Luogo
Sin dall’antichità la terra dei Ciclopi è stata identificata con l’area della Trinacria, l’attuale Sicilia, sottostante l’Etna; numerosi i riferimenti ad essa in Tucidide, Omero e Virgilio. Recenti studi riconducono le figure mitologiche dei Ciclopi a una scorretta interpretazione degli antichi di fossili di elefanti nani, i quali crani presentavano una cavità nasale erroneamente interpretata come un' unica, grande orbita oculare. Altri studiosi, basandosi su ritrovamenti di tracce della lavorazione dei metalli in quelle zone, propendono per identificare con i Ciclopi una popolazione di fabbri, emigrata dall’Oriente.
Polifemo (e Achemenide)
Oltre al celeberrimo episodio narrato nell’Odissea, Polifemo ritorna diverse volte nella letteratura antica. Se da una parte Omero descrive i Ciclopi come esseri selvaggi privi di leggi (αθεμιστοι, Odissea, canto IX, v. 106), che non rispettano nemmeno il sacro vincolo della ξενια (“ospitalità”) e Virgilio riprende le cruente descrizioni di questi mostri orridi e nefandi, dall’altra Euripide propone nel suo dramma satiresco Κύκλωψ una versione più civilizzata di Polifemo e nell’Idillio XI di Teocrito il ciclope si umanizza in un giovane rozzo ma sentimentale, innamorato di Galatea, una ninfa del mare. Inoltre, nonostante secondo Esiodo i Ciclopi fossero arcaiche divinità, figli di Urano e Gaia, i fabbri divini inventori del fulmine (Teogonia, vv. 139-146), in Omero e in Virgilio essi sono invece un popolo di pastori, figlio di Poseidone, che vive in un ambiente appartato e selvaggio. Omero si riferisce all’abitazione di Polifemo con il termine σπεος (“grotta”), che è intrinsecamente associato a entità non umane, e Virgilio (Eneide, III, vv. 643‑644) ci riferisce con precisione che gli orribili Ciclopi vivevano in caverne sparse per le curve coste ed erravano sugli alti monti. Virgilio in un certo senso riprende dove l’Odissea aveva lasciato, attraverso la figura di Achemenide: figlio di Adamasto di Itaca e compagno di Ulisse, egli non era riuscito a raggiungere le navi in tempo per fuggire ed era rimasto nell’isola, come narra brevemente ai Troiani che sono giunti su quelle spiagge pericolose. Disperato per la sua sorte, Achemenide va incontro a quelli che dovrebbero essere i suoi nemici, consapevole di aver combattuto contro di loro, preferendo morire per mano di uomini che subire quanto era accaduto ai compagni. Dopo aver udito il tremendo racconto i Troiani non solo non infliggono ad Achemenide la morte, ma lo salvano prendendolo con sé: essi infatti, pur remori del discorso menzognero di Sinone che aveva portato alla disfatta di Ilio (Eneide, II, v. 87), si fidano delle parole del greco e riescono a fuggire dal luogo.