete i più prodi di tutta la Grecia,
se siete davvero quelli che per un duro comando regale, 210
sulla nave Argo, Giasone porta al vello d’oro.
Ma certo lo siete; ancora la mia mente conosce tutte le cose
per scienza divina: ti ringrazio, signore, figlio di Leto,
pure in mezzo ai miei dolorosi travagli.
In nome di Zeus protettore dei supplici, e punitore implacabile 215
dei malvagi, in nome di Febo, in nome di Era stessa,
che più di tutti gli dèi ha cura del vostro viaggio, vi supplico,
datemi aiuto, salvate dalla rovina un uomo infelice,
e non partite lasciandomi abbandonato così come sono.
Non soltanto l’Erinni mi ha calpestato gli occhi 220
ma a questi mali si aggiunge un altro male più amaro.
Le Arpie mi rapiscono il cibo di bocca
Piombando da non so dove, da qualche nido funesto,
e non ho modo di difendermi. Più facilmente
quando ho voglia di cibo, potrei celarlo a me stesso 225
che a quelle, tanto veloci attraversano l’aria.
Se talvolta per caso mi lasciano un poco di cibo,
manda un odore tremendo, che non si può sopportare.
Nessuno degli uomini potrebbe mai avvicinarsi,
neppure un momento, neppure se avesse il cuore di acciaio. 230
Ma la necessità mi costringe, amara, insaziabile,
a restare, e non solo, a mettere nel mio maledetto ventre quel cibo.
Il mito di Fineo, narrato da Apollonio Rodio, si focalizza sull’azione deturpatrice delle Arpie legate ancora una volta alla figura delle Erinni. Si notino le allusioni al fetore e alle mense, presenti anche in Virgilio.
Ariosto, Orlando Furioso
Canto XXXIII, ottave 107-109
Di quanti re mai d'Etïopia fôro, 107
il più ricco fu questi e il più possente;
ma con tutta sua possa e suo tesoro,
gli occhi perduti avea miseramente.
E questo era il minor d'ogni martoro:
molto era più noioso e più spiacente,
che, quantunque ricchissimo si chiame,
cruciato era da perpetua fame.
Se per mangiare o ber quello infelice 108
venìa cacciato dal bisogno grande,
tosto apparia l'infernal schiera ultrice,
le mostruose arpie brutte e nefande,
che col griffo e con l'ugna pretatrice
spargeano i vasi, e rapian le vivande;
e quel che non capia lor ventre ingordo,
vi rimanea contaminato e lordo.
E questo, perch'essendo d'anni acerbo, 109
e vistosi levato in tanto onore,
che, oltre alle ricchezze, di più nerbo
era di tutti gli altri e di più core;
divenne, come Lucifer, superbo,
e pensò muover guerra al suo Fattore.
Con la sua gente la via prese al dritto
al monte onde esce il gran fiume d'Egitto
Canto XXIV, ottave 1-4
Oh famelice, inique e fiere arpie 1
ch'all'accecata Italia e d'error piena,
per punir forse antique colpe rie,
in ogni mensa alto giudicio mena!
Innocenti fanciulli e madri pie
cascan di fame, e veggon ch'una cena
di questi mostri rei tutto divora
ciò che del viver lor sostegno fôra.
Troppo fallò chi le spelonche aperse, 2
che già molt'anni erano state chiuse;
onde il fetore e l'ingordigia emerse,
ch'ad ammorbare Italia si diffuse.
Il bel vivere allora si summerse;
e la quïete in tal modo s'escluse,
ch'in guerre, in povertà sempre e in affanni
è dopo stata, et è per star molt'anni:
fin ch'ella un giorno ai neghitosi figli 3
scuota la chioma, e cacci fuor di Lete,
gridando lor: - Non fia chi rassimigli
alla virtú di Calai e di Zete?
che le mense dal puzzo e dagli artigli
liberi, e torni a lor mondizia liete,
come essi già quelle di Fineo, e dopo
fe' il paladin quelle del re etïopo.
Il paladin col suono orribil venne 4
le brutte arpie cacciando in fuga e in rotta,
tanto ch'a piè d'un monte si ritenne,
ove esse erano entrate in una grotta.
L'orecchie attente allo spiraglio tenne,
e l'aria ne sentì percossa e rotta
da pianti e d'urli e da lamento eterno:
segno evidente quivi esser lo 'nferno
Le Arpie vengono ancora una volta riprese da Ariosto nell’episodio della catabasi di Astolfo. L’eroe, che com’è noto è inoltre legato alla figura di Polidoro, segue le mostruose creature sino all’entrata dell’Inferno. Il passo ripropone il rapporto Arpie/mense e Arpie/oltretomba in una chiave ironia ben differente dal tono dantesco.